Lettere al direttore

01 Ottobre 2015 | di

Lamentarsi è inutile e dannoso

«Negli ultimi tempi si è diffusa la moda, l’abitudine, la sottocultura di lamentarsi. Secondo me queste energie andrebbero utilizzate meglio per costruire programmi, progetti, e per favorire una spinta al cambiamento. Bisognerebbe partire dal principio che nessuna generazione è superiore all’altra, per tirar fuori le migliori idee che ciascuno di noi ha dentro e adoperarle positivamente per il bene di tutti. Bisognerebbe anche cogliere le opportunità di partecipazione che si presentano, in tutti i campi: politico, economico, culturale, ambientale. Poi andrebbe fatto uno sforzo di volontà per superare la sottocultura, la moda, depressiva, noiosa e sterile, del solo lamentarsi. La critica, quando va fatta, dovrebbe essere intelligente, costruttiva, propositiva e rispettosa dell’altro. Ci sarebbe un gran bisogno di costruire relazioni sane, oneste, sincere e improntate al benessere delle persone. Tutti insieme dovremmo farci carico dei piccoli e grandi problemi della società, partecipando con responsabilità a ogni aspetto della vita sociale. Essere attivi, positivi e quindi anche più liberi è il nostro modo di dare un contributo per costruire un mondo migliore, più giusto, in cui poter vivere positivamente ed essere tutti più felici».

Lettera firmata

 

Quest’estate mi ha colpito il titolo di una notizia riportata da alcuni giornali: «Lamentarsi rende stupidi». Il titolo, come spesso succede, era un po’ esagerato, ma il contenuto riferiva che una ricerca condotta dall’Università di Stanford, negli Stati Uniti, quella in cui Steve Jobs, il fondatore della Apple, giusto dieci anni fa fece il famoso discorso che culminava con «rimanete affamati, rimanete folli», avrebbe dimostrato scientificamente che lamentarsi e, più in generale, esprimere negatività, «spegne i neuroni» e con essi ogni possibilità di trovare soluzioni creative ai problemi. A quanto pare, sempre secondo la ricerca, questa paralisi di creatività affliggerebbe non solo il «lamentoso», ma anche chi ha la sfortuna di ascoltarlo e viverci accanto. Anzi, pare che mezz’ora d’insana negatività smorzerebbe il più attivo dei problem solver (cioè chi ha l’attitudine di risolvere i problemi). Se così è, la scienza dimostra, con il rigore del suo metodo, ciò che noi comuni mortali più modestamente intuiamo da sempre: lamentarsi non cambia le cose, anzi, spesso aggrava i problemi.

Certo, ci sono da fare i dovuti distinguo: una cosa è sfogarsi dopo un avvenimento negativo o una grave frustrazione, un’altra è usare la lamentela come modo di vivere, come approccio agli altri e al mondo. In alcuni casi, infatti, lamentarsi serve a creare una distanza tra ciò che ci succede e la nostra persona, come se il negativo che stiamo sperimentando fosse solo colpa di qualcuno o qualcosa, del tutto incontrollabile e fuori dalla nostra responsabilità. Questa distanza fa sì che la persona si focalizzi solo sul lato negativo e sottovaluti o ignori altri aspetti che invece potrebbero capovolgere la visione delle cose e aiutare a trovare soluzioni alternative, restituendo la capacità di sentirsi padrone della propria esistenza. La negatività contagia come un’influenza, disillude, toglie fiducia, insomma paralizza chi ci sta intorno proprio come illustra la citata ricerca. Imparare a non lamentarsi non è istintivo e non è facile. È arte da equilibristi della vita, è cadere e rialzarsi, è cercare speranza anche quando è tempesta, è capacità di percepirsi come parte di un tutto.

Chi ha fede è facilitato, ma il bisogno di fiducia, di una parola positiva, travalica le confessioni religiose. È fatto umano. Per questo sono d’accordo con lei: l’antidoto è impegnarsi insieme, a tutti i livelli e ogni volta che possiamo, per migliorare prima il nostro metro quadro di mondo e poi il mondo intero. Oltre ogni limite, oltre ogni disincanto. Il cantante Lorenzo Jovanotti nel brano Ora esprime questo concetto con un’immediatezza disarmante: «Dicono che è vero che ogni sognatore diventerà cinico invecchiando… dicono che è vero che per ogni slancio tornerà una mortificazione, dicono che è vero sì ma anche fosse vero non sarebbe giustificazione per non farlo più, per non farlo più».

 

IL «MESSAGGERO» PER I NON VEDENTI

 

Foto: Giuseppe Rampazzo / Archivio MSADa alcuni anni il «Messaggero di sant’Antonio» offre iniziative per i non vedenti e gli ipovedenti. Innanzitutto un’edizione dedicata della rivista in due versioni, formato word (via e-mail) e formato MP3 (via posta) a euro 10 all’anno. È già disponibile il Calendario Antoniano in braille o nero braille: l’invio è gratuito ma, chi vuole, può fare un’offerta a Caritas Antoniana. È, inoltre, possibile corrispondere con i frati in braille e organizzare apposite visite guidate in Basilica.

