La misura della felicità

Se ogni scelta economica e politica si fonda sul Pil, sull'indicatore della crescita economica di un Paese, si trascurano importanti valori alla base del benessere umano. Con conseguenze pesanti per la collettività. Ecco perché urgono nuovi indicatori.
21 Aprile 2015

Nella vita siamo abituati a ragionare naturalmente a più dimensioni per inquadrare un problema. Per capire se la nostra automobile è a posto, non guardiamo solo il contachilometri, ma chiediamo al meccanico di controllare anche gomme, olio, acqua. Quando dobbiamo comprare una casa, non scegliamo solo in base ai metri quadri ma andiamo a vedere il quartiere, l’esposizione, l’eventuale arredamento e molti altri particolari. Eppure, quando si parla di benessere ci fermiamo quasi sempre alla dimensione unica del Pil, Prodotto interno lordo (l’indicatore della ricchezza di un Pae­se). Si tratta di un approccio riduzionista molto più pericoloso di quello che sembra.

Gli indicatori di benessere non sono solo un «giochino» per statistici, senza conseguenze sulla realtà, ma sono gli indicatori fondamentali che influenzano le direzioni di marcia dell’intero sistema politico-economico.

Riducendo tutto al Pil rischiamo di avere (come spesso accade) politici, media e opinione pubblica che costruiscono i loro giudizi di valore sull’opportunità o meno di allocare le risorse a questo o quel progetto, unicamente in base al metro della crescita del Pil.

Nessuno meglio di Robert Kennedy, nel lontano 1968, con il suo fulminante discorso agli studenti del Kansas passato ormai alla storia, ha spiegato più chiaramente i limiti di questo approccio e i difetti del Pil. «Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle (...). Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. (...) Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti tra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».

I paradossi del Pil Esistono, insomma, molte cose negative per il nostro benessere che fanno crescere il Pil e molte cose fondamentali per il bene comune e la felicità che il Pil omette. Alcune di queste ultime addirittura influiscono negativamente sulla sua crescita. La situazione dai tempi di Kennedy è ulteriormente peggiorata, perché proprio lo scorso anno abbiamo preso la controversa decisione di inserire nelle statistiche del Pil i proventi da droga, contrabbando e prostituzione, non resistendo alla tentazione di «abbellire» i nostri numeri, per affrontare meglio la sfida della sostenibilità dei conti pubblici a livello comunitario. Violando, tra l’altro, una regola di contabilità che impone si registrino solo transazioni tra controparti che vi partecipano senza alcuna costrizione.

Se anche considerassimo soltanto la dimensione «materialista» dei beni e servizi di cui il Pil prevalentemente si occupa, quello che finisce nel suo novero è solo uno dei tre canali attraverso cui normalmente si producono beni e servizi essenziali. I due canali ignorati sono la famiglia e il volontariato, perché i loro beni e servizi non sono scambiati sul mercato con transazioni monetarie e quindi sono invisibili.

Se considerassimo il Pil una misura statistica come le altre non ci sarebbe nessun problema. In realtà, poiché del Pil abbiamo fatto un idolo e l’indicatore chiave per passare esami importanti come quelli della sostenibilità del nostro bilancio pubblico in sede di Unione europea, le conseguenze del disallineamento tra questa misura e il vero benessere di una società sono paradossali. Se le forze dell’ordine si impegnano con successo nel ridurre fenomeni come il gioco d’azzardo illegale, il contrabbando, la droga e la prostituzione, potrebbero trovarsi nella spiacevole posizione di essere accusate di danno erariale o di «attentare» al benessere economico del Paese.

