Un Paese colpito a morte

Ci sono guerre silenziose, capaci di sconvolgere nazioni nella pressoché totale indifferenza della comunità internazionale che, anzi, a volte ne è complice per interessi economici. Accade in vaste zone della Colombia...

L’uomo accucciato in calle 12 non ci toglie gli occhi di dosso. Ha la barba lunga, incolta, l’aria trasandata di un campesino appena arrivato in città. Ma la maglietta nera e i pantaloni mimetici, infilati in ampi stivali di gomma, raccontano una storia diversa. A prima vista, non porta armi. Quando raggiungiamo la rotonda dedicata ai fondatori di Puerto Asis estrae un telefono dalla tasca, armeggia brevemente con la tastiera, dopo averlo portato all’orecchio sinistro annuisce un paio di volte, in rapida successione, prima di chiudere. Poi scompare, inghiottito dal fiume di motociclette cinesi che rotolano nel viale come risucchiate da un vortice, intervallate da sporadici Toyota Hilux. Camminiamo nelle calli polverose della cittadina da almeno cinque minuti quando riappare alle nostre spalle. I nostri sguardi s’incrociano brevemente, il suo ha un significato preciso: sappiamo che siete qui, vi teniamo d’occhio. Questo è il nostro territorio

A comandare, su questa cittadina colombiana affacciata sul fiume Putumayo, sono i paramilitari del Comandos de la Frontera. Gli unici autorizzati a indossare magliette nere. Una divisa informale. Meno informale, ed estremamente violento e pervasivo, è il controllo che esercitano su ogni aspetto della vita economica, e sociale, di questo centro e della sua periferia. L’assenza di gruppi avversari spiega la tetra atmosfera di rassegnata obbedienza che avvolge tutto, uomini e cose, come un evanescente sudario. «Al que levanta la mano le cortan la mano», dice la gente. «Se alzi la mano, ti tagliano la mano». 

Ma è sufficiente attraversare le acque limacciose del fiume, che corrono placide fino in Ecuador, per trovarsi in una situazione peggiore: molte aree del Putumayo, della Valle del Cauca e delle regioni al confine con il Venezuela sono oggi territorio conteso tra vari gruppi armati, tra cui l’ELN – Ejercito de Liberacion Nacional, gruppi della dissidenza FARC-EP (che non hanno aderito agli accordi di pace) paramilitari e organizzazioni criminali dedite principalmente al narcotraffico, come il Clan del Golfo. Chi le abita, sopravvive nel limbo di una guerra finita che ha l’inconveniente di continuare.

Rielaborare e aggregare

«La situazione è tesa, molto tesa, a causa delle attività dei gruppi armati. Quando è iniziato il processo di pace, con il presidente Santos, era tornata un po’ di calma. Fiducia. Oggi non è più così. La violenza è tornata a crescere di giorno in giorno». Padre Nelson Cruz Soler, qui, lo conoscono tutti. In queste strade, in questi villaggi, ha trascorso gli ultimi 38 anni del suo sacerdozio. Ora siede in una stanza spoglia della Parroquia San Francisco de Asis, le mani in grembo. Una pausa brevissima, lo attende un lungo viaggio.

«All’inizio il mio lavoro è stato molto difficile. Questa è una zona molto pericolosa, le persone non venivano da me, avevano paura, facevo molta fatica a stringere dei rapporti personali. Per questo, nel 1996, ho pensato di creare un museo a El Placer. Occupava un piccolo spazio della parrocchia, in cui raccoglievo pietre e altri oggetti particolari che mi offrivano, spesso, le comunità indigene. La gente veniva da me e mi chiedeva: “Che cos’è un museo?” Io gli offrivo un caffè, entravo in confidenza con queste persone. Funzionava. Poi, nel 1999, in piena guerra, il museo è diventato uno spazio per la memoria, in cui abbiamo raccolto e continuiamo a raccogliere materiale legato al conflitto armato. L’obiettivo è quello di incentivare un processo collettivo di elaborazione dei traumi causati dalla violenza generalizzata e, insieme, conservarne la memoria. Oggi “El Museo de la memoria historica de El placer” è un progetto che non conosce battute d’arresto. È molto progredito, ha molta forza. È diventato il centro d’integrazione di tutta la comunità».

La recente crisi del mercato della cocaina, a cui i gringo preferiscono il fentanil dei cartelli messicani, ha esasperato il conflitto. I gruppi armati, sempre di più, rivolgono le loro attenzioni alle attività estrattive illegali – miniere d’oro, di smeraldi, di rame – al soldo di compagnie straniere o sfruttandole direttamente. Gli omicidi ai danni di leader sociali e ambientali, che tentano di proteggere il territorio dalla deforestazione e dall’inquinamento delle acque e del suolo generato dalle attività estrattive, si susseguono a un ritmo di uno ogni due giorni.

Tra il 1° gennaio e il 30 dicembre 2023, secondo l’Osservatorio colombiano sui conflitti e i diritti umani «Indepaz», sono state assassinate 188 persone che hanno esercitato una sorta di leadership in difesa dei diritti umani e dell’ambiente in Colombia. Si sono verificati 94 massacri, ovvero attacchi in cui sono state uccise tre o più persone. Dalla firma degli accordi di pace più di 400 firmatari sono stati uccisi, 45 nel solo 2023. Inoltre, a causa della violenza perpetrata da diversi gruppi armati, tra il 1° gennaio e il 30 novembre 2023 si sono verificati 167.540 sfollamenti forzati, di cui 115.779 nei dipartimenti di Nariño, Valle del Cauca, Antioquia, Bolívar e Norte de Santander.

I civili prime vittime

Le conseguenze di questo conflitto perenne non si limitano agli omicidi. «Sono malato», ci confida padre Nelson al termine del nostro incontro. «Come tanti, qui. Le malattie oncologiche sono particolarmente diffuse a causa delle irrorazioni con il glifosato, largamente sparso su intere regioni della Colombia, compreso il Putumayo, a partire dal 1978». L’erbicida utilizzato, senza successo, per distruggere le piantagioni di coca, è potenzialmente cancerogeno: secondo l’Oms danneggia il Dna delle cellule del fegato e dei reni, causando danni genetici. Soprattutto, la dispersione aerea del composto chimico, parte della strategia Usa formalizzata nel 2000 con la firma del «Plan Colombia», non ha consentito interventi selettivi, ma ha interessato tutte le comunità campesine e indigene, anche quelle non coinvolte nella coltura della coca. Con una sentenza storica, il 19 gennaio 2022 la Corte Costituzionale ha vietato la ripresa delle fumigazioni voluta dal presidente Ivan Duque. Ma gli effetti sulla popolazione dureranno per decenni. 

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Data di aggiornamento: 19 Marzo 2024
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