Le idee diventano aziende grazie al microcredito

Migliaia di buone idee restano nel cassetto, perché molti possibili auto-imprenditori non hanno accesso al credito. Il microcredito può essere una soluzione. Ecco come fare.
05 Ottobre 2016 | di

C’è chi ha un’idea imprenditoriale, un sogno nel cassetto, un’abilità spiccata in certi lavori, sa che potrebbe mettersi in proprio, ma non ha i soldi per poterlo fare. E così rimane incastrato in quel limbo assurdo che sta tra la disoccupazione e l’impossibilità di diventare un auto-imprenditore. Un cane che si morde la coda perché il sistema di credito tradizionale non presta soldi a chi non può offrire garanzie, a chi cioè non ha stipendi o beni su cui la banca può rivalersi in caso di mancato pagamento. E quante attività rimangono nel cassetto perché nessuno dà loro una chance?

C’è però uno strumento finanziario per cui le idee e le competenze pesano come moneta sonante. Si chiama microcredito. Si tratta di piccoli prestiti concessi ai non bancabili, a chi cioè non ha le famose garanzie patrimoniali, ma ne ha altre di altro tipo. In Italia in teoria tutti lo conoscono, se non altro perché hanno sentito parlare di Muhammad Yunus, economista e Nobel par la pace nel 2006, che ha creato in Bangladesh la Grameen Bank: una banca di microcredito che ha consentito soprattutto alle donne non bancabili, di ottenere un piccolo prestito per creare microimprese familiari.

Questo mezzo è penetrato nel mondo occidentale. In alcuni Paesi ha raggiunto livelli davvero ragguardevoli, aiutando a limitare emarginazione e disoccupazione. In Italia ha sempre fatto fatica a decollare. Il nostro sistema di credito l’ha sempre snobbato perché non conviene prestare pochi soldi ed è rischioso senza garanzie. A fare microcredito possono essere quindi sostanzialmente due attori: enti privati che sono all’interno dell’economia sociale, cioè di quell’economia che non mira alla massimizzazione degli utili come le banche ma ha scopi di inclusione sociale. O enti statali a livello nazionale o locale che lo utilizzano come una forma di welfare, di aiuto sociale. Occorrono insomma competenze del tutto diverse da quelle bancarie che sappiano pesare le idee e i progetti imprenditoriali e l’affidabilità intangibile del soggetto.

Si sono rivolte a un ente di microcredito privato Manuela, Valentina e Lisa per la loro Manukafashion, un’impresa di manufatti per la casa di artigianato afro-italiano che oggi passa lavoro a 4 sarti: un’ucraina, due rifugiati africani e un artigiano del Malawi. Tutte e tre hanno studi di cooperazione internazionale alle spalle, anni di impegno con alcune ong in Paesi africani, il sogno di allargare le prospettive di lavoro per sé e per alcuni rifugiati. «Abbiamo fatto un business plan – racconta Lisa, il cuore amministrativo dell’azienda - e ci siamo rivolti a Permicro (l’impresa più grande di microcredito privato in Italia) per avere un finanziamento. Siamo stati accompagnati in ogni fase dell’avviamento dell’azienda, e a tutt’oggi continuano a seguirci a distanza di un anno».

Si sono invece rivolti a un nuovissimo progetto di microcredito pubblico, lanciato dall’Ente Nazionale Microcredito, gli ideatori di un’originale birreria paninoteca, nata nel quartiere Torrino di Roma. A tutto Iuppolo, questo il nome dell’impresa, è la fusione di due passioni, quella di Fiorenzo per le birre artigianali e quella di Andrea cultore dei panini imbottiti con le migliori specialità italiane. «Avevamo appena iniziato e soffrivamo i problemi economici di tutti quelli che cominciano un’attività. È stata l’agenzia Bcc (Banco di credito cooperativo) dove avevamo aperto il conto dell’azienda a proporci questa soluzione. Ci è quindi stato assegnato un tutor con cui pianificare il progetto. Ci hanno fornito informazioni e assistenza nella compilazione delle pratiche. Alla fine del percorso, dopo 30 giorni, ci è arrivato un finanziamento di 25 mila euro. Una boccata di ossigeno, che ci ha consentito di avviare “la macchina” al meglio».

Ma chi può chiedere il microcredito? Anche qui bisognerebbe fare dei distinguo a seconda dell’ente a cui ci si rivolge. Ma per facilità stiamo ai termini che ha stabilito la nuova normativa, che per la prima volta ha definito il microcredito nel nostro Paese.

Possono accedere al microcredito solo un singolo o un’azienda che sono non bancabili, e in attività da non più di cinque anni (c’è anche un limite da verificare sul numero dei dipendenti). Condizione fondamentale è che accettino un particolare iter. L’ idea imprenditoriale deve essere prima vagliata dall’ente scelto e poi tradotta in un business plan. A questo punto un tutor seguirà tutte le fasi di avviamento e controllerà ogni step. I servizi ausiliari di sviluppo e monitoraggio sono considerati fondamentali dalla legge, per dare solide basi alle nuove aziende.

L’importo massimo è di 25 mila euro e può essere esteso a 35 mila. Il credito è rimborsabile in 5 anni. Per avviare la macchina bisogna rivolgersi a un ente privato di microcredito - i più strutturati sono Permicro e Banca Etica o a un ente statale. In quest’ultimo caso l’esperienza più recente e più ramificata in Italia è quella dell’ Ente Nazionale Microcredito.

Che differenze ci sono tra microcredito pubblico e privato? Perchè uno strumento finanziario che potrebbe cambiare la vita a molti fa così fatica ad attecchire in Italia? Quale potrebbe essere il suo futuro? L'inchiesta completa è pubblicata sul numero di ottobre 2016 del «Messaggero di sant’Antonio» e nella versione digitale della rivista.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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