Tra giustizia umana e carità cristiana

In dialogo con Giancarlo Caselli, a capo della Procura di Palermo negli anni caldi dei grandi processi su mafia e politica.
04 Dicembre 2017 | di

Arriva scortato dai «suoi» uomini, gli «angeli custodi» che non lo mollano un istante e con i quali, lo si coglie chiaramente, è nato negli anni un rapporto di amicizia condito di stima e affetto reciproci. La vita di Giancarlo Caselli è davvero blindata. «Ci si abitua» mi confidò un po’ di tempo fa a Bologna, quando ci incontrammo per la prima volta al Festival francescano. Questa volta l’incontro avviene nella Casa di spiritualità dei Santuari antoniani di Camposampiero (PD), dove Giancarlo Caselli è stato chiamato a parlare di «giustizia umana e giustizia cristiana».

Msa. La prima domanda è d’obbligo: in che rapporto stanno giustizia, legalità e misericordia? Caselli. Spesso pensiamo che legalità e giustizia siano la stessa cosa, ma non è così. Legalità è osservanza della regola scritta. La giustizia è altro, perché l’osservanza di tutte le regole scritte al mondo, da sola, non riesce a garantire una piena giustizia. L’osservanza della legge è indispensabile e in uno Stato democratico non se ne può fare a meno, ma essa, da sola, non ha la forza di superare le disuguaglianze tra cittadini: i poveri, gli emarginati, i deboli non cesserebbero di essere tali quand’anche tutte le norme scritte fossero osservate. Ci vuole qualcosa in più: fare della giustizia una pratica quotidiana capace di dare a ciascuno quello che gli appartiene, quello che gli serve per vivere decorosamente. Tale obiettivo parte dalla legalità, ma deve coinvolgere anche la responsabilità personale: tutti noi abbiamo il dovere di operare in concreto per migliorare la situazione di chi ha più bisogno di crescere. Nel vangelo di Matteo (22,1-14) troviamo scritto che non basta essere invitati alla festa di nozze, bisogna partecipare, essere attivi, indossare l’abito nuziale: per un giurista che opera in Italia, l’abito in questione è l’art. 3 capoverso della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Con questo articolo, la Costituzione indica un traguardo possibile, esistente, non negoziale: dice che è compito della Repubblica creare quella che tecnicamente si chiama «democrazia emancipante», cioè una democrazia capace di favorire percorsi di emancipazione e di crescita, affrancando soprattutto chi ha più bisogno da quegli ostacoli e vincoli che lo inchiodano ai blocchi di partenza. La misericordia, invece, pur essendo un concetto nobilissimo, non appartiene tanto al mondo del diritto, delle regole, della giustizia. Però, anche in tali ambiti può essercene una qualche forma. La corretta amministrazione della giustizia deve infatti tenere conto della specificità della persona, oltre che del caso concreto di volta in volta da giudicare, e quindi deve modulare la risposta in base a tale specificità. Si tratta di porre attenzione alla persona, non applicando nei suoi confronti un trattamento solo burocratico, distaccato, ma attento e misericordioso nella misura in cui la legge lo consente.

Nel 2017 ricorrono i 25 anni dalle stragi in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con le loro scorte. Quanto pesò la solitudine in cui vennero lasciati? Alle celebrazioni dell’anniversario delle due stragi è stato dato molto spazio e quindi abbiamo tutti potuto capire quanto, in vita, Falcone professionalmente parlando sia stato maltrattato, umiliato, a volte tradito. Falcone fu costretto a un certo punto a lasciare Palermo, perché tutti gli avevano sbattuto la porta in faccia. Ma lui, che era uomo determinato e coraggioso, decise di domandare una sorta di asilo politico giudiziario al ministero, e da lì continuare il suo impegno antimafia. Fu così che fondò la procura nazionale e le procure distrettuali antimafia, e la Dia (una sorta di Fbi italiana antimafia). Nello stesso momento in cui Falcone creava tutto ciò, la Cassazione confermava in via definitiva le condanne del maxiprocesso antimafia (istruito dagli stessi Falcone, Borsellino e dagli altri magistrati del pool di Palermo): era la prima volta (siamo nel gennaio 1992) che i mafiosi venivano condannati in via definitiva a pene pesanti; era la fine dell’impunità di cui la mafia aveva goduto per decenni. La mafia è una bestia feroce e, sentendosi ferita e minacciata di morte, reagì nel modo violento che conosciamo. Falcone e Borsellino sono stati uccisi dalla mafia perché essa voleva punirli per l’ottimo risultato ottenuto con il processo e perché voleva provare a seppellire nel sangue il loro metodo di lavoro vincente e che Falcone stava ancora portando avanti a Roma.