Gli altri indicatori Per evitare tutto questo, ormai da tempo in molti Paesi ci si sta impegnando a costruire indicatori di benessere alternativi. La difficoltà più grande, in questo caso, non sta tanto nel crearli, quanto nel farli poi affermare nella considerazione dell’opinione pubblica e dei politici come indicatori chiave per le scelte, in alternativa al Pil. Proprio dai politici dovrebbe in realtà arrivare una sponda sempre più convinta a questo tentativo di rivoluzione. Non sono affatto infrequenti, infatti, casi come quelli del paradosso di Easterlin, dal nome di un professore dell’Università della California, il quale, già nel 1974, evidenziò come la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito; spesso, infatti, il Pil cresce mentre la soddisfazione di vita della popolazione è stazionaria o addirittura in diminuzione. E siccome i cittadini votano o confermano al governo una classe politica sulla base della loro soddisfazione di vita complessiva, i nostri politici possono trovarsi nella situazione di vedersi sfumare la rielezione per aver guardato solo al Pil, trascurando le dinamiche del vero benessere.

Anche per questi motivi siamo oggi pieni di indicatori alternativi che fanno però ancora fatica ad affermarsi.

Si è iniziato a livello di Nazioni Unite con l’Indicatore di Sviluppo Umano che combina tre variabili: aspettativa di vita, istruzione e benessere economico; si è poi passati al Genuine Progress Indicator, costruito proprio sull’intuizione di Kennedy, scorporando dal Pil elementi che riducono il benessere e aggregandone altri che lo aumentano, come il valore prodotto dalle attività di volontariato. Nel novero rientra anche l’Happy Planet Index, che combina soddisfazione di vita, aspettativa di vita e impronta ecologica, fino ad arrivare all’Indicatore della Felicità Lorda del Bhutan, un piccolo regno ai piedi dell’Himalaya, dove il sovrano ha costruito un indice composito che include dimensioni come quella del benessere spirituale dei propri sudditi.

Nuova spinta alla costruzione di alternative al Pil è arrivata recentemente da una commissione di premi nobel (tra cui Amartya Sen e Joseph Stiglitz) che ha anche definito una serie di linee guida per la costruzione dei nuovi indicatori.

L’Italia del Bes L’Italia è stato uno dei Paesi più attivi in tal senso, pervenendo due anni fa alla costruzione del Bes (Benessere Equo e Sostenibile), che è una batteria di indicatori che fotografa ogni anno il benessere del Paese a più dimensioni. L’aspetto interessante dell’approccio italiano è che è stato partecipato dal basso. L’Istat ha convocato al Cnel le parti sociali chiedendo loro quali fossero le dimensioni del benessere. E gli italiani hanno indicato dodici ambiti (salute, istruzione e formazione, lavoro e armonizzazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi), oggetto poi di lavoro da parte di apposite commissioni di studio (a cui, peraltro, ho avuto l’onore di partecipare), che hanno costruito un totale di quasi 134 indicatori.

Il Bes ci dà oggi una fotografia molto più ricca e variegata del benessere del nostro Pae­se, anche in questi anni di crisi. Ad ambiti dove le cose sono marcatamente peggiorate (come benessere economico, lavoro e furti contro il patrimonio), si alternano altri dove il trend di progresso positivo non si arresta (salute e istruzione e diminuzione dei reati contro la persona) o si inverte in positivo proprio a causa della crisi economica (ambiente). Interessante osservare che il nostro Paese ha registrato nel 2012 un marcato declino della soddisfazione di vita (un calo di quasi il 20 per cento tra coloro che si dichiarano molto soddisfatti della propria vita) in coincidenza con l’apice della crisi dello spread.

Il progresso ulteriore che oggi siamo chiamati a compiere è duplice. Da una parte il comitato scientifico di cui faccio parte si sta occupando di studiare i fattori di fragilità e di resilienza del benessere, analizzando le interazioni tra le varie dimensioni. Per esempio: più istruzione vuol dire più benessere economico, opportunità di lavoro ma anche più salute e capitale sociale e, al converso, la crescita dei giovani che né lavorano né studiano è un fattore di fragilità. La seconda direzione di progresso sta nella capacità di costruire strumenti per l’analisi d’impatto delle scelte politiche sulla base degli indicatori del Bes, orientandosi nella batteria delle misure e costruendo strumenti di ponderazione tra le varie dimensioni. Una sfida solo in parte tecnica, perché riguarda soprattutto la sfera politica e culturale.  

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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