03 Maggio 2017

La ragazza senza nome

La misteriosa morte di una donna immigrata sconvolge la vita di una giovane dottoressa. Oltre il senso di colpa, si sviluppa una solidarietà che viene prima di qualsiasi profitto, nell’ultimo film dei fratelli Dardenne.
Una scena tratta dal film
Una scena tratta dal film "La ragazza senza nome" di Jean-Pierre e Luc Dardenne.
BiM DISTRIBUZIONE

Una giovane dottoressa di nome Jenny, scrupolosa e tenace, è medico di base nei dintorni di Liegi. Un’ora dopo la chiusura dell’ambulatorio, Jenny sente suonare alla porta, ma si rifiuta di aprire. Scoprirà il giorno dopo, dalla polizia, che una donna di colore è stata trovata morta, probabilmente assassinata. Che cosa è successo? Chi era quella donna? La dottoressa apre un’indagine parallela a quella ufficiale. Verrà a conoscere la comunità africana ed entrerà in contatto con criminali e sfruttati, con pigri borghesi e infiltrati clandestini. Jenny non sopporta l’idea che una ragazza scompaia nell’indifferenza della massa e riceva una sepoltura anonima. La giovane conferma la sua alleanza con queste povere periferie, rinunciando ad avanzamenti di carriera in città.

Jenny si sente in colpa. Ma di che cosa vuol chiedere scusa? A che cosa vuol rimediare? Jenny avverte di aver sottovalutato la verità delle emozioni, in nome dei soliti, banali avvertimenti: non devi farti coinvolgere, altrimenti non avrai la freddezza per pensare! Congela i sentimenti! Non essere sciocca, infantile e irrazionale: le sofferenze dei pazienti non ti devono toccare! Poco alla volta, Jenny capisce che questa ostentazione di cinismo è illusoria e deleteria: l’altro è dentro di noi, prima che ce ne accorgiamo. Ci sentiamo in debito verso il suo sguardo e rispettiamo la lunghezza d’onda dei suoi messaggi, quando comunichiamo con lui e prendiamo una decisione assieme a lui, per il suo bene. Le emozioni non vanno soffocate, ma percepite, elaborate, portate a parola, addomesticate, tradotte in gesti di cura. 

Improvvisatasi detective, Jenny conduce un’indagine etica su di sé, su chi è e su che cosa ella veramente vuole. Scopre che il professionista non è un mero tecnico, ma un alleato di chi soffre. Impara che ogni terapeuta è ferito e che ogni malato offre aiuto e insegnamento a chi lo prende in carico. Il patto è reciproco e somiglia al patto tra registi e spettatori nei film dei Dardenne. Il loro cinema è fatto di carne e documenta nei sintomi corporei il tormento delle anime: capogiri, mal di stomaco, spasmi, cefalea, ferite infette, sanguinamenti da tamponare. La macchina da presa, posata sulle spalle dell’operatore, insegue la protagonista come uno stetoscopio, che ausculta il torace tormentato dalla tosse. Spesso gli organi infiammati protestano un imbarazzo, un disagio, un desiderio di cambiamento, che l’intelletto nasconde, rimuove, evacua.

Il cinema offre una seconda chance, redime nella visione ciò che l’azione ha perduto. Non promette di sanare le ferite, ma tenta una diagnosi sincera. Senza orpelli, senza effetti speciali. Senza musica. Lo spettatore viene risucchiato in identificazioni multiple: nella dottoressa, nei bambini, nei genitori, nelle famiglie morse dal dolore, negli agenti di polizia. Un montaggio semplicemente disarmante ci educa alla convivenza con crisi convulsive e piedi diabetici, artrosi deformanti e discopatie, con i pianti di un bambino e gli attacchi di panico di una mamma alcolista. Si va al cinema nella speranza di una cura accogliente. Si va al cinema curiosi di nuove visioni, rassicurati da una distanza di sicurezza, e si scopre che è già tempo di alzarsi e tornare alla vita, perché un campanello ha suonato.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
Lascia un commento che verrà pubblicato