L’adolescenza? Un canto d’amore

I giovani? Hanno solo bisogno di essere ascoltati. La speranza? Siamo noi adulti a soffocarla. Botta e risposta con Giacomo Campiotti, regista di «Braccialetti rossi», fenomeno televisivo dell’anno.
30 Giugno 2014 | di

Lo chiamano il cantore dell’adolescenza. E non solo perché ha diretto, e in parte sceneggiato insieme con Sandro Petraglia, la miniserie tv Braccialetti Rossi: 7 milioni 200 mila spettatori e il 26 per cento di share nell’ultima puntata; oltre 200 mila iscritti e 40 milioni di interazioni su Facebook; oltre 13 milioni di messaggi scambiati su Twitter; 13.350 ore di visione su Youtube per i video della serie; 150 mila download dell’App dedicata. Si sono da poco conclusi i provini della seconda serie che andrà in onda il prossimo anno. Vi hanno partecipato migliaia di giovani. E, tra la fine di luglio e i primi di agosto, inizieranno le riprese. Sempre a Fasano, in Puglia.

Giacomo Campiotti è, a tutti gli effetti, il regista più conosciuto dai ragazzi. Conosciuto e, prima ancora, amato. Un motivo, allora, ci sarà. Vederlo all’opera, sul campo, magari aiuta a capire da dove nasce questa rara alchimia. Lo incontriamo lontano dal set, in un luogo «normale». L’occasione è un «faccia a faccia» promosso dall’Azione Cattolica di Villanova di Camposampiero, in provincia di Padova, con i ragazzi del vicariato. Campiotti non vuole fotografi, tanto meno giornalisti. I ragazzi devono potersi sentire liberi, devono essere se stessi, non fake, finti. 

Tra una canzone e l’altra, tratte dalla fiction, i giovani gli pongono domande. Mai banali, sempre scomode, coraggiose, impertinenti. Lui, il regista, sposato e padre di quattro figli, non si sottrae. E, prima di rendersi disponibile per autografi e selfie, risponde a ognuno di loro. Quindi, terminato l’incontro, concede un po’ di tempo anche a noi, fino a quel momento rimasti in paziente attesa.

Msa. Ha sempre diretto film. Perché una serie televisiva?
Campiotti. In effetti è la prima volta. Mi è piaciuto il progetto: rischioso, originale, urgente per certi versi. È la storia di sei adolescenti, tra gli 11 e i 17 anni. Un gruppo che vive le dinamiche e le emozioni proprie di questa età. Il registro di intensità è, però, più alto. Siamo dentro un ospedale. I protagonisti sono ragazzi «normalissimi» che vivono in modo pieno un presente fatto di amicizia, volontà di sopravvivere, voglia di superare se stessi, ma anche di dolore, malattia, crisi di identità. Ragazzi veri che ridono, giocano, piangono come solo i giovani sanno fare. Eroi della porta accanto, non certo tronisti o veline.

Come si spiega tanto successo e non solo tra gli adolescenti?
È un racconto semplice e speciale al tempo stesso, profondo e forte, avventuroso e carico di emozioni: come la vita. Ho cercato di realizzare un film che facesse commuovere, certo, ma che riuscisse anche a strappare dei sorrisi e delle riflessioni sui valori. Farlo senza retorica era un gioco da equilibristi. Raccontare il dolore in un film pieno di vita è sempre la sfida più rischiosa.

Nessuno dei protagonisti è attore professionista. Una scelta precisa?
Sì, una scelta voluta e difesa anche sul set. Non cercavo i ragazzi più bravi né i più belli, bensì giovani capaci di sostenere questa storia. In altri termini, dovevano essere in grado di donare al racconto verità, simpatia, profondità, autenticità. Ho incontrato alcune migliaia di adolescenti in tutta Italia e ne ho sottoposti a provini qualche centinaio. I protagonisti sono stati speciali. Ho fatto in modo di avvicinarmi a loro con grande rispetto. Mi sono messo, insomma, al loro servizio. Non per insegnare a recitare, anzi, al contrario, per insegnare loro a rimanere se stessi anche davanti alla telecamera.

Si pensa che gli adolescenti, attirati sempre più dai social network che dalla vita reale, vivano in modo superficiale. A questo incontro padovano, però, e così pure nel film, alla domanda «Cosa chiederesti a Dio?» hanno risposto in maniera molto profonda.
I teen-agers hanno un appetito insaziabile per le grandi domande. Di che cosa è fatta una vita che abbia un significato? Quale risposta possiamo ricavare dalla morte improvvisa di una persona cara? Ho potuto constatare l’intensità unica con cui i ragazzi vivono il momento in cui per la prima volta incontrano la sofferenza, quello in cui si chiedono quale sia il senso della vita, e se questo sia rea­le o meno. Ho avuto modo di conoscere, anche come padre, i giovani. Sono loro i veri protagonisti del cambiamento; gli unici, oggi, davvero capaci di scelte radicali, controcorrente, rivoluzionarie.

«Si può essere pieni di amici e sentirsi vuoti?», «Che cos’è davvero importante per me?» sono solo alcuni degli interrogativi posti dai ragazzi, dai quali emerge tutta la loro insicurezza, l’ansia per il futuro. Che adolescenti sono quelli di oggi?
Gli insicuri, purtroppo, non sono i ragazzi, ma noi adulti. Siamo la prima generazione a soffrire così tanto. L’inquietudine sociale, la crisi, le paure degli adulti per le grandi incognite dell’ambiente o dell’economia non lasciano più spazio, tempo e modi ai ragazzi per crescere con coraggio, sperimentando nuovi modelli di vita. Gli si chiede di scegliere dentro la paura. Non esplorano più. Che cosa pretendiamo, allora, se siamo i primi a farli crescere all’interno di modelli fallimentari già in partenza perché senza speranza? Modelli che non contemplano l’errore e la rinascita? Bisogna che noi per primi ci riappropriamo della volontà di essere maestri della nostra vita.

