Salute pubblica: una questione di scelte

Il Sistema sanitario nazionale si sta sgretolando pian piano dinanzi ai nostri occhi. Personale insufficiente, tempi di attesa insostenibili, oggettive difficoltà di diagnosi e cura. Come siamo arrivati a questo punto? E come uscire da questa situazione?
02 Ottobre 2023 | di

Non capisci che cosa significhi davvero avere una Sanità pubblica e universale finché non ti scontri con la malattia, tua o di un tuo familiare. Un evento già di per sé difficile da affrontare può diventare infatti un macigno insormontabile se sperimenti di non poterti curare, per questioni indipendenti da te. Perché, per esempio, all’ospedale non c’è posto; perché le liste di attesa per un esame diagnostico sono lunghissime; perché mancano i medici che, stremati da turni insostenibili anche di 15, 20 ore, sono migrati nel settore privato. E allora, se non hai la possibilità di pagare, per esempio, i 450 euro di una risonanza magnetica in qualche centro privato, devi aspettare mesi, sperando nel frattempo di resistere e sopravvivere. 

Un’indagine diffusa da Cittadinanzattiva a maggio scorso delinea una situazione drammatica: per una visita specialistica da svolgersi entro 10 giorni, puoi attenderne anche 60 (nel caso di prima visita oncologica, pneumologica, cardiologica ed endocrinologica), tempi che, senza codice di priorità, possono arrivare a 360 giorni per una visita endocrinologica e a 300 per una cardiologica. E non va meglio per le visite di controllo: una visita specialistica ginecologica di priorità U (cioè urgente, da effettuare entro 72 ore) ti può venire fissata dopo 60 giorni, e così pure una visita di controllo cardiologica o endocrinologica con priorità B (cioè da effettuare entro 10 giorni dalla richiesta). E, se non c’è urgenza, i giorni diventano 455 per una visita endocrinologica o 360 per una neurologica. Pure gli esami diagnostici sono un problema: l’attesa può arrivare a 150 giorni per una mammografia da svolgersi entro 10 giorni e addirittura 730 giorni per una mammografia di screening o 365 per una gastroscopia con biopsia (con classe di urgenza non determinata).

E che dire dei tre mesi che potresti dover attendere per un intervento per un tumore all’utero da effettuare, in teoria, entro 30 giorni? O della situazione di molte strutture di emergenza, riguardo alle quali – apprendiamo sempre dall’indagine di Cittadinanzattiva – negli ultimi dieci anni si è registrata una cospicua riduzione: cancellati 61 dipartimenti, 103 pronto soccorso, 10 pronto soccorso pediatrici, 35 centri di rianimazione. «In un decennio – si legge in un’altra ricerca: Il termometro della Salute, promossa dall’Osservatorio Salute, Legalità e Previdenza Eurispes-Enpam, 2023sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro alla Sanità pubblica, di cui circa 25 miliardi nel periodo 2010-2015, in conseguenza di “tagli” previsti da varie manovre finanziarie e oltre 12 miliardi nel periodo 2015-2019, in conseguenza del “definanziamento” che, per obiettivi di finanza pubblica, ha assegnato al SSN meno risorse rispetto ai livelli programmati (dati Gimbe)».

Eppure in Italia avevamo una Sanità di eccellenza (e in parte ancora l’abbiamo, grazie a medici, infermieri e personale sanitario preparati e motivati), la cui storia è scandita da scelte politiche ben precise compiute dai nostri legislatori. La prima è stata il riconoscimento nella Costituzione della salute come diritto della persona. Lo dice l’articolo 32: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. […] La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Una norma rivoluzionaria, che l’Italia ha avuto il merito di introdurre per prima in Europa in una Carta costituzionale. Seconda tappa, la nascita, nel 1958, di un vero e proprio ministero, il ministero della Salute. Nel 1968, poi, è arrivata la cosiddetta riforma ospedaliera: da questo momento gli ospedali non sono più luoghi caritatevoli, ma enti pubblici e forniscono assistenza gratuita a chi è nel bisogno. Infine, l’ultimo importantissimo step: il 23 dicembre 1978 viene promulgata la legge 833 che sancisce la nascita del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) gratuito e universale (vale a dire per tutti), strenuamente voluto dall’allora ministra della Sanità Tina Anselmi. Una conquista davvero storica.

