Germania, giovani e migrazione

Padre Silvio si confronta con il multiculturalismo delle nuove generazioni. A Colonia propone una pastorale di accompagnamento e d'incontro.
14 Gennaio 2010 | di

Colonia
Padre Silvio Vallecoccia, romano, missionario scalabriniano, sacerdote da quattro anni. Quando era ancora adolescente si è appassionato agli emigrati che, negli anni Novanta, giungevano in massa in Italia. Nella sua parrocchia nascevano i tentativi di prima accoglienza e assistenza dei migranti. In tale contesto, nel 1993 lavorò come volontario in un campo d’accoglienza per immigrati stagionali che si recavano nel sud Italia per la raccolta del pomodoro. Il confronto con molti uomini provenienti dal centro e dal nord dell’Africa di fede islamica, e con diversi albanesi, in gran parte atei, fu inevitabile. Questa esperienza segnò la sua vita in maniera particolare. Ora, padre Silvio opera in Germania, a Colonia, ed è responsabile diocesano della pastorale giovanile internazionale.
Farronato. Da quanto tempo si trova in Germania?
Vallecoccia. Da quattro anni. Dopo aver accantonato aspirazioni personali, come progetti missionari in Libia e in Romania, e dopo due anni di studio intenso della lingua tedesca, attraverso un inserimento pastorale nell’arcidiocesi di Colonia, dal 2007 mi sto dedicando alla pastorale giovanile internazionale nel tentativo di dare corpo e forma alla pastorale diocesana per e tra i giovani emigrati.
Dire «pastorale giovanile internazionale» significa trovarsi in un crocevia di lingue, culture, mentalità, razze, e dunque senza punti di riferimento precisi.
Io non sono solo. Ho dei collaboratori. Insieme insistiamo sulla progettazione: la necessità di progettare nell’azione pastorale giovanile è dettata dalla complessità della realtà cui l’evangelizzazione è rivolta. In particolare, la Chiesa locale, nel suo essere sacramento di salvezza, per svolgere efficacemente la sua funzione, ci chiede di redigere metodologie pastorali basate sul duplice principio di fedeltà a Dio e alla persona. Elaborare un progetto pastorale rimane un modo umano ma serio, di accogliere l’invito dello Spirito. Dato che lo Spirito è imprevedibile, non resta che riconoscere con umiltà i limiti dei nostri progetti pastorali, che rimangono sempre aperti e flessibili. Il contesto giovanile nel quale operiamo, ci chiede conoscenza e contatto con giovani emigrati.
Chi sono i giovani che lei incontra?
L’ azione pastorale che svolgo è tra i giovani emigrati cattolici, e ad essi è diretta. Sono giovani di varie nazionalità sui quali, in Germania, esistono diverse definizioni e descrizioni. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a una vera e propria guerra di parole. È nato un linguaggio sociologico al quale anche la Chiesa fa ricorso. Nel mondo tedesco la parola Ausländer cioè straniero, che di per sè è neutra, ha un’accezione negativa: tale significato negativo è dovuto alla storia di questa parola. Per questo si coniò per gli emigrati della prima ondata – dal 1955 al 1973 – la parola Gastarbeiter cioè lavoratore-ospite. Ospite è una parola positiva. Chi è ospite è una persona gradita. Non fu così la storia degli emigrati. Si coniarono quindi altre parole che cercavano di dire che una persona è emigrata, evitando di usare il termine straniero. Si cominciò a diffondere l’uso di un aggettivo neutrale: Fremd - forestiero. Simpatica l’ultima trovata per definire lo straniero: Mitburger anderer Muttersprache ovvero concittadino di altra madrelingua.
Dove incontra i giovani e cosa propone loro?
In arcidiocesi abbiamo circa 36 comunità linguistiche. Il primo contatto avviene visitando le comunità linguistiche durante le messe domenicali. Lì incontro i giovani che già frequentano le comunità di prima o seconda generazione migratoria. Attraverso colloqui col sacerdote cerco di capire il tipo di attività giovanile svolto. Se non esiste niente, valuto se vi sono le condizioni affinché nasca qualcosa per i giovani. Visito i giovani durante i loro incontri o le attività periodiche, stabilendo così un primo contatto. Con i sacerdoti e gli operatori pastorali s’individuano, infine, possibili giovani leader della comunità sui quali puntare per una funzione di animazione.