Da dove ripartire?
A differenza delle generazioni precedenti, i ragazzi non accusano gli adulti, ma cercano il confronto. Dobbiamo giocarci questo capitale di fiducia. Sono padre di quattro figli. Dobbiamo imparare a valorizzare gli errori e accettare che le scelte siano reversibili. Abbiamo l’obbligo di essere uomini e donne consapevoli di ciò che fanno e, prima ancora, madri e padri con la capacità e la voglia di esserlo. Ci troviamo di fronte a delle anime: abbiamo il grande privilegio di formarle e di portarle alla maturità. Il ruolo del genitore è un dono. Il figlio è come uno specchio in cui vedi riflesso te stesso. Migliorando il rapporto col figlio, migliori te stesso.

Il pregio della sua fiction è che non nasconde mai la realtà. Affronta tematiche importanti come la malattia e la morte. Quello che pare diverso è lo sguardo, anche rispetto al libro di Albert Espinosa.
Mi è capitato più volte di vedere adolescenti spiazzati di fronte, ad esempio, alla morte dei loro amici. Questo perché nessuno gliene aveva mai parlato. Né i genitori e nemmeno gli insegnanti. Nella nostra società chi sta male scompare, chi sta morendo diventa invisibile, come fosse una vergogna. Abbiamo paura di chiamare le cose con il loro nome. Noi, invece, abbiamo parlato della morte e del dolore come fatti che fanno parte della vita di ciascuno. Nel libro il tema della morte viene appena sfiorato. Nella serie ho voluto raccontare come essa rappresenti, invece, una forza. Per questo motivo, con Sandro (Petraglia, co-sceneggiatore, ndr) abbiamo riscritto la scena dell’ultimo respiro di Davide. Cercando di far capire che la morte non è la conclusione di tutto, ma una porta, il continuum dell’infinita retta della vita. Ho saputo, poi, da tanti pazienti, che Braccialetti Rossi ha dato una mano. C’è stato un aumento delle visite ai propri cari ricoverati in ospedale. Gli stessi giovani protagonisti della serie si sono recati a trovare i loro coetanei meno fortunati.

Nella fiction, fatta eccezione per la canzone di Emis Killa Lettera dall’Inferno, non si nomina mai Dio. È una scelta voluta? Che rapporto ha con Dio?
Non si voleva caratterizzarla troppo, anche se Dio, per la verità, è presente ovunque: nella speranza, in quel toccare il fondo e poi risalire pian piano. Credo profondamente in Dio. Prego un’ora al giorno. Quando non lo faccio, sento subito la differenza. È la cosa più bella che ci sia. Ho una vita fortunatissima, una moglie e dei figli. Ringrazio ogni giorno il Signore per questi grandi doni.

Cosa vuol dire pregare?
Significa fermarsi e ascoltare. La mia vita è cambiata una decina d’anni fa quando ho cominciato ad approfondire la vita di alcuni santi «minori», al centro poi di film e serie televisive che ho diretto: suor Bakhita per fare un esempio. Erano tutte persone normali che, nella loro vita, hanno compiuto piccoli gesti rivelatisi poi straordinari. È da quel momento che ho iniziato a meditare. La preghiera è una cosa seria. Pregare non vuol dire recitare, ma guardare dentro il proprio cuore con forza e profondità. Si può sempre imparare. Anche la Chiesa dovrebbe insistere di più sull’insegnamento della preghiera.

In Braccialetti Rossi, come in Mai più come prima, ci sono dei «tipi»: il leader, il viceleader, il bello, il furbo, l’imprescindibile. Lei a chi somiglia?
I ragazzi mi vedono come Leo, il leader. Ma forse sono a metà strada tra Vale, il vice, attento alle piccole cose e ai bisogni inespressi degli altri, e Rocco, l’imprescindibile, a cui tutti finiscono per rivolgersi.


  Biografia
Giacomo Campiotti

Giacomo Campiotti nasce a Varese nel 1957. Si laurea in pedagogia a Bologna. Lavora per anni nel teatro di piazza, in giro per l´Italia e all’estero. È assistente e aiuto regista di Mario Monicelli ne Il marchese del Grillo, Speriamo che sia femmina e I Picari. Frequenta il gruppo «Ipotesi Cinema» ideato da Ermanno Olmi a Bassano del Grappa (VI). Per Raiuno realizza i primi «corti»: Tre donne (1983), La bomba (1985) e Ritorno al cinema (1986). È del 1989 l’esordio nel lungometraggio pluripremiato Corsa di primavera.

Seguono Come due coccodrilli (1994) e 1996 Ritratti d’autore (1996). Scrive e dirige Il tempo dell’amore (1999). Nel 2002 firma la regia della mini serie tv Zivago, coproduzione internazionale. Nel 2005 torna al cinema con Mai più come prima, che ha al centro tematiche quali morte, disabilità, incomunicabilità. Seguono le miniserie tv L´amore e la guerra e Giuseppe Moscati - L’amore che guarisce (2007), Bakhita (2009) e il film tv Il sorteggio, (2010). Dirige Bianca come il latte, rossa come il sangue (2012), dall’omonimo romanzo di Alessandro D’Avenia.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017