Shin Dong-Hyuk. L’uomo che visse due volte

È l’unico prigioniero nato nel Campo 14, il peggior lager del regime nordcoreano, che sia riuscito a fuggirne. Una vita di dolore e di coraggio, spesa per il suo Paese e per l’umanità. Una storia che ricorda il buio dell’Olocausto.
25 Novembre 2014 | di

«Non vorrei essere solo una bella storia da raccontare» ripete spesso Shin Dong-hyuk, 32 anni, a quanti gli sono vicini, con la lucidità di chi conosce i fuochi fatui del circuito mediatico. La «bella storia» c’è, l’hanno ripresa molti giornali in Italia e nel mondo. Shin è il solo che sia riuscito a scappare dal Campo 14, il peggior campo per prigionieri politici della Corea del Nord, chiaramente visibile dalle foto satellitari ma a lungo negato dal regime. Chi vi entra, anche solo per un sospetto, per il possesso di una Bibbia o di una radiolina sintonizzata su un’emittente straniera, è condannato a vita. Si stima che circa 200 mila persone siano internate in queste strutture, veri e propri campi di concentramento dove si muore di fame, di torture e di lavori forzati.

Settant’anni dopo Auschwitz la storia si ripete. Ma la vicenda del giovane nordcoreano è unica anche per un altro motivo: Shin nel Campo 14 è nato, per lui il mondo finiva alle colonne d’Ercole del filo elettrificato. Non è mai stato figlio di due genitori affettivi, ma di un programma che faceva accoppiare i prigionieri per dare braccia al campo. «Prodotto» di un’istituzione assoluta, Shin è cresciuto nel ventre freddo del regime, senza cure, senza amore, senza il colore dei sentimenti. Programmato per obbedire e lavorare, per controllare ed esser controllato, per sopravvivere a ogni costo, anche a quello della vita degli altri. Nella bisaccia di Shin c’è un altro grande peso: ha denunciato madre e fratello per tentata fuga, come prescritto dalle leggi del Campo, e ha assistito senza emozioni alla loro esecuzione, perché quello era il suo dovere.

Shin oggi è un uomo libero, lo è da circa nove anni: ne aveva 23 quando è fuggito. Vive in Corea del Sud, è attivista per i diritti umani e principale testimone della commissione Onu che indaga sui crimini del regime nordcoreano. Lo incontriamo a TorinoSpiritualità a fine settembre, in occasione dell’uscita in Italia del libro Fuga dal campo 14 (Codice Edizioni), scritto dal giornalista del «New York Times» Blaine Harden. Shin è un uomo magro, mite, timido, sovrastato dall’enormità della sua storia: un piccolo grande uomo con un peso immenso.

Fa fatica a fissarti negli occhi, s’incurva in avanti quasi a scomparire. Si percepisce che non vorrebbe fare questa intervista, né nessun’altra. Testimoniare è un ritorno all’orrore e nello stesso tempo la sua ragione di vita. Il campo non ha mai smesso di perseguitarlo. E non solo negli incubi. Mentre scriviamo questo pezzo, il regime ha diffuso via internet un video del padre di Shin, che spiega difetti e inaffidabilità del figlio. L’ennesimo sfregio. Gli editori italiani del libro riferiscono che Shin è rimasto pietrificato. Non sapeva che suo padre fosse ancora vivo. E conosce così bene il linguaggio del campo per capire che è una minaccia. La sua non può essere solo una bella storia da raccontare. È un grido per tutti, un appello a restare umani.

Msa. Mi può descrivere il Campo 14, ma non oggettivamente, bensì seguendo il filo dei ricordi: emozioni, immagini, colori, sapori, suoni?
Shin. La sensazione più forte che ricordo è la paura. Nel campo non c’era spazio per cose come le emozioni. Noi non possedevamo nulla. Non potevamo mangiare altro se non un pugno di granoturco e una zuppetta annacquata. Una mia conoscente è stata picchiata a morte perché aveva rubato cinque chicchi di grano: tanto poco, esprime tutto. Ma un suono lo rammento, nitido e terribile: il fragore assordante di una fucilata. È il primo ricordo della mia vita. Avevo 5 anni e mia madre mi aveva portato a vedere un’esecuzione. Quel fragore mi ha così spaventato che non ho parlato per giorni. Tutt’oggi quello sparo mi sveglia nel cuore della notte.

Chi era sua madre?
Era la persona che più odiavo al mondo, più ancora del dittatore: perché mi aveva fatto nascere in quel luogo di infinito dolore? Perché non mi aveva cancellato? Non ricordo da parte sua nessun atto d’amore: un piatto caldo, una parola buona. Sto male a dire queste cose, ma io a 13 anni speravo che morisse presto. Mia madre è morta a causa mia, e io non vorrei più raccontarlo. Però oggi, se c’è una persona che io vorrei ringraziare, quella è mia madre. La ringrazio perché mi ha messo al mondo e oggi, grazie a lei, sono un uomo libero. Ci ho messo tanto tempo a capirlo. Magari potessi esprimerle il mio amore.

