L’integrazione è liquida!

Possiamo inventarci tutte le tabelle e le frontiere che vogliamo per catalogare le persone, ma non troveremo mai una soluzione universale a tutti i problemi.
17 Marzo 2015 | di

Tornando a casa in macchina da un convegno, al quale ero stato invitato con alcuni colleghi in una cittadina del nostro bel Sud, sonnecchiavo e ascoltavo distrattamente un acceso dibattito tra alcuni di loro. Sentivo pronunciare lettere, sigle, parole, frasi all’apparenza senza senso… «Non hanno preparato il PEI per quel ragazzo con DSA…»; oppure: «Non è prevista come disabilità dall’ICF». E ancora: «Di quel lavoro doveva occuparsene il GLI». Per semplificare la vita ai miei lettori (non tutti addetti ai lavori in merito all’integrazione scolastica) spiego qualcuno di questi acronimi… PEI è il piano educativo personalizzato; DSA sono i disturbi specifici dell’apprendimento e il GLI è il gruppo di lavoro per l’inclusione e via dicendo… Così riflettevo sul senso di queste sigle, sulla loro utilità, su questa corsa alla classificazione e, di conseguenza, alla specializzazione.

Pensavo anche a quanto ci eravamo detti alcuni mesi prima a riguardo con Andrea Canevaro, emerito professore e pedagogista di fama internazionale.

Ho lanciato allora ai miei colleghi una domanda, per provocarli un po’. Ma secondo voi l’integrazione è solida o è liquida? Nel confronto con Canevaro avevo parlato proprio di questo, del bisogno crescente di siglare, classificare, specializzare che si riscontra ovunque, non solo nelle scuole. Come se certe «frontiere» potessero aiutare a trovare in fretta soluzioni a dei problemi che in realtà sono molto più complessi. Proprio da qui volevo partire. Perché l’idea collettiva, e non sto parlando solo di integrazione scolastica, è quella che catalogare ci aiuti a definire e a circoscrivere meglio i problemi. Finisce così che tutti i ragazzi con disabilità psichica hanno dei tratti autistici e tutti gli anziani al primo accenno di senilità sono affetti da Alzheimer o, addirittura, che tutte le persone di colore (bastava leggere, nei mesi scorsi, le cronache della psicosi vissuta in molte realtà occidentali) sono potenzialmente affette dal virus dell’Ebola. Esempi semplici ma efficaci, che ci fanno capire come le classificazioni e le semplificazioni spesso ci conducano alla superficialità, all’ignoranza e al razzismo.

Io credo che di solido non possa esserci nulla nell’integrazione. L’inclusività deve fondersi per poi diventare liquida (o perlomeno gassosa), così da insinuarsi in ogni frontiera che la nostra cultura pregna di stereotipi produce. La stessa classe «disabilità», alla quale teoricamente appartengo anch’io, può essere considerata vaga o quantomeno astratta se pensiamo a tutte le diversità che la compongono. Ognuno ha le proprie specificità, ognuno ha le proprie caratteristiche e i propri valori. Possiamo inventarci tutte le tabelle e le frontiere che vogliamo per catalogare persone, ma non troveremo mai una soluzione universale a tutti i problemi. Proprio perché l’integrazione è liquida, entra ed esce continuamente da questi schemi, quindi va fatta lavorando con le persone, non con tipologie di persone.

Dunque, mi chiedo, per voi l’integrazione è solida, liquida o gassosa?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.  

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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