La periferia (ri)prende vita

Non solo capannoni in disuso e quartieri degradati. La periferia oggi è anche il luogo delle opportunità. Proprio dalla sua energia latente bisogna ripartire per costruire il tessuto urbano e sociale del futuro.
29 Maggio 2014 | di


RIDIAMO COLORE ALLE PERIFERIE

di Luisa Santinello
 
Al posto di fatiscenti capannoni in mattone, eleganti palazzi su quattro o cinque piani tutti legno e vetrate. Non più cancellate arrugginite e strade polverose, ma sentieri in mezzo al verde, punteggiati da fontane e aiuole. Nel cuore del Trentino, alle pendici del Monte Bondone e a pochi passi dal letto del fiume Adige c’è un ex quartiere fantasma che è tornato alla vita. Si chiama «Le Albere», in onore dei pioppi (il nome botanico, populus alba, in dialetto trentino è divenuto albere) che un tempo vi crescevano, ed è forse il più significativo esempio di «rammendo» urbano che da cinquant’anni a questa parte l’Italia abbia mai visto. Non a caso porta la firma di Renzo Piano, architetto e senatore che della riqualificazione della periferia si è fatto ambasciatore nel mondo.

Un chilometro di portici, 30 mila metri quadrati di piazze e viali pedonali, 302 appartamenti a basso consumo energetico e cinque ettari di parco pubblico collegato alla pista ciclabile che in soli sette minuti porta dritto al centro storico. Il tutto incastonato tra due poli attrattivi quali il Museo della Scienza (Muse), a nord, e il nuovo Centro polifunzionale, a sud. Quello che è stato fatto nell’ex area industriale Michelin di Trento (116.300 mq di superficie) è un vero lavoro di microchirurgia urbana, nel principio del «costruire sul costruito» che, a detta di Renzo Piano, è un po’ il motto da cui bisogna ripartire per plasmare la città del futuro.

«Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili?» si è chiesto lo scorso gennaio l’architetto sull’inserto domenicale de «Il Sole 24 ore». Difficile fare previsioni. Al momento l’unico dato certo è quello che rimbalza un po’ ovunque in rete, ma anche nei giornali e sulle labbra degli esperti: «Oggi tra l’80 e il 90 per cento della popolazione metropolitana vive in periferia – conferma Alberto Magnaghi, professore emerito di Pianificazione territoriale all’Università degli studi di Firenze –. Se dall’epoca romana agli anni ’50 del secolo scorso le nostre città sono aumentate di 3/5 volte, di lì in poi la crescita ha sfiorato quota 15». Ma si è trattato di uno sviluppo selvaggio e per nulla pianificato, costruito a suon di prefabbricati e cemento armato. Nuove grandi aree industriali e residenziali sono sorte e tramontate nell’arco di qualche decennio, alcune sono cadute in preda al disuso, altre alla criminalità. Di quel boom della periferia oggi non ci restano che contenitori vuoti, o – per dirla con le parole di Claudia Battaino, autrice del libro Vacant spaces. Recycling architecture. La periferia inglobante (Mimesis) –, dei junk spaces, ambienti spazzatura ricchi di potenzialità, ma considerati brutti e indifferenti da chi li abita o li attraversa.

Non tutto il brutto, però, vien per nuocere. Del resto, insegnano gli antichi greci che la bellezza è un concetto relativo. E che non c’è bellezza esteriore senza bellezza interiore. Kalòs kai agathòs: ciò che è bello è anche buono, perché la forma non prescinde dalla sostanza. Va letta sotto questa luce l’idea di «rammendo» della periferia sostenuta da Renzo Piano: un processo partecipativo e di ascolto che rimanda a una «crescita per implosione», a un completamento e a un recupero dell’esistente. «Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d’olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche – ha aggiunto il senatore in uno dei suoi ultimi interventi –. Oggi la crescita deve essere implosiva, bisogna completare le ex aree industriali, militari o ferroviarie, c’è un sacco di spazio disponibile». Primo passo dunque: creare nelle periferie nuovi centri di aggregazione. Perché, posto che dove c’è bellezza c’è anche vita buona, la riqualificazione fisica passa inevitabilmente per quella sociale.
 