Lei ha scoperto il mondo oltre il campo grazie al racconto di un prigioniero. Che cosa l’ha spinta a evadere?
Il mio non è stato un pensiero rivoluzionario. Nessun uomo sano di mente poteva pensare di scappare dal Campo 14. Tutti si adeguavano per sopravvivere. Ma l’uomo mi raccontava che le persone fuori dal campo mangiavano bene e vivevano meglio. Restai colpito da come descriveva il gusto del pollo, che noi prigionieri allevavamo per le guardie, ma non potevamo mangiare. Il desiderio di pollo è stata la mia molla per la libertà.

Lei e quell’uomo alla fine avete tentato la fuga. Lui è morto fulminato mentre lei è riuscito a scappare riparato dal suo corpo. Lei oggi lo definirebbe un amico?
In un certo senso sì, anche se all’epoca non avevo idea di cosa fosse l’amicizia. Lo penso spesso, anzi tutti i giorni. Ritengo di essere stato davvero fortunato.

Che cosa ha trovato fuori?
Era inverno e avevo le gambe bruciate dai fili elettrici attraversati. Anche lì fui fortunato, scelsi per caso la direzione giusta. Se fossi andato verso sud, mi avrebbero ripreso. Sperimentai a mie spese che il cibo non era dappertutto come mi era stato raccontato. Rubai per sopravvivere. Ma era comunque un’esperienza meravigliosa e incredibile: non c’era bisogno di obbedire, nessuno portava la divisa, la gente si riuniva, persino rideva, mangiava quel che voleva. Ero felice anche se avevo fame. Riuscii a scappare in Cina e, come molti miei connazionali, sono stato per un anno a servizio di una famiglia cinese che non aveva neanche la corrente elettrica.

Che cos’è la libertà?
Libertà significa vivere, non sopravvivere. L’esperienza più incredibile della mia vita è stata capire che potevo mangiare ciò che volevo e quando volevo. Non pensavo fosse possibile. Una vera rivelazione. Ho scoperto durante il mio cammino che la libertà è dentro di me, che è inscritta nel Dna di ogni essere umano. E nessuno può cancellarla, né ha il diritto di farlo. Mai.

In una vita in cui non c’era posto per le emozioni, qual è stato il sentimento che è riu­scito ad accendere qualcosa in lei?
L’esperienza dell’amore: essere amato e ricambiare amore. Non sto parlando solo di amore romantico, ma di ogni genere di amore. All’inizio non ero neppure in grado di ricevere un abbraccio, e sentivo di non meritare amore. È grazie a tutte le persone che mi hanno aiutato in questo mio percorso che io posso capire che cosa probabilmente l’amore è. Ma mi ci vorrà la vita.


L’umanità più volte nel corso della storia è caduta nelle aberrazioni del genocidio o dei campi di sterminio. Secondo lei, perché?
Forse perché l’umanità ha sempre avuto, e probabilmente sempre avrà, un seme diabolico nell’anima e quando si presentano le occasioni il grande male si libera e si esprime in queste forme. Pensi all’Olocausto, al Kosovo, al Rwanda. Da quando sono fuggito, continuo a studiare questi fenomeni. La mia conclusione è che i malvagi agiscono subito, mentre i buoni pensano molto ma fanno ben poco. Provi a pensare a quante sono le vittime dei genocidi e a quanti pochi sono i criminali assicurati alla giustizia. Il conto è sempre in perdita. E in ogni caso nessuno può far tornare in vita quei milioni di morti.

Sembra che lei stia perdendo la speranza.
Io ho ancora una speranza, ma è oltre. Sono cresciuto senza nozione di Dio, eppure in questi ultimi anni è stato per me molto importante andare a Messa e studiare la sua Parola. Tuttavia ho difficoltà ad accettare che Dio possa aver consentito tutto questo male contro di noi, contro di me, contro tutti i prigionieri che ho lasciato in Nord Corea. Non accetto che le nostre donne siano vendute ai cinesi per pochi penny ai confini tra la Cina e il Nord Corea. Nonostante tutto prego, prego molto intensamente. Dio è la mia ultima speranza.

Non ha paura per la sua vita?
In ventitré anni di campo di concentramento ho speso tutte le mie paure. Quando ancora ero nel campo avevo orrore della morte. Ora penso che la cosa più importante non sia evitare la morte ma vivere da uomo. Nel campo ero un farabutto, ma oggi, prima di morire, voglio trovare un significato alla mia vita. Io sono solo una delle crepe che mostra l’assurdità del regime nordcoreano. Morto io, altri daranno testimonianza. Ma la mia missione è anche per voi: ciò che vi ho raccontato è solo una pallida immagine di quello che succede in Nord Corea. Ricordatelo sempre: la libertà è un bene prezioso e difficile da mantenere. Se viene persa, si riconquista solo con il sangue. È il mio avviso per voi: non date per scontata la vostra libertà.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017