Una terra da salvare

A Venezia la mostra fotografica «Genesi» di Sebastião Salgado documenta l’esistenza di luoghi ancora incontaminati, paradisi da preservare adottando stili di vita più rispettosi della natura.
26 Marzo 2014 | di

Venezia l’ultimo giorno del gennaio scorso era sommersa dall’acqua alta, come purtroppo sovente accade, e così la perla della laguna sembrava anch’essa da salvare come i luoghi della natura, meravigliosi e incontaminati, immortalati da un grande della fotografia, Sebastião Salgado. Allora, alla Casa dei Tre Oci, affacciata sul bacino di San Marco, apriva i battenti la mostra Genesi, visitabile fino all’11 maggio e prossimamente ospitata in oltre trenta musei del mondo.

Frutto di dieci anni di lavoro, l’esposizione, realizzata da Amazonas Images e prodotta da Contrasto e Civita Tre Venezie, presenta 240 foto in bianco e nero, scattate nei luoghi più remoti ed è uno straordinario omaggio al pianeta. Paradisi terrestri ancora incorrotti dall’Amazzonia ai Poli, dalla Papua Nuova Guinea all’Africa, dal Madagascar alle Galàpagos: trentadue reportage mozzafiato mostrano una parte del mondo (forse un 45 per cento) ancora integra, allo stato della Genesi. Sono foto lanciate come un messaggio in bottiglia, perché gli uomini imparino ad amare, a conservare e a tutelare la natura, perché la cosiddetta «società civilizzata» adotti stili di vita più rispettosi.

Sebastião Salgado è venuto a Venezia con l’inseparabile moglie, Lélia Wanick Salgado, madre dei loro due figli e curatrice dell’esposizione. Lélia lavora ad Amazonas Images (la loro agenzia fotografica con sede a Parigi) e affianca il marito in tutte le altre imprese: «Compagna della mia vita e socia in tutto» la definisce Sebastião. E lei ci dice che dà unità avere gli stessi obiettivi nella vita.

Salgado si muove a suo agio, con passo felpato, tra i molti convenuti per lui a Venezia come tra le tribù minacciate dell’Amazzonia, perché sa entrare in sintonia con le persone facendo emergere sempre l’umanità. Ma sa porsi anche con la natura sulla stessa lunghezza d’onda.

Il progetto Genesi è molto ampio e articolato. Le foto che vediamo in mostra sono frutto di una serie di viaggi, durati parecchi mesi, in luoghi sperduti e difficili da raggiungere. Il bianco e nero è la lingua di Salgado, il mezzo che gli permette di raccontare concentrandosi sul cuore  delle cose. Salgado sa calibrare luci e ombre, come forse solo il pittore Geoges De La Tour seppe fare sulla tela.

Il fotografo ha percorso chilometri e chilometri, a piedi, in canoa, in aereo e perfino in mongolfiera, per raggiungere i luoghi dove la natura è ancora allo stadio primitivo, virginale appunto, e ha aspettato con pazienza il momento dello scatto: ha atteso che i pinguini facessero il loro tuffo, che l’iguana tendesse la sua zampa, che gli albatros della Georgia si corteggiassero e si esibissero in una danza. Ha atteso per ore la tartaruga delle Galápagos, mettendosi carponi per essere alla sua altezza, fino a quando l’animale fosse pronto a farsi fotografare. «Chi non ama aspettare non può diventare fotografo» afferma Salgado nella sua autobiografia Dalla mia terra alla terra (scritta con Isabelle Francq), edita in Italia da Contrasto nel 2014.

Prima di Genesi era stato realizzato l’Instituto Terra per la riforestazione del luogo dove Sebastião era nato, la fattoria all’interno della valle del Rio Doce, nel Minas Gerais, in Brasile, un territorio che lui negli anni Novanta aveva ereditato completamente inaridito. Lì, con l’utopia che solo i grandi sogni hanno in sé, Lélia ebbe l’idea di ricrea­re quel «paradiso perduto». Furono piantati oltre due milioni di alberi e la terra tornò a essere verde e rigogliosa. Oltre ai libri (la già citata biografia e il volume fotografico edito da Taschen nel 2013), c’è poi anche un film, Shade and Light, che Juliano, figlio di Sebastião, e il regista tedesco Wim Wenders hanno rea­lizzato su Salgado e sul progetto Genesi.

Sebastião Salgado è nato l’8 febbraio del 1944 a Aimorés, in Brasile. Ha trascorso l’infanzia in una terra dai colori bellissimi («Qui ho imparato a vedere e ad amare le luci che mi hanno seguito per tutta la vita») e, giovanissimo, ha legato il suo destino a quello di Lélia. Di lei scrive: «Siamo sposati ormai da più di quarantacinque anni, e la trovo ancora bella allo stesso modo». Nel 1969 i due coniugi lasciano il Brasile, dove si era instaurato un regime militare, e approdano in Francia. Non ci mette molto Salgado ad abbandonare il suo lavoro come economista, sicuro e ben remunerato, per dedicarsi alla fotografia. Collabora con le più importanti agenzie fotografiche e vola da una parte all’altra del mondo per documentare la storia attraverso le immagini. La sue fotografie vengono pubblicate ovunque, sono intense e scavano nella profondità dell’uomo, soprattutto quello ferito. Memorabili quelle della Serra Pelada, la miniera d’oro a cielo aperto nel Parà in Brasile, quelle di profughi, rifugiati e migranti. Salgado va ovunque: in Cina, nei Balcani in fiamme, nell’amata Africa, tantissime volte nel Ruanda dove vede e racconta atrocità indimenticabili.