Come siamo arrivati, partendo da queste basi, alla situazione attuale? Per una questione economica, ci dicono: la Sanità pubblica com’era stata pensata non è più sostenibile. Ma è davvero così? «Non è vero – risponde netto Luigino Bruni, ordinario di Economia politica alla Lumsa di Roma e Direttore scientifico dell’evento The economy of Francesco –. Uno Stato fa le sue scelte di investimento ed evidentemente se oggi non investe in Sanità non lo ritiene più un ambito prioritario rispetto ad altri, come per esempio quello militare. Ricordiamoci che è la politica in senso ampio, non l’economia, il luogo della sostenibilità. Quando, con grande coraggio e profezia, abbiamo reso la Sanità non solo pubblica ma anche universale, l’Italia non era ricca come adesso, eppure l’allora classe politica scelse di destinare i nostri soldi alla tutela e alla cura della salute di tutti i cittadini». 

Eppure c’è chi sostiene che andare verso un modello privatistico (in base al quale certi servizi sono ottenibili solo a pagamento) oggi sia inevitabile, perché da sempre «il privato funziona meglio del pubblico». «E chi lo dice? – ribatte l’economista –. Non ci sono evidenze scientifiche che lo dimostrino, mentre è vero il suo contrario: la Sanità è uno di quei contesti in cui è assodato che il sistema privatistico non funziona meglio del pubblico. Basti ricordare che cosa è successo durante il covid: i sistemi che se la sono cavata meglio sono stati quelli a regime pubblico. Alcune criticità registrate, per esempio, in Lombardia, erano dovute a inadempienze del privato. Ciò non significa che qualche componente privata non debba essere inserita, perché non c’è Sanità al mondo che non ne abbia. Ma la quota deve essere davvero minima». 

Ma allora come siamo arrivati alla convinzione che «privato è meglio»? «Per un problema ideologico – conclude Luigino Bruni –. Siamo passati da una fase iniziale in cui lavorare per lo Stato era un “onore” a una fase in cui lavorare nel pubblico è diventato una sorta di privilegio per raccomandati. Così ci siamo ritrovati, a partire soprattutto dagli anni ’80 del secolo scorso, con un pubblico “intossicato” che ha facilitato l’affermarsi di un’ideologia del business di matrice nordamericana, e di stampo protestante, che ha invaso il mondo con la globalizzazione attraverso le grandi multinazionali e la moda delle grandi consulenze globali, e ci ha pian piano convinti che per fare le cose bene devi affidarle ai privati. Ma, ripeto, è ideologia, anche se, come tutte le ideologie, ha una parte di verità ed è per quello che è pericolosa. Intendiamoci, il mercato ha indubbi elementi di positività: la concorrenza, l’efficienza. Però, quando si dimenticano alcuni aspetti, come l’attenzione ai poveri e la lotta alle disuguaglianze (una visione solidale di chiara matrice cattolica), ci perdiamo tutti». 

Che fare?

Che il problema sia più politico che economico lo denuncia anche Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, un ente tecnico indipendente che confronta le decisioni politiche con le evidenze scientifiche in ogni ambito sanitario. «Negli ultimi 20 anni i Governi di tutti i “colori” hanno sempre considerato la spesa sanitaria come un costo e non come un investimento, dirottando le risorse su altre priorità mirate a soddisfare il proprio elettorato. Una politica miope che, limitandosi alla “manutenzione ordinaria” del SSN, ha portato allo sgretolamento dei princìpi di universalismo, equità e uguaglianza, sino a compromettere il diritto costituzionale alla tutela della salute». La scelta, dunque, prima di essere economica, è di visione e riguarda il tipo di modello sanitario e di società che vogliamo lasciare in eredità alle future generazioni: «In base alla visione scelta, la politica deve definire quante risorse pubbliche investire per la salute e il benessere delle persone; infine, deve attuare coraggiose riforme per condurre il SSN nella direzione voluta. Naturalmente tutto questo richiede ancor prima un patto sociale e politico che, prescindendo da ideologie partitiche e avvicendamenti di Governi, riconosca nel SSN un pilastro della nostra democrazia, una conquista sociale irrinunciabile e una leva di sviluppo economico». 

Ma, a questo punto, salvare il nostro Sistema sanitario nazionale è ancora possibile? Sì, ma a patto di agire presto. Il Gimbe ha stilato un vero e proprio piano di rilancio in 12 punti, che mette alle strette la politica. Tra i primi punti c’è la necessità di invertire il trend dei tagli e puntare su un progressivo innalzamento del finanziamento pubblico nella Sanità. Oggi l’Italia è uno dei Paesi europei dell’area Ocse che investe di meno: siamo al 16° posto, con una spesa di $ 3.255 pro capite nel 2022, mentre la media europea è di $ 4.128. «Senza voler eguagliare i livelli per noi irrealistici di Francia e Germania, entro il 2030 dovremmo almeno raggiungere la media europea» afferma il presidente del Gimbe. Tuttavia, nel Def (il Documento di economia e finanza, da cui parte l’iter che arriva alla Legge di Bilancio), approvato ad aprile, il Gimbe già ravvisava un de-finanziamento: il rapporto spesa sanitaria/Pil scende nel 2023 al 6,7 per cento rispetto al 6,9 per cento del 2022, e arriverà al 6,3 per cento nel 2024 e al 6,2 nel 2025-2026. Una discesa nel baratro, a meno che non cambi qualcosa prima dell’approvazione della Legge di Bilancio il prossimo dicembre. 

Da questo punto fondamentale discendono tutti gli altri. Cartabellotta ricorda i più significativi: «Potenziare la capacità d’indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni nel pieno rispetto delle loro autonomie», poiché la blanda presenza di questo controllo ha portato di fatto a grandi disparità nell’accesso ai servizi sanitari tra le Regioni. Altro punto fondamentale è l’aggiornamento continuo dei Lea, i Livelli essenziali di assistenza, cioè le prestazioni e i servizi che il SSN è tenuto a fornire a tutti i cittadini: «Questo aspetto è cruciale – continua il presidente – per rendere tempestivamente accessibili a tutti le innovazioni in campo medico», come, per esempio, nuove terapie. Non ci può essere rilancio, infine, se non si interviene in due importanti aspetti. Il primo: «Ridare centralità alle politiche sul personale sanitario»: a tutt’oggi c’è un tetto sull’assunzione di medici e infermieri che sta ingessando il SSN, rendendolo sempre più inefficiente. L’altro aspetto è regolamentare il rapporto tra pubblico-privato e Sanità integrativa: non si può continuare a tagliare la Sanità pubblica senza regolamentare il rapporto con il privato. «Se mantenere un SSN pubblico universalistico non è più una priorità del nostro Paese – provoca Cartabellotta -, la politica dovrebbe avere l’onestà di scegliere apertamente un altro modello di Sanità, governando in maniera rigorosa i processi di privatizzazione che si stanno già concretizzando in maniera subdola, creando di fatto una Sanità a doppio binario».

La domanda che però resta sul fondo è: perché noi cittadini non facciamo sentire la nostra voce a difesa del nostro Sistema sanitario nazionale? Gli esperti in proposito fanno più ipotesi. La più semplice è che lo diamo per scontato, un po’ come l’aria che respiriamo. Un’altra è che lo consideriamo un tema per tecnici, su cui abbiano poche competenze. I più attenti ai cambiamenti sociali credono, invece, che questa passività sia dovuta all’indebolimento dei cosiddetti «corpi intermedi», per esempio dei sindacati e in genere di tutte quelle realtà che sapevano coagulare una risposta sociale più efficace. Quelli più inclini a individuare le manipolazioni attuate dai sistemi di potere, preferiscono affidarsi al celebre principio della rana bollita del filosofo statunitense Noam Chomsky. Un principio che sembra una favola di Esopo. Una rana nuota placidamente in una pentola d’acqua fredda finché qualcuno non accende il fuoco sotto la pentola. L’acqua si intiepidisce piacevolmente e la rana continua a nuotare. La temperatura si alza ancora ma la rana resiste, fino a quando la temperatura diventa insopportabile; a quel punto la rana vorrebbe fuggire ma non ne ha più la forza. Fuor di metafora, ci saremmo, cioè, abituati lentamente allo smantellamento del SSN, non cogliendo i preoccupanti segnali di allarme che ci giungevano negli anni. E allora, prima di fare la fine della rana bollita, saltiamo fuori dall’acqua e lottiamo per la salute di tutti.

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Data di aggiornamento: 02 Ottobre 2023
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