«Siamo andati in mare e non siamo morti»

Intervista a Gianfranco Rosi, che con il suo ultimo film «Fuocoammare» ha vinto l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino 2016. L’opera racconta dei migranti, ma anche di un’isola, Lampedusa, e della sua gente, da sempre capace di accogliere.
02 Maggio 2016 | di

Samuele ha 12 anni. Parla il dialetto e studia l’inglese. Vive con lo zio, pescatore come tutti nella piccola isola, più vicina all’Africa che all’Italia. Quando esce in barca, però, sta male e vomita. Per questo ama i giochi di terra anche se, intorno, tutto parla di mare e di uomini e donne che cercano di percorrerlo per raggiungere la sua isola: Lampedusa. Abile con le mani, si costruisce delle fionde e, con gli amici, va a caccia di uccelli. 

È proprio la sua mira infallibile a mettere in luce un difetto: l’occhio pigro. Un occhio che non vede perché non si sforza di guardare. Un occhio che va corretto e allenato per poter mettere a fuoco la realtà che sta fuori. Samuele Pucillo è il protagonista di Fuocoammare (2016), film che ha vinto l’Orso d’oro all’ultimo Festival del cinema di Berlino. Uno sguardo che il regista Gianfranco Rosi ha puntato, volutamente, oltre l’emergenza degli sbarchi. Per raccontare di una terra, e della sua gente, che in vent’anni ha accolto oltre 250 mila migranti.

Msa. L’occhio pigro di Samuele è il nostro sguardo su una tragedia che non vogliamo vedere.
Rosi. Sono andato a Lampedusa, la prima volta, nel 2014. Dovevo girare un corto, un instant movie di dieci minuti, da presentare a un festival internazionale. L’idea, già allora, era quella di raccontare a un’Europa, appunto pigra e complice, un’altra isola, quella che non appare. L’immagine che di solito ci arriva è distorta, parziale. L’unico modo di raccontare l’identità più profonda di quel luogo era farne sentire il respiro.

Vale a dire?
Vivendo questo luogo ho scoperto una realtà molto lontana dalla narrazione mediatica e politica. Rimanendo lì a lungo ho capito che la parola emergenza non ha senso: tutti i giorni accade qualcosa.

A Berlino ha vinto il premio della Giuria ecumenica e quello di Amnesty International. Un successo unanime per un’opera che la giuria, presieduta da Meryl Streep, ha definito «urgente, visionaria, necessaria».
Sono stato molto contento di portare a Berlino, nel centro dell’Europa, il racconto di Lampedusa, dei suoi abitanti e dei suoi migranti proprio ora che la cronaca quotidiana impone di ragionare in maniera diversa. In genere faccio fatica a lasciare i miei personaggi e i luoghi delle riprese, ma per Fuocoammare ho sentito la necessità di restituire questa esperienza al presente, alla contemporaneità di domande che ci interpellano con altrettanta urgenza.

Bernardo Bertolucci, consegnandole il Leone d’oro a Venezia per Sacro GRA, ha definito il suo modo di fare regìa «francescano» per la ricerca di umanità, laddove nessuno si aspetterebbe, e l’immersione nella realtà, senza mai invaderla. È accaduto anche per Fuocoammare?
Il tempo è sempre centrale. Appena messo piede laggiù ho capito che non avrei mai potuto far cogliere appieno Lampedusa se ci fossi rimasto solo poche settimane. Sono arrivato d’inverno. In quel periodo non c’erano sbarchi. Lontano dai riflettori, l’isola sembrava vivere un tempo sospeso. La mia non poteva che essere un’immersione prolungata, attenta ad ascoltare i ritmi del mare e non solo, a trovare una diversa porta d’ingresso.

Per riuscire a raccontare, ha scelto di andare a vivere a Lampedusa.
Non si può far respirare il senso di una tragedia senza un contatto ravvicinato e continuativo con la realtà. Ho preso una casetta nel porto vecchio e vi sono rimasto per oltre un anno. Ho voluto che anche il montaggio fosse eseguito in loco. Quella gente oggi è la mia famiglia.

Subito dopo l’Orso d’oro lei ha chiesto l’assegnazione del Premio Nobel per la pace a Lampedusa e a Lesbo.
Raccontando la tragedia attraverso gli occhi degli abitanti di Lampedusa, ho capito che essi, proprio come quelli di Lesbo, sono i protagonisti di un cambiamento che ha mutato nel profondo il loro modo di vedere e sentire. Nonostante ciò, le porte delle loro case sono rimaste aperte, giorno e notte, per salvare. Hanno accolto migliaia di migranti e non ho mai sentito una parola di rifiuto, di astio, di paura. Mi sono chiesto più volte il motivo. Me l’ha spiegato il medico dell’isola, il dottor Bartolo: «Siamo un popolo di pescatori, abituati ad accogliere tutto ciò che arriva dal mare e a non ributtare mai nulla indietro».

I suoi racconti nascono sempre dall’incontro con le persone. Partiamo dai migranti.
Ho filmato decine e decine di sbarchi. A un certo punto ho capito che, oggi, la linea di frontiera si è spostata in mezzo al mare. Allora ho chiesto il permesso di imbarcarmi su una nave della Marina italiana. A bordo ho condiviso ritmi, tempi e regole fino a quando non abbiamo incontrato la tragedia che non ho potuto non filmare, anche se quell’esperienza non è descrivibile.

C’è poi Samuele.
Samuele, che ha visto il suo primo film al cinema proprio a Berlino, mi ha conquistato per il suo sguardo, ingenuo e puro. L’ho seguito nei suoi giochi con gli amici, a scuola, a casa con la nonna, sulla barca con lo zio. Samuele mi ha permesso di osservare luoghi e persone in modo diverso.

E poi Pietro Bartolo, il medico che ha soccorso più di 250 mila migranti.
L’ho conosciuto per caso. A causa di una brutta bronchite, mi recai al Pronto Soccorso. Lì mi visitò proprio lui, il medico che da trent’anni cura i lampedusani e da quasi altrettanti assiste a ogni singolo sbarco. Non sapeva chi fossi, eppure volle condividere con me ciò che aveva vissuto. Tornai da lui a fine riprese. Questa volta con la camera. Com’era accaduto la prima volta, mi aprì il suo pc, un archivio incredibile: trent’anni di dati, immagini, storie. La sua umanità e la sua serenità sono riuscite a trasmettermi, come non era mai accaduto, il senso della tragedia e il dovere del soccorso e dell’accoglienza. Ho ripreso tutto. Mi sono bastate le sue parole per decidere che, solo allora, il film poteva concludersi».
 

La scheda

Nasce ad Asmara (Eritrea) nel 1964. Dopo l’università, si trasferisce a New York e si diploma alla NY University Film School. Trasformare frammenti di realtà e di vite in universi narrativi e personaggi carichi di significato: questo il suo modo di far cinema. Dei film non è solo regista, ma anche autore della fotografia e curatore del suono.

Non ama le sceneggiature convenzionali, è il suo sguardo sulla realtà a creare il racconto filmico: la giornata di un barcaiolo lungo il Gange (Boatman, 1993); la comunità di Slab City in California, fuori da ogni regola eppure ricca di umanità (Below Sea Level, 2008); il film-intervista a un sicario del cartello messicano, che affida solo alle mani il racconto dei suoi crimini (El sicario – Room 164, 2010), opere presentate e premiate nei principali festival internazionali. La consacrazione con Sacro GRA (2013), campionario di umanità nel Grande Raccordo di Roma.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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