«Nessuna foto, da sola, può far niente – scrive – contro la povertà del mondo. Tuttavia le mie immagini, insieme con i libri e i film, e tutto l’operato delle organizzazioni umanitarie e ambientaliste, partecipano a un più vasto movimento di denuncia della violenza, dell’esclusione e delle problematiche economiche».

Dopo l’11 settembre, per evitare di passare le pellicole sotto i raggi X negli aeroporti, Sebastião passa al digitale, vincendo anche questa sfida tecnica e arrivando a ottenere negativi in bianco e nero a partire da file digitali.

Salgado ha raccontato le tragedie più immani sempre con grandissimo rispetto e lo ha fatto innanzitutto per dovere morale, convinto che tutti siamo responsabili di quello che succede nel mondo. E così la fotografia per lui è diventata anche una ragione di vita. Scrive, sempre nella biografia: «È con la fotografia che lavoro, che mi esprimo, che vivo». E la fotografia lo spinge di continuo a ripartire.
 

L'INTERVISTA
Diventare tutti un po’ «francescani»

 
Msa. Agli «smemorati» abitanti delle città lei ricorda l’importanza della natura. Possiamo definirla un po’ «francescano», dato che san Francesco chiama la terra «madre», l’acqua «sorella»…
Salgado. Noi facciamo parte del mondo della natura, non siamo esseri separati dagli altri: ci sono decine di migliaia di specie che devono convivere insieme nel mondo, se si vuole vivere. Il mondo deve essere visto in modo «comunitario». Questa idea di amore per la natura è l’idea di base per la relazione pacifica con la natura, per delle relazioni «comunitarie» e la comunità va intesa in senso molto ampio. Perciò può definirmi un po’ «francescano», anche se non sono credente.

Perché lei e sua moglie Lélia avete fondato l’Instituto Terra ad Aimorés, nel Minas Gerais, in Brasile?
L’Instituto Terra è il tentativo di recuperare un po’ di quella foresta molto rigogliosa che esisteva un tempo in questo luogo, il quale, in anni più recenti, era diventato un grande deserto dove mancava l’acqua. Abbiamo piantato più di due milioni di alberi: sono tornate l’acqua e la vita. Se san Francesco tornasse oggi e si recasse all’Instituto Terra sarebbe l’uomo più felice del mondo, perché potrebbe parlare agli uccelli, al caimano, al piccolo coccodrillo, e anche nuotare nella piscina; potrebbe vivere con tutti i mammiferi che sono tornati là… Dunque abbiamo creato una vera e propria oasi di pace facendo ritornare la natura. L’Instituto Terra è anche un centro di educazione ambientale per gli studenti. L’Italia è stata molto importante in questo progetto: ci hanno aiutato concretamente diverse regioni, città e aziende.

Perché bisogna amare e proteggere il pianeta?
La nostra visione è molto egoista. La sopravvivenza dipende direttamente dalla protezione della natura. Non abbiamo nessuna possibilità di sopravvivere se non si rispetta il nostro pianeta, se non si ricostruisce, in buona parte, quello che abbiamo distrutto, se non si riduce l’anidride carbonica, se non si piantano alberi, se non si riduce l’inquinamento. Abbiamo bisogno di tutte le altre specie, di tutti i batteri, di tutti gli insetti che esistono nel mondo… Non si può vivere in modo «asettico» nelle città, come stiamo facendo. Dobbiamo cambiare stile di vita, bisogna veramente che diventiamo «francescani».

Lei ha trovato il «paradiso in terra» in questi luoghi?
Sì, assolutamente. Ci sono tribù che vivono veramente ancora in paradiso, per esempio gli Zo’é (dell’Amazzonia). Piccoli gruppi che vivono in un equilibrio straordinario con la natura, in totale comunione con la terra, con gli animali, con l’acqua, hanno una salute che non ho mai visto e una bellezza incredibile. Così anche altre popolazioni. Vi dico una cosa: se non fosse per mia moglie e per i miei figli, io potrei benissimo andare lì a vivere e sarei felice. Devo dire che quello è veramente un paradiso.

Sua moglie le è sempre a fianco.
Mia moglie è molto importante nella mia vita e in tutto questo. Lei ha curato la mostra, la scelta delle immagini, ha pensato i libri, lei è presidente dell’Instituto Terra. Le foto non sono che la punta di un iceberg, la base è mia moglie con tutta l’équipe che ha lavorato con me al progetto (a Parigi e all’Instituto Terra dove ci sono 140 persone).

Suo figlio Juliano ha girato un film su di lei?
Mio figlio e il regista Wim Wenders hanno realizzato un film su tutta la mia vita fotografica. Genesi rappresenta una parte importante di questo film.
  

INFO
Sebastião Salgado, Genesi a cura di Lélia Wanick Salgado
fino all’11 maggio 2014
Casa dei Tre Oci, Giudecca, 43
Venezia
tel. 041 2412332
www.treoci.org
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017