La trasformazione del linguaggio denota la difficoltà di accogliere il migrante. Dove si vuole arrivare? Ho la sensazione che l’attenzione allo straniero, nonostante tutto, sia un luogo comune anche per le nuove generazioni che si ritrovano in un calderone anonimo e privo di prospettive.
Personalmente ritengo che oggi la Germania soffra, dal punto di vista sociale, uno stato d’ansia da integrazione-assimilazione collettiva. Sembra che solo ora si scopra che circa il 33% degli abitanti ha a che fare con l’emigrazione, e che più del 50% dei bambini che frequentano la scuola elementare tedesca ha almeno un genitore straniero o con origini straniere. Questo dato, però, suona come qualcosa di negativo. Molti emigrati, specialmente giovani, continuano a temere che si blocchi, dietro alle belle parole, la realizzazione del desiderio di giungere alla parità di opportunità sociali. Per i giovani la dignità della persona sta nel suo essere, indipendentemente dal fatto che provenga da un certo posto o eserciti un certo mestiere o presenti qualifiche particolari. Bisogna comunque apprezzare il tentativo, non solo a parole, di mettere l’emigrato e il residente sullo stesso piano sociale.
Torniamo ai giovani emigrati. Magari nati in Germania. Continuano a sentirsi stranieri?
La terminologia sullo straniero in Germania confonde anche le idee dei giovani alla ricerca d’identità. Io mi ritengo Ausländer, cioè, tradotto letteralmente: vengo da un altro Paese. In questo non ci vedo nulla di strano, né di sbagliato né, tantomeno, lo considero una colpa di cui debbo vergognarmi. La consapevolezza di essere straniero in Germania mi dà sicurezza nel rapporto con gli altri. Le cose diventano complicate se si parla di giovani emigrati di seconda o terza generazione. Si passa dai Jugendliche mit Migrationshintergrund – Giovani con sottofondo migratorio a Jugendliche mit Zuwanderungsgeschichte oder Zuwanderungserfahrung – Giovani con storia migratoria o esperienza migratoria. Se da una parte questa specificazione permette di collocare il giovane in maniera precisa nell’ambiente sociale d’appartenenza, dall’altra lo imprigiona in una categoria dalla quale non può uscire. La società lo definisce senza tener conto delle relazioni che è riuscito a stabilire; o peggio, in alcuni casi, gli dice con chi sia autorizzato o meno ad avere relazioni.
Incontrando i giovani, su quali motivazioni fonda la conversazione, le attività, le proposte con loro?
Lo sforzo pastorale nelle istituzioni cattoliche straniere e non, sta nel convincere i vari operatori pastorali che noi abbiamo a che fare con i giovani, e basta. La Parola di Dio rivela quello che Gesù ha operato: una comunità di figli di Dio, senza distinzioni. Perciò, quando incontriamo i giovani in ambito ecclesiale, deve essere chiaro che abbiamo a che fare con figli di Dio. In questo modo si superano i pregiudizi collegati all’emigrazione, ci si apre fino a quanto il giovane è capace, lasciando spazio alla creatività della sua storia di fede.
Probabilmente anche i giovani emigrati cattolici abbandonano la comunità ecclesiale. C’è una spiegazione per questo?
Una causa di allontanamento dalla Chiesa è il linguaggio, che è duro, cioè lontano dalla loro vita. I giovani emigrati in Germania sembrano non rispettare il trend generale. Per quelli di prima generazione, le comunità linguistiche sono un luogo di rifugio, una nuova casa, dove poter esprimere la fede come quella ricevuta in patria o dalla cultura di partenza. Per quelli di seconda e terza generazione, la comunità linguistica è un luogo di confronto con le proprie origini, dove emergono eventuali situazioni conflittuali, e dove ci si può riconciliare con esse.
Pur essendo questo un dato positivo, vi sono comunque dei rischi connessi. I giovani crescono nella società d’arrivo, intessono amicizie e relazioni in un ambito plurilinguistico. Se la dimensione religiosa è vissuta esclusivamente in una lingua, rischia di rimanerne in qualche modo intrappolata. Perdendo l’uso di quella lingua, si perde anche la fede. Il linguaggio diventa duro perché non più comprensibile.