Ma c’è anche un altro motivo per il quale i due magistrati, ma anche don Puglisi, don Diana, il generale Dalla Chiesa sono morti: perché noi non siamo stati vivi quanto loro. Le persone uccise dalla violenza mafiosa hanno saputo vedere il loro prossimo; hanno visto la sopraffazione, la ricchezza facile e ingiusta, la compravendita della democrazia, il mercato delle istituzioni e non si sono voltati dall’altra parte, bensì hanno cercato di porvi rimedio. Loro sono stati uccisi dalla ferocia mafiosa, perché si impegnavano, ma anche perché noi non siamo stati fino in fondo ciò che avremmo dovuto essere: noi Stato, noi cittadini, noi cristiani. Falcone e Borsellino hanno avuto «fame e sete di giustizia» e sono morti per questo. Invece noi, tutti noi, tante volte ci siamo accontentati di una specie di «ipocrisia civile», abbiamo subìto il giogo delle mediazioni, degli accomodamenti. Dobbiamo quindi fare memoria delle stragi, ma anche delle nostre manchevolezze, per far sì che quanto accaduto non si ripeta più.

Nei 195 istituti penitenziari italiani, al 31 gennaio 2016 erano presenti 52.475 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480, con un’eccedenza del 7,5 per cento. Il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69 per cento, vale a dire che dei circa mille detenuti che escono dalle carceri ogni giorno, 690 ritorneranno a delinquere: ma la pena non dovrebbe rieducare? Questo è un grosso problema che, ancora una volta, chiama in causa il concetto di «fame e sete di giustizia». Noi dobbiamo sempre provare a dare alla giustizia la forza di vincere il male col bene. Ciò non significa sminuire il male, che resta tale; non si tratta di buonismo, perdonismo, giustificazionismo, perché ciò equivarrebbe a vanificare la giustizia. La questione sta nel cercare, per quanto possibile, di inventare forme di risposta al male che siano capaci di contenerlo, di fermarlo, ricucendo le lacerazioni profonde che l’illegalità può aver causato. Torna anche il tema, e in questo caso è più calzante forse, della misericordia come attenzione alla persona anche quando ha sbagliato in maniera tale da meritare una punizione. La sanzione, in altre parole, non può essere sproporzionata, spietata, crudele. Non può calpestare la dignità del colpevole, altrimenti l’orizzonte della giustizia si allontana e prende il sopravvento la vendetta. La pena senza l’attenzione alla persona umana, anche quando ha sbagliato – attenzione nel castigo, sia chiaro – finisce per essere assolutamente inefficace, sia per chi subisce il castigo, sia per chi dal castigo inflitto vorrebbe trovare riparazione al torto subìto. Il colpevole deve essere punito secondo le leggi, ma se non viene aiutato – quando lo voglia – nelle modalità di esecuzione della pena a capire il perché del suo errore, la punizione serve a ben poco, perché lo incattivisce e lo conferma in una scuola di violenza che inevitabilmente genererà nuovi errori e quindi più insicurezza per noi cittadini. Un carcere che risponde alla sua funzione rieducativa restitui­rà alla società civile un detenuto che non delinque più, che non scade nella spirale della recidiva. Ma per fare ciò, il carcere deve essere attrezzato il più possibile per rieducare. Il sovraffollamento è la negazione in radice delle potenzialità di recupero: se c’è sovraffollamento, infatti, non ci sono locali disponibili, mancano aule scolastiche per insegnare un lavoro e mancano aree di socializzazione, tutte cose assolutamente indi­spensabili al percorso riabilitativo. È difficile in questa stagione, in cui non abbiamo soldi per niente, spendere risorse per le carceri; l’opinione pubblica non può accettarlo di buon grado. Ma se pensiamo che la soluzione sia «chiudere i detenuti in carcere e buttare via la chiave», sbagliamo: in tale modo danneggeremmo prima di tutto noi stessi, perché creeremmo le condizioni per una insicurezza sempre crescente.  

L'intervista integrale si può leggere sul Messaggero di sant'Antonio di dicembre 2017 come pure nella versione digitale della rivista.

Data di aggiornamento: 04 Dicembre 2017
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