Per info: tel. 800019591

 e-mail abbonamenti@santantonio.org

Lettera mese

Fede e tradizione

 

Un decalogo... di suggerimenti

 

Altro che clausole capestro in calce al contratto: i Dieci comandamenti

sono indicazioni di percorso, amorevoli segnaletiche per non perdere la strada. Se c’è un comando ricorrente nel Pentateuco, è quello di «ascoltare» e scegliere Dio

 

«Reverendo padre, vorrei porle un paio di interrogativi che hanno sempre destato incertezza nelle mie riflessioni. Entrambi riguardano il Decalogo. Primo: sul Monte Sinai Mosè ricevette i Dieci comandamenti. La parola “comandamento” è intesa quindi come comando (“non devi rubare, non devi adorare altro Dio…”), il che potrebbe mettere in discussione un dono importantissimo che il Signore ci ha dato (dopo quello del soffio della vita), cioè la libertà di decisione. Non sarebbe stato meglio che il nostro Creatore avesse cambiato la parola “comandamenti” con “suggerimenti”, così da intendere: “Io ti suggerisco di non rubare, altrimenti non ti guadagnerai la vita eterna…”? Il secondo interrogativo riguarda il quinto comandamento: Non uccidere. Nel corso della storia, con l’infinità di conflitti che si sono verificati, in molti hanno dovuto uccidere per un ordine superiore. Come saranno giudicate da Dio queste persone?».

Lettera firmata

 

I cosiddetti «Dieci comandamenti», che così grande importanza hanno nella Sacra Scrittura per quel che riguarda l’identità del popolo d’Israele, ma non solo, visto che comunque sono richiamati tali e quali anche da Gesù nel dialogo con il giovane ricco (Mt 19,16-22), pagano un po’ il confronto tra Antico e Nuovo Testamento. Evidentemente tutto a favore di quest’ultimo: come se, in maniera alquanto semplicistica, detti comandamenti fossero retaggio di una relazione con Dio superata dalle Beatitudini evangeliche. C’è una parte di vero anche in questo modo di ragionare, ma che non possiamo cavarcela così è ancora Gesù a ricordarcelo: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).

«Legge» non sono certo solo i nostri Dieci comandamenti che, appunto, devono essere colti nel contesto di tutta quella che gli ebrei chiamano Torah: l’insieme dei primi cinque libri della Bibbia. E allora come possono essere banalmente degli imperativi questi, che sono consegnati da Dio a Mosè sul Sinai niente di meno che subito dopo la liberazione dalla schiavitù d’Egitto (Es 3,7-8)?! Se c’è un comando ricorrente in questi libri è quello di «ascoltare» e scegliere Dio. Tant’è che la prima volta questo elenco di comandamenti non si chiama neppure così, ma «parole pronunciate da Dio» (Es 20,1)! Verbi tutti al futuro, ad aprire un lungo tratto di strada che Dio vuol percorrere con i suoi amici, e non un presupposto. Altro che clausole capestro in calce al contratto: sono indicazioni di percorso, amorevoli segnaletiche per non perdere la strada, lungo la quale egli ci accompagna titubante (lo dice molto chiaramente anche il Papa nel videomessaggio dell’8 giugno 2013: cercatelo in Rete). Perché sa anche troppo bene che «può esistere» solo se lo cerchiamo. E non sa, onnisciente com’è, se mai ci verrà voglia di farlo né tantomeno se lo troveremo. Sicuramente consapevole che dovrà chissà quante volte rifare i patti con noi.

E il quinto comandamento? Anche in questo caso, come in tutti gli altri, la nostra libertà e la nostra fedeltà si giocano tutte nell’imperfezione e nel limite: tra l’ideale che abbiamo davanti, verso il quale siamo incamminati, e la nostra realtà, con cui dobbiamo fare i conti. I commentatori ebrei fanno notare che nel Testo Masoretico, la versione ufficiale della Bibbia in uso tra loro, quella che a un certo punto ne definì tra l’altro ortografia, punteggiatura e pronuncia, «non ucciderai» è «lò tirzah». Dove le due parole sono però separate da un breve intervallo di silenzio segnato da un tratto, che si potrebbe rendere con «non… ucciderai». Una pausa che permette, anzi, è affidata alla libertà dell’uomo; perché scelga secondo coscienza e secondo il bene proprio e altrui. Ma noi potremmo aggiungere anche secondo i tempi, il grado di consapevolezza, la maturazione umana. Altro che limitare la libertà dell’uomo. Qui è Dio che limita se stesso…

Lettere al Direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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