Che cosa fa la massa di giovani che non frequenta la comunità ecclesiale?
Certamente sono molti i giovani emigrati che non frequentano le comunità linguistiche. E per varie cause: mancanza di tempo, lontananza, scelte personali oppure quando la lingua madre dei genitori è diventata straniera. C’è un distinguo che mi piace rilevare. Nel caso di giovani emigrati di prima generazione, bisognerà aspettare un sufficiente apprendimento della lingua del Paese d’arrivo per sperare in una partecipazione ecclesiale. Il Signore chiama, ma bisogna poter capire quello che dice. Preciso che esistono casi, anche se rari, di giovani che in questo sono riusciti brillantemente: l’avvicinamento alla Chiesa è frutto di forte convinzione personale o è motivata da fatti di vita.
Nonostante le difficoltà di suscitare la fede cristiana nelle nuove generazioni, tra i giovani emigrati non manca la vivacità cristiana.
Sono d’accordo. Nei giovani di seconda e terza generazione si assiste ancora a una buona partecipazione alla vita ecclesiale locale. Altri hanno contatti occasionali legati ai sacramenti. Per chi non ha nessun contatto, accostandoli, si ha comunque la sensazione che «le parole di vita eterna» abbiano perso due volte l’occasione. L’annuncio poteva raggiungerli o nella lingua dei genitori o in quella del Paese in cui sono nati e cresciuti. In loco noi ci impegniamo a rendere possibile nei giovani il dire e l’ascoltare la fede in più lingue e modi. Questo avviene tramite l’incontro tra gruppi giovanili a livello locale e diocesano. I giovani si rendono conto che si può «emigrare nella fede» da una lingua all’altra; si alfabetizzano alla fede in più lingue e culture. I giovani emigrati ricordano alla diocesi di non presentarsi come chiesa nazionale ma da Chiesa cattolica, pietra viva dell’unica Chiesa universale. Così anche il Vangelo perde il suo linguaggio duro, e viene percepito per quello che è: Parola di vita eterna. I giovani gustano il fatto di sentirsi chiamati amici da Gesù attraverso i fratelli e le sorelle nella fede, indipendentemente dalla lingua o dalla nazione di provenienza.
Nel 2005 Colonia ha organizzato la Giornata Mondiale della Gioventù. Cosa è rimasto di quell’esperienza?
L’arcidiocesi di Colonia si sta riprendendo dall’«ubriacatura» dovuta alla GMG del 2005 dove pareva facile avvicinare i giovani alla fede e dove sembrava scontato che la fede cattolica si potesse dire in più modi e lingue. Partiti i giovani dopo l’incontro con Benedetto XVI, si è rimasti con un vuoto fisico ed emotivo. I giovani della GMG, come i Magi – dei quali a Colonia si venerano le reliquie – per altra strada ritornarono al loro Paese. L’arcidiocesi ha cercato, sull’onda dell’entusiasmo, di organizzare grandi eventi di massa giovanili, allungando in qualche modo l’effetto della GMG, ma il successo non è stato quello sperato. Personalmente agisco puntando sul fatto che le comunità linguistiche e indigene, gli operatori e le organizzazioni ecclesiali per i giovani diventino sempre più attori a più voci del medesimo annuncio. Riconosco che la GMG ha lasciato in eredità l’impegno di conoscersi meglio tra giovani di diversa etnia.
Padre Silvio, lei è italiano. Quanto peso ha la sua carta d’identità in questo ministero a più voci? I giovani migranti italiani hanno una corsia preferenziale?
Sono italiano e non mi pesa per nulla il fatto di essere «straniero» in Germania, anzi questo gioca a mio favore. Riconosco che il mio apostolato con i giovani di diverse etnie fa forza sulla comune identità della fede in Gesù Cristo e nel mio essere «presbitero». Il mio essere prete dice molto ai giovani; mi accettano molto bene. Con i giovani italofoni, per ovvi motivi, ho un contatto facilitato. In costoro ho una certa facilità a trovare collaboratori immediati.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017