La libertà secondo Ai Weiwei

Designer, architetto, blogger, attivista, carcerato e dissidente. Sono le molte facce di un artista cinese tra i più influenti ed eclettici dei nostri tempi. Una mostra a Firenze ne ripercorre, fino al 22 gennaio, trent’anni di carriera.
10 Gennaio 2017 | di

Ci sono le cornici a cassetta e quelle a festoni, quelle laccate o lastronate. E poi ci sono le cornici «a canotto». Certo un po’ insolite, ma di sicuro effetto. Come del resto testimoniano le espressioni allibite dei turisti che ogni giorno (e fino al 22 gennaio) passano davanti a Palazzo Strozzi, a Firenze. Intorno alle bifore del piano nobile, su due facciate dell’edificio rinascimentale, in effetti, i canotti ci sono eccome. Ventidue, rossi, di quelli che normalmente si usano per soccorrere i profughi venuti dal mare. A dare loro questa insolita collocazione (il titolo dell’opera, Reframe, allude a una Nuova cornice di solidarietà tra popoli e culture) è stato un designer-architetto, un attivista e dissidente politico, ma anche, a detta di molti, il più influente artista dei nostri tempi.

Difficile, negli ultimi mesi, non essersi imbattuti nel suo viso rotondo come una luna che campeggia su locandine e manifesti. Una volta incontrati, non si dimenticano facilmente quegli occhi un po’ gonfi e tristi, tenuti spalancati dalle dita, quasi fossero un invito a guardare oltre la superficie delle cose. Provocatore per natura, Ai Weiwei non si accontenta di stupire. Sua missione è accendere i riflettori su una serie di questioni cruciali: la libertà di espressione, diritto inalienabile dell’individuo oltre ogni prevaricazione. Il valore della storia e della tradizione, che devono sempre affiancare la contemporaneità. E, in ultimo, il «nodo migranti», così ancora drammaticamente attuale e irrisolto.

È proprio per parlare al mondo di queste priorità che Weiwei ha rivestito pietre e intonachi di Palazzo Strozzi con più di sessanta opere, tra installazioni, oggetti d’artigianato e fotografie. Trent’anni di sfide, gioie e amarezze condensate in una retrospettiva che ne ha richiesti almeno due per prendere vita. Ogni sala, ogni corridoio, portano il visitatore un passo più vicino all’artista. Ai Weiwei il figlio del poeta Ai Qing, esule nel deserto del Gobi sotto il regime di Mao, Ai Weiwei il designer sbarcato a New York nel 1981 con trenta dollari in tasca. E ancora, l’architetto che ha co-progettato lo Stadio nazionale di Pechino, l’attivista contro il governo cinese, il detenuto, il blogger, il fotografo… Tante, forse troppe, facce per un solo uomo? 

Ma chi è davvero Ai Weiwei? «Un artista – risponde laconico il sito aiweiwei.com alla voce “biografia” –. Nato nel 1957, attualmente risiede e lavora a Pechino». Non c’è bisogno di sapere altro. Il resto lo spiegano le sue opere, espressioni d’impegno civile, prima che estetico. Sì, perché Ai Weiwei non è un semplice creatore. Estro e vissuto in lui si compenetrano. «Tutto è arte. Tutto è politica» spiega il performer nel 2010. Non è un caso se – parafrasando Arturo Galansino, curatore della mostra fiorentina – «la sua attività di dissidente è andata di pari passo alla produzione artistica». «Ai Weiwei – continua il direttore della Fondazione Palazzo Strozzi – è diventato un simbolo della lotta per i diritti umani, come attesta il titolo di Ambassador of coscience conferitogli da Amnesty International (nel 2015) e la sua voce echeggia fuori dal mondo dell’arte, si rivolge all’umanità intera e ci parla di temi legati all’umanità stessa».

Lunga vita alla parola

Un’insolita luce argentea filtra dal cortile interno di Palazzo Strozzi e costringe i visitatori a serrare le palpebre. Poi le pupille si abituano al bagliore e, man mano, ingabbiata nel portico, si materializza una grande ala d’acciaio che assembla pannelli solari e bollitori da tè. Presentata nel 2014 nell’ex penitenziario di Alcatraz, Refraction (Rifrazione) è metafora della libertà che non spicca il volo, la libertà oppressa dai grandi poteri. Basterebbe quest’opera per capire dove Ai Weiwei vuole andare a parare nella sua retrospettiva, ma il percorso è appena iniziato. E le scale che portano al piano nobile sono dietro l’angolo. Dieci, venti, trenta gradini dopo, uno strano odore di gomma da pneumatici s’insinua nelle narici. Di fronte all’arco trionfale formato da 950 biciclette il fiatone cede il passo allo stupore. Omaggio al primo readymade della storia – Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp (1913) –, Stacked (Impilate, 2012) è un labirinto di moduli ripetuti all’infinito. Come la tradizione dadaista insegna, l’oggetto quotidiano inserito in un contesto diverso si carica di nuovo significato. Ed ecco che un simbolo d’indipendenza come la due ruote, diventa per Ai Weiwei espressione di staticità e omologazione. La marca Forever che s’intravvede sui pali assemblati riporta indietro nel tempo, nella Cina degli anni Quaranta, quando il problema del traffico urbano e dell’inquinamento non teneva ancora in scacco il Paese.

È dedicata a un’altra emergenza la sala successiva. Il 12 maggio del 2008, nella provincia cinese del Sichuan, un terremoto di magnitudo 8 sulla scala Richter provoca 70 mila vittime, gran parte delle quali sono studenti. Ai Weiwei si reca sul posto e scopre che le scuole crollate erano state costruite con materiali di seconda mano. La pubblicazione dei nomi dei morti sul suo blog e l’accusa diretta al governo cinese gli costano ottantuno giorni di carcere (nel 2011), il ritiro del passaporto (che gli è stato restituito solo nel 2015) e il divieto di rilasciare interviste. Il flusso creativo di Weiwei però è inarrestabile. Convinto che «la libertà consiste nel diritto di mettere tutto in discussione», nel 2008 l’artista assembla 360 zaini a formare un serpente gigante Snake bag (Borsa serpente) che ora striscia su un’intera parete di Palazzo Strozzi. Ai piedi del rettile, disseminate per la sala, se ne stanno otto piccole bare in legno huali dalle forme insolite (Rebar and case, Tondino e cassa, 2014). Ciascuna contiene un bastoncino sformato, a ricordo delle barre d’acciaio piegate dal sisma e dei 5 mila giovani caduti tra le macerie.

«L’artista sarà tanto più perfetto quanto più saranno in lui completamente separati l’uomo che soffre e la mente che crea» scriveva T. S. Eliot in Tradizione e talento individuale (1919). Mai come nel caso di Ai Weiwei questa affermazione va rivista e corretta. Se il poeta inglese avesse avuto ragione, ora non si potrebbero ammirare i ritratti in Lego di Dante Alighieri, Filippo Strozzi, Girolamo Savonarola e Galileo Galilei (2016): dissidenti politici per eccellenza in cui Weiwei rivede se stesso. Se davvero arte e vita viaggiassero su binari paralleli, non ci sarebbero le grucce in cristallo e legno huali (2013 e 2013), simili a quelle sulle quali Weiwei stendeva la biancheria in cella. Tanto meno le manette (2012) in giada, minerale solitamente utilizzato per creare gioielli. «Il braccialetto più tipico della Cina contemporanea è quello della schiavitù», sembra suggerirci l’artista mentre facciamo lo slalom tra repliche di ossa umane trovate in un campo di lavoro cinese (Remains, 2015) e trentadue formelle in porcellana smaltata (Free speach puzzle, 2014) che riproducono le province cinesi e inneggiano alla libertà d’espressione.

Tradizione e tecnologia

Lunga vita alla parola dunque. Ma non solo. Altro elemento cardine dell’arte di Weiwei è il recupero della tradizione, in risposta a un governo che tende a distruggere il passato, anziché preservarlo. A partire dagli anni Novanta, l’artista recupera quindi legni antichi di trecento anni e li assembla realizzando mobili «impossibili». Il tavolo con due gambe che si arrampica al muro (1997) o il grappolo di trentaquattro sgabelli incastrati tra loro senza l’aiuto di chiodi o colle rappresentano la miriade di cinesi in bilico tra presente e passato, tra serialità e artigianalità. Le radici sono preziose e meritano rispetto. Pur di trasmettere il concetto, Weiwei si affida anche a gesti estremi. Come quando si immortala con i mattoncini Lego mentre distrugge un’urna della dinastia Han (2016) o quando, immergendo preziosi vasi antichi di duemila anni nella vernice per carrozzeria (2014), trasforma pezzi unici in prodotti seriali.

«L’arte può essere buona, cattiva o indifferente, ma in ogni caso è pur sempre arte» diceva Marcel Duchamp cinquant’anni fa. E allora via libera alla provocazione per risvegliare le coscienze. Spazio alla serie fotografica Study of perspective (Studio prospettico, 1995-2011), dove l’artista immortala la sua mano intenta a fare un gestaccio davanti a monumenti come il Colosseo, la Sagrada Familia o la Tour Eiffel. Spazio alla maschera antigas – allusione all’inquinamento atmosferico – e alla posa leg gun (Weiwei che imbraccia una gamba a mo’ di pistola), inno alla pace pubblicato su Instagram nel 2014 e ripreso in migliaia di scatti dagli internauti.

Ai panni di paladino della libertà, negli ultimi anni il maestro affianca quelli di icona pop virtuale. Passeggiando nei sotterranei di Palazzo Strozzi (Strozzina), la mutazione è lampante. Dalle Fotografie di NY, 1983-1993 fino ai Selfie postati sui social network dal 2009 in poi, emerge un Ai Weiwei interattivo che ama, ricambiato, la Rete. «Internet è la cosa migliore che potesse capitare alla Cina» dirà nel 2008. Forte dei suoi 273 mila follower su Instagram, il genio-dissidente trova nel web quello spazio di libertà che gli mancava. E lo utilizza per esprimere idee di cultura, politica, architettura. Certo che «l’arte non avrà futuro se non riuscirà ad adattarsi alla tecnologia e alla vita di oggi», Weiwei trasforma ogni suo intervento on-line in un’espressione artistica. E lo fa a testa alta. Perché «se Shakespeare vivesse oggi, magari scriverebbe su Twitter» pure lui. 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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