Quando la misericordia entra in carcere

Debutta in occasione del Giubileo dei carcerati il docufilm «Mai dire mai», prodotto da Tv2000. Gli interventi dei protagonisti e la voce (raccolta da Sabina Fadel) del regista Andrea Salvadore.
06 Novembre 2016 | di

Un racconto da dentro per aprire qualche porta di misericordia tra «dentro» e «fuori», tra il tabù del carcere e la società. È «Mai dire mai», docufilm di Andrea Salvadore prodotto da Tv2000, che manda in onda la prima parte proprio nel giorno dedicato al Giubileo dei carcerati, il 6 novembre, mentre per la seconda bisogna attendere la domenica successiva, 13 novembre, sempre in seconda serata.

Il documentario è stato girato all’interno della casa di reclusione Due palazzi di Padova e alla casa di reclusione femminile della Giudecca, a Venezia. Per realizzare le riprese ed entrare nell’ambiente, la troupe ha vissuto per un mese fisicamente in carcere. Il pezzo forte dell’ottimo lavoro di Andrea Salvadore –  presentato in anteprima nazionale proprio al Due palazzi – è costituito dalle testimonianze di dieci detenuti che raccontano la propria storia di vita. E di libertà interiore ritrovata grazie a percorsi diversi per ciascuno, ma accomunati da incontri con operatori e volontari, sacerdoti e religiosi, attraverso il lavoro e la fede…

«Mai dire mai», nelle parole di Ottavio Casarano, direttore del Due palazzi, è diventato «un piccolo frammento di Giubileo della misericordia, o almeno noi lo abbiamo interpretato così. Sfata alcuni miti sul carcere e sui ristretti».

Molto intenso l’intervento del vescovo di Padova, Claudio Cipolla: «Il carcere è un luogo dove è chiara la presenza della sofferenza e dell’errore. Parlare qui di misericordia potrebbe suscitare una reazione da parte della città. Invece la città è qui, nei suoi rappresentanti, proprio a usare misericordia: un miracolo. Perché la guarigione deve avvenire da entrambi i lati: da quello dei detenuti, ma anche da quello degli agenti e della città. Si cresce solo insieme. E così, il percorso di misericordia va raccontato più che posseduto. È un racconto da tenere aperto, perché possa avere un futuro. Auspico che la città si ripensi, a partire da coloro che si trovano in difficoltà».

Il video dà voce anche al punto di vista speciale e privilegiato dei cappellani delle carceri. Così don Marco Pozza, parroco della particolare parrocchia del Due palazzi: «Non sono qui per convertire, quello compete al Signore. Sono qui, insieme a tanti volontari, per accompagnare le persone. E questo è molto più difficile. Diceva Victor Hugo nei Miserabili: “Le perle non si sciolgono nel fango”. Io penso che la mia missione di sacerdote qui dentro mi sta mostrando questo: mi ha portato dentro al fango, mi ha fatto sporcare i piedi, e una volta che ho imparato a camminarci dentro ho scoperto che ci sono delle perle. È vero, sono sporche, sono striate, però non si sono sciolte».

Da parte sua fra Nilo Trevisanato, cappuccino che presta servizio alla Giudecca, non nasconde di aver avuto delle perplessità all’inizio delle riprese. Perché non sapeva quanto le detenute avrebbero voluto esporsi in video, ma anche per un altro motivo, «per un’attenzione anche nei confronti delle vittime dei reati che qui vengono scontati, alla loro pena». Torna così il pensiero già espresso dal vescovo: il percorso di riavvicinamento deve essere aperto, da più parti, insieme.

Fra Nilo opera nella casa di reclusione in equipe con suor Franca Busnelli, delle suore di Maria Bambina: «Per spiegare il nostro intervento con le detenute penso sia adatta l’immagine del buon samaritano, che cura le ferite usando olio e vino. L’olio è la consolazione, il vino invece brucia. Servono entrambe, perché la ferita può essere infetta e avere anche bisogno di sanguinare di nuovo, per poter rimarginarsi».

 

«Grato per questa esperienza»

Un mese di lavoro. Tre settimane nel carcere Due Palazzi di Padova e una nel carcere femminile veneziano della Giudecca. Tanto il tempo trascorso dal regista Andrea Salvadore nelle due case di reclusione per realizzare la serie televisiva Mai dire mai.

Msa. Com’è nato il progetto? Salvadore. Tutto ha origine dall’incontro con don Marco (don Marco Pozza, cappellano del carcere padovano, ndr) e dal lavoro, davvero encomiabile, quasi da Nobel per la Pace mi verrebbe da dire, che lui sta facendo con le scuole, per sensibilizzare gli studenti al tema delle condizioni di vita nelle carceri. In genere io diffido di quelli che fanno tv e poi spiegano che cos’hanno fatto, perché è come dire che il proprio lavoro non è facilmente interpretabile. Ma in questo caso voglio fare un’eccezione, perché siamo dinanzi a un modo di fare televisione che oggi purtroppo si è perso. Oggi nessuno ha più il tempo di raccontare nulla; si preferisce ricostruire le vicende. Ma noi in questo caso abbiamo semplicemente raccolto delle storie e le abbiamo portate nelle case della gente, contribuendo a portare un pezzetto di carcere al cuore della città, perché in fondo, a ben pensarci, che cos’è la tv se non una città più grande?

Si è preparato molto? Sono una persona scrupolosa, che di solito si prepara molto accuratamente, perché vuole avere una chiara idea di ciò che deve fare. In questa occasione, però, ho agito diversamente. Avevo sentito in modo fortuito dei brandelli di storie nel corso di alcuni incontri con le scuole. Ma non ho voluto approfondire nulla, perché volevo solo concentrarmi su chi avevo di fronte, mi interessava l’«incontro» con la persona di oggi. Non volevo sapere chi era stata, che cosa aveva fatto, ma chi era lei nel momento in cui stava parlando con me. Se poi le storie raccolte sono lacunose, se sono storie «altre» rispetto a quanto avvenuto, a me non interessa: la responsabilità è di chi si racconta.

Che cosa le ha dato questa esperienza? La consapevolezza molto chiara che il confine tra me e una persona ristretta è molto sottile. Oggi sono stato io a intervistare lei, ma in un’altra ipotetica vita lei avrebbe potuto intervistare me. Io non sono migliore di lei, ma solo più fortunato, perché sono cresciuto in una famiglia tranquilla, borghese. Quindi, che cosa mi resta di questa esperienza? Un profondo senso di gratitudine.

(intervista a cura di Sabina Fadel)

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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