Otranto, 1979
Per quanto possa sembrare innovativa, l’idea del «rammendo» urbano in realtà ha superato da un bel pezzo la maggiore età. Era il 1979 quando Renzo Piano la mise in pratica a Otranto. All’epoca da salvare non erano tanto le periferie – ancora in fase di espansione –, quanto piuttosto i centri storici, decadenti e abbandonati a se stessi. In collaborazione con l’Unesco, l’architetto genovese ipotizzò un «restauro» non invasivo degli spazi cittadini più antichi e, proprio nel cuore della località pugliese, allestì un «Laboratorio di quartiere». Si trattava, in pratica, di un cantiere itinerante su quattro ruote, uno spazio in cui gli addetti ai lavori,  ma anche gli abitanti della zona, potevano eseguire piccoli interventi artigianali per consolidare gli edifici propri o altrui. Trentacinque anni dopo, partecipazione e sinergia sono ancora ingredienti indispensabili per riqualificare le città. Mai come oggi, in tempi di ristrettezze economiche e di tagli ai finanziamenti pubblici, risulta indispensabile orientarsi al micro cantiere e alla politica del riuso. Come precisava l’urbanista statunitense Kevin Lynch in Wasting away (libro postumo, pubblicato in Italia da Cuen), «non significa recupero di oggetti nella loro forma originaria, ma dare nuovo valore e senso a materiali residui». Un’idea che negli ultimi anni ha messo radici soprattutto nel Nord Europa. Basti pensare al quartiere di Vauban a Friburgo, in Germania, dove una vecchia caserma di periferia è stata convertita in area residenziale, con tanto di zone a traffico limitato e un centinaio di abitazioni studiate per produrre più energia di quanta ne consumino. E ancora, si guardi ai quartieri BO01 di Malmö in Svezia, all’Ørestad di Copenhagen (Danimarca) o al Plan d’Aou di Marsiglia (Francia). Tutte realtà documentate nel libro Ecoquartieri Europa. Strategie e tecniche di rigenerazione urbana (Marsilio), «rammendi» ben riusciti da cui prendere spunto per il bene delle nostre città. «In Italia gli interventi di riqualificazione urbana non sono ancora una realtà a 360 gradi – spiega Giuseppe Cappochin, presidente dell’Ordine degli architetti di Padova e della Fondazione Barbara Cappochin, che hanno organizzato nella città veneta la mostra Renzo Piano Building Workshop. Pezzo per pezzo» –. L’architetto deve progettare in sinergia con le altre professionalità, mettendo sempre al centro l’individuo». Quando impara a farlo, i risultati si vedono, eccome. Prendiamo ad esempio l’isola veneziana della Giudecca. Quindici anni fa era un dormitorio all’ombra di fabbriche e cantieri navali, una zona di confine degradata a tal punto da meritarsi l’appellativo di Bronx (in riferimento al malfamato quartiere newyorkese). Oggi la stessa isola è quasi irriconoscibile: la doppia esposizione a nord e a sud, l’abbondanza di spazi verdi e il recupero di edifici storici l’hanno resa un gioiello tra i gioielli della laguna veneta.

Dal Veneto alla Lombardia, un altro esempio di riqualificazione periferica andato a buon fine è quello dell’area Bicocca, a nord-est di Milano, distretto industriale a partire dal primo Novecento oggi riconvertito a polo universitario e culturale (vi hanno sede l’Università degli studi Milano Bicocca e il Teatro degli Arcimboldi), oltre che industriale e residenziale (l’area ospita aziende, nuove abitazioni e 300 mila metri quadri di spazi verdi). A guardarli bene, questi esempi rimandano tutti a un modello urbano policentrico: «Si tratta – chiarisce Alberto Magnaghi – di ridefinire nuovi confini territoriali, arrivando a creare una micro regione, un sistema di villaggi in rete per recuperare spazio pubblico, qualità di vita e il rapporto tra città e campagna. Non a caso in gergo tecnico si parla di “bioregione urbana”». Niente di nuovo sotto il sole: già negli anni ’40 del secolo scorso l’architetto e urbanista inglese sir Patrick Abercrombie – chiamato a ipotizzare un nuovo piano urbano per la città di Londra (allora metropoli da 10 milioni di abitanti) – parlava di città satellite (le cosiddette New towns), vere e proprie periferie inglobate che, ricche di infrastrutture, aree industriali, zone verdi e collegamenti col centro città, avrebbero contribuito a decongestionare il cuore della metropoli. «Ancora oggi il modello proposto da Abercrombie è un punto di riferimento per chi studia la pianificazione del territorio urbano – conclude Magnaghi –, specie in quelle zone del Sud e dell’Est del mondo dove (a differenza dei Paesi europei) lo sviluppo incontrollato della periferia non accenna a rallentare».
 
G124, progetto pilota
Se nella periferia sta il futuro della città, chi più dei giovani è chiamato a salvarla? Dev’essere partito da questa riflessione Renzo Piano quando, il dicembre scorso, fresco di nomina, ha deciso di devolvere il proprio stipendio di senatore a favore di un progetto pilota che – coinvolgendo sei colleghi tra i 29 e i 39 anni – ragionasse sul futuro delle periferie italiane. Scelti tra seicento candidati da tutta Italia, Eloisa Susanna, Michele Bondanelli, Roberto Giuliano Corbia, Federica Ravazzi, Francesco Lorenzi e Roberta Pastore formano il gruppo di lavoro G124 (dal numero dell’ufficio di Piano a Palazzo Giustiniani). Ad affiancarli, due architetti e un ingegnere civile (Mario Cucinella, Massimo Alvisi e Maurizio Milan): i loro tutor.

«Oltre a sensibilità e consapevolezza della condizione urbanistica italiana – spiega Maurizio Milan –, ogni componente del G124 vanta una specializzazione: c’è chi s’interessa di sostenibilità, chi pensa alle comunicazioni e chi al restauro degli edifici».

A pochi mesi dalla sua costituzione, dopo svariati sopralluoghi su e giù per la Penisola, il G124 ha individuato tre aree su cui concentrarsi: il quartiere Librino a Catania, il Viadotto dei presidenti a Roma e l’area di Basse di Stura a Torino. Se nel primo caso la «compagnia del rammendo» si è trovata davanti enormi spazi verdi incolti, piazze ed edifici abbandonati, ad accogliere i nove a Roma è stata una pista per tram lunga 1.800 metri che, nata per collegare le periferie della capitale, ora giace incompiuta come una ferita a cielo aperto. Meno grave lo stato di salute nell’ex area industriale Iveco a Torino, periferia più sana, ma ancora in cerca di un’identità: nell’arco di qualche decennio i circa 20 mila abitanti del quartiere, perlopiù immigrati, hanno messo in rete le capacità: «Chi sapeva fare l’imbianchino, chi il carpentiere o il muratore: aiutandosi a vicenda hanno attivato un processo di socializzazione e migliorato le condizioni di vita – spiega Milan –. Oggi, però, il sistema dei trasporti resta lacunoso a Basse di Stura, e il recupero del quartiere richiede ancora molto lavoro». Così, tastiera del computer, foglio e matita alla mano, i sei del G124, hanno messo in moto ingegno e senso pratico. Tra i loro compiti: analizzare lo status quo di ogni zona, individuare punti deboli e potenzialità, ripensare aree verdi ed edifici in modo non invasivo, per farli rivivere al meglio.

A fine anno il lavoro confluirà in tre progetti che verranno presentati alla Commissione ambiente del Senato. Ma l’avventura del G124 non finisce qui: l’idea di Piano è di rendere il progetto un appuntamento annuale, variando di volta in volta team e aree coinvolte. Da simbolo di degrado, la periferia si fa dunque spazio delle opportunità e trampolino di lancio per le nuove generazioni. Un luogo in cui a volte i sogni diventano realtà. «La periferia ideale è un posto dove non ci sono cittadini di serie B – spiega Roberta Pastore, 32 anni, di Salerno –. Un ambiente collegato a ogni angolo della città e che, ricco di servizi, rappresenta a sua volta un polo attrattivo per chi abita il centro storico». La sfida non è da poco. «C’è tanto da fare ancora – conclude l’architetto –. Ma forse un’attenzione sinergica portata avanti senza paletti ideologici dallo Stato, dalla Chiesa e dai cittadini potrebbe aiutare a cambiare le cose».
 
 
RESTAURARE I MURI DEL CUORE

di Laura Pisanello
 
Papa Francesco invita la Chiesa a uscire, ad andare verso le periferie geografiche ed esistenziali. Lì si scopre che fede, cultura e bellezza possono guarire le persone.
 
Mai come ora si è parlato tanto di periferie. Papa Francesco ha invitato la Chiesa a uscire da se stessa e ad andare per le strade, verso le periferie. «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano» scrive il Papa nell’Evangelii Gaudium. E ancora: «Uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo».

Francesco, il Papa venuto dalla fine del mondo, è andato, concretamente, verso le periferie: si è recato in un’isola, Lampedusa, tra i migranti, e in Brasile. Qui non a caso ha visitato la favela di Varginha a Manguinhos, una delle zone più povere di Rio, e l’immagine della sua utilitaria incagliata tra la folla festante della città ha fatto il giro del mondo.

Il Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, intervenendo sul tema «Le parole del Papa» al Salone internazionale del Libro di Torino, ha detto: «“Camminare” e “andare” sono due parole con una frequenza di ripetizioni altissima, in particolare nei discorsi delle udienze, quando il Papa fa catechesi. La vita cristiana in papa Francesco, infatti, è essenzialmente un camminare, un andare, un “moto a luogo”. Subito si trovano i verbi, che sono conseguenza logica di quei primi due, “uscire”, “seguire”. L’“andare” per papa Francesco non è solamente un percorso interiore, ma è un andare anche fisico, verso quei luoghi e quelle situazioni esistenziali dove conviene andare, uscendo da se stessi non per sforzo ma perché attirati e portati dalla grazia di Cristo. Anche perché (come ha detto papa Francesco ai bambini nella sua prima visita da Papa in una parrocchia della periferia romana) “la realtà si capisce meglio non dal centro ma dalle periferie”». Il cardinale Parolin ha proseguito: «Secondo papa Francesco, l’ingiustizia e gli squilibri sono il vaso di Pandora di tutti i conflitti. E “quando la società (locale, nazionale o mondiale) abbandona nella periferia una parte di sé (ha scritto nella Evangelii Gaudium) non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità”». Il Segretario di Stato Vaticano ha osservato che le parole del Papa prefigurano, secondo molti, il profilo di una «città affidabile»: «La città abitabile è infine una proposta politica, perché impegna “al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace”».

Già da arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio si era interessato ai processi in atto nelle grandi aree urbane, proponendo l’immagine di Gesù che passa in città operando il bene di tutti.

Raffaele Luise, vaticanista e giornalista Rai, non a caso ha intitolato il suo libro su papa Francesco Con le periferie nel cuore (San Paolo). «L’invito del Papa ad andare verso le periferie – osserva Luise – ha una portata globale: riguarda tutto l’uomo e tutte le terre degli uomini, riguarda le periferie esistenziali. Come dice il Papa, la Chiesa è “ospedale da campo” di una guerra che è la condizione contemporanea di profonda infelicità, di povertà materiali e spirituali, crescenti. Anche i non credenti possono essere per certi aspetti “periferie”. Le periferie sono i movimenti degli immigrati e questi movimenti biblici che sono espressione di un Nord e di un Sud legati da rapporti di ineguaglianza crescenti».

La Chiesa, dunque, è sempre più «ispirata» dalle periferie, i poveri possono insegnare tanto «sull’umiltà e sulla fiducia in Dio».

Padre Giulio Albanese, comboniano, giornalista, esperto di temi legati all’Africa e al Sud del mondo (sui quali tiene anche una rubrica sulla nostra rivista), aggiunge su questo tema: «Dobbiamo smettere di vivere un cristianesimo algido, ingessato, pensando che tutto si esaurisca dentro le mura delle nostre chiese o degli oratori. Il campo di missione è l’agorà, la piazza, è il mondo fino ai “crocicchi delle strade”, fino agli estremi confini. Perché essere cattolici significa affermare la globalizzazione intelligente e perspicace di Dio. Papa Francesco ci dice che dobbiamo vivere un cristianesimo decentrato, in periferia, anche perché nostro Signore Gesù, duemila anni fa, iniziò la missione in Galilea, una terra di frontiera. Gesù Cristo inizia lì. In periferia c’è la manifestazione dei poveri, quello è il locus per eccellenza dove si incontra l’umanità dolente. Nel contesto della globalizzazione il rapporto Nord-Sud non è più semplicemente geografico (la vecchia Europa ricca e industrializzata e le Afriche abbandonate). Oggi questo rapporto Nord-Sud è presente nelle nostre stesse città, nelle nostre stesse nazioni».

A padre Giulio Albanese, autore del volume Alle periferie del mondo (Emi), chiediamo, quindi, che cosa ci sia di bello nella missione. «C’è un’esperienza dello Spirito. Quando sono partito – risponde – guardavo gli ugandesi come delