Il portavoce di san Giovanni Paolo II

Si è spento il 5 luglio 2017 Joaquín Navarro-Valls, indimenticato portavoce di Giovanni Paolo II. Per l’occasione riproponiamo questa ampia intervista, uscita sul «Messaggero di sant’Antonio» nel marzo 2010 col titolo di «Il Papa comunicatore».
06 Luglio 2017 | di

«Lo ricordo bene. Il Papa era lì, nella cappella privata, davanti al tabernacolo, e cantava sommessamente in polacco. Dire che pregava è riduttivo. Io dico che parlava. Parlava con una Persona».Joaquín Navarro-Valls, per ventidue anni portavoce di Giovanni Paolo II, risponde così quando gli si chiede qual è la prima immagine che gli viene in mente ripensando a papa Wojtyla. Un Papa grande comunicatore, proprio grazie a quel rapporto d’amore che aveva con Dio. «Per lui ogni momento e ogni luogo andavano bene per pregare: le lunghe ore in aereo durante i viaggi internazionali, le passeggiate sui sentieri di montagna. Pregava nella sua lingua, e io capivo poco, ma ogni tanto distinguevo il nome di una persona o di una località e allora mi rendevo conto che era una preghiera di intercessione. Per ogni cristiano la preghiera è una cosa buona e doverosa, ma per lui era soprattutto necessaria, come respirare».

Msa. Quando ti chiamò a dirigere la sala stampa vaticana, nel 1984, che cosa ti chiese? Ti diede indicazioni particolari? Navarro-Valls. Mi disse che voleva migliorare e ampliare il modo di comunicare non solo e non tanto della Chiesa in quanto istituzione, ma della Chiesa in quanto insieme di valori umani e spirituali. Non mi chiese altro. In seguito fu sempre così. Dava alcune indicazioni generali, ma lasciava massima libertà circa i modi e i tempi.

Come si realizzava il suo carisma della comunicazione nella vita quotidiana, nei contatti di lavoro? Dopo ogni incontro con un capo di Stato o di governo mi raccontava tutto e poi lasciava che fossi io a decidere che cosa poteva essere interessante per i giornalisti. Era molto aperto, sempre disponibile. Già a Cracovia, da vescovo, aveva l’abitudine di accogliere chiunque ne facesse richiesta, e da Papa fece lo stesso.

Qual è l’incontro più memorabile? Mi viene in mente quello con Andrei Sakharov, il grande dissidente, premio Nobel per la pace. Nel 1989, dopo l’esilio negli Stati Uniti, di ritorno in Russia volle conoscere il Papa e Giovanni Paolo II lo ricevette di pomeriggio. Fu una conversazione stupenda e alla fine Sakharov disse: «L’unica cosa bella del ventesimo secolo è stata l’elezione di quest’uomo». Ma riceveva anche persone semplicissime e sconosciute, e poi gli amici e i compagni polacchi di un tempo.

È vero che approfittava anche dei pranzi per stare in compagnia degli ospiti? Certamente, e posso dire che molte encicliche sono nate proprio così. Lui aveva in mente lo schema generale e gli obiettivi, ma sentiva il bisogno di sapere, di documentarsi, e per questo invitava a pranzo moltissime persone. Una volta, in vista di una delle sue encicliche sociali, riunì attorno al tavolo ben sette fra i più grandi economisti del mondo!

Anche il viaggio era per lui una forma di comunicazione e di incontro. Come preparava le sue trasferte? Studiava la storia, la letteratura e la cultura del Paese nel quale doveva recarsi. E nel caso, a dire il vero molto raro, che non ne conoscesse la lingua, si impegnava a studiare anche quella. Ricordo che nel 1981, per il viaggio in Estremo Oriente, volle imparare a leggere il giapponese. Non gli fu possibile riconoscere i segni, ma i suoni sì, e quando i giapponesi lo ascoltarono rimasero stupefatti.

E una volta rientrati a Roma c’era modo di commentare la trasferta appena conclusa? Sì, facevamo sempre un bilancio, spesso seduti a pranzo. Si commentava un po’ tutto, con grande libertà.

Che cosa lo preoccupava di più delle diverse realtà incontrate? Non posso dire di averlo mai visto preoccupato. A volte soffriva per le difficili condizioni sociali ed economiche di alcu­ni Paesi e chiedeva a noi collaboratori: «Che cosa può fare il Papa per aiutare questa gente?». L’ho anche visto commosso, ma preoccupato mai, perché aveva una grande fiducia in Dio e negli uomini. Quanto alle difficoltà personali, cercava sempre di vedere il lato comico delle situazio­ni. Ricordo che una volta, quando, non so più dove, alcuni contestatori lo accolsero con uno striscione che diceva «Tu sei l’anticristo», lui mi guardò con un sorriso, come per dire: mi stanno sopravvalutando.

E per te, come direttore della sala stampa, qual è stato il momento più difficile? Non posso dire che ci sia stato un particolare momento difficile. Per quanto riguarda il rapporto con l’Occidente, la difficoltà fu sempre una sola: riuscire a far passare il messaggio cristiano in una società così ampiamente e profondamente secolarizzata. Nel campo della comunicazione le difficoltà sono molte, ma alla fin fine si riducono a due. La prima è avere qualcosa da dire e la seconda è capire il mezzo con il quale hai a che fare. Circa la prima, la questione è molto semplice: se non si ha nulla da dire, meglio stare zitti. Circa il mezzo, occorre invece una preparazione specifica. Se parlo con una televisione, per esempio, devo sapere che non posso esprimermi come se tenessi una predica, altrimenti, come dite voi italiani, sai che pizza! Ogni mezzo ha la sua semantica. Giovanni Paolo II in questo era abilissimo, e io cercavo di imitarlo.

Non avete mai avuto un contrasto? Sinceramente non mi vengono in mente contrasti o incomprensioni. I compiti erano ben definiti. Lui fissava l’agenda, e lo faceva con grande capacità, senza mai andare al rimorchio di argomenti imposti da altri. Io dovevo comunicare i temi che aveva scelto.

Si dice sempre che Wojtyla fu un comunicatore di successo. Ma da che cosa dipendeva questa efficacia? Dipendeva da quello che diceva e dal modo in cui lo diceva. Non era mai formale. Perfino nelle occasioni più solenni, quando le immagini esteriori e i simboli rischiano di prevalere sui contenuti, lui riusciva a tenere ben desta l’attenzione di tutti sul messaggio che voleva far passare. Oggi quando le persone lo ricordano si sente dire spesso: era simpatico. Il che è vero, però è anche vero che diceva cose a volte molto dure ed era assai esigente. Per un cristiano la dimensione apostolica, la missionarietà, consiste non tanto nel rendere simpatico se stesso, ma nel far diventare simpatica la virtù. E in questo Wojtyla era imbattibile. Penso agli incontri con i giovani, molti dei quali, in quei grandi raduni, non erano neppure praticanti e a volte neppure cattolici. In quei casi lui riusciva a far vedere che la virtù è una cosa bella, il che è veramente decisivo, perché se dici che la virtù è una cosa bella ma la rendi antipatica hai fallito la tua missione!

Qual era il segreto del suo rapporto speciale con i giovani? Consisteva nel fatto che lui diceva a tutti: guarda che tu sei molto migliore di quanto pensi di essere o di quanto gli altri dicano di te. Dava fiducia, ma non a scopo strategico. Lo faceva perché ci credeva, perché vedeva davanti a sé creature di Dio. In questo era un padre vero, e come un vero padre era anche esigente. Infatti non ha mai coccolato nessuno, tanto meno i giovani. Sono i politicanti che coccolano la gente, per conquistare il consenso. Lui invece la sferzava, andando controcorrente rispetto alla cultura dominante, perché in un’epoca come la nostra, così pessimista circa l’essere umano, lui esprimeva un’antropologia ottimista.

Ti sei mai chiesto perché Giovanni Paolo II abbia scelto proprio te? All’epoca ero il presidente dell’Associazione della stampa estera in Italia e forse pensò che quel mio ruolo avrebbe potuto aiutarmi nel rapporto con i colleghi.

Veniamo agli anni della vecchiaia del Papa e della sua malattia. Come li visse, lui che amava così tanto comunicare e che progressivamente rimase prigioniero del suo corpo, fino a non poter più parlare? Potrà sembrare strano, ma quegli anni sono stati felicissimi dal punto di vista comunicativo. Le encicliche pubblicate furono tredici, ma ce ne fu anche una quattordicesima: la scrisse senza parole, continuando a essere pastore nonostante la malattia. In un mondo che spesso nasconde la sofferenza, la vecchiaia e la morte, lui volle dimostrare che l’ideale più alto non è il benessere fisico, ma la fedeltà. La gente capì.

Fu il Papa delle porte aperte. Ma che cosa gli permetteva di aprirle e di farsele aprire? Ricordo che una volta, in preparazione di un incontro interreligioso, un esponente della curia si lamentò sottolineando quanto fosse difficile trovare qualcosa in comune con gli esponenti delle altre religioni. Al che il Papa sbottò: «Ma il punto in comune è l’uomo!». Ecco che cosa gli permise di entrare in contatto con tutti. Fu questa attenzione per l’uomo concreto, con i suoi bisogni, le sue difficoltà, le sue speranze.

Un’ultima domanda: adesso che cosa fa il dottor Joaquín Navarro-Valls? Sono tornato alla medicina, il mio primo amore. Sono presidente del Comitato di consulenza e indirizzo dell’Università Campus Biomedico di Roma.

E il libro di memorie quando arriverà? Non lo so. Ho raccolto tutto il materiale, ma sono ventidue anni di storia, e per scrivere avrei bisogno di tempo. Comunque resta un imperativo morale.

 

La scheda

Joaquín Navarro-Valls nasce a Cartagena, nella regione spagnola della Murcia, il 16 novembre 1936. Medico specializzato in psichiatria, si è laureato anche in giornalismo e in scienze della comunicazione. Corrispondente del Nuestro tiempo e inviato del quotidiano di Madrid Abc, è stato presidente dell’Associazione della stampa estera in Italia nel 1983 e 1984, anno in cui Giovanni Paolo II lo ha chiamato alla guida della sala stampa della Santa Sede, incarico mantenuto fino al 2006, quando ha passato le consegne al padre gesuita Federico Lombardi. Membro numerario (cioè laico ma celibe) dell’Opus Dei, ha pubblicato libri sul giornalismo, la pubblicità e l’educazione. Del 2009 è il volume A passo d’uomo (Mondadori) nel quale, attraverso articoli pubblicati per «La Repubblica» e altri inediti, ricorda i tanti protagonisti della storia da lui incontrati e riflette sui temi etici attuali. Si è spento il 5 luglio 2017.

Data di aggiornamento: 08 Settembre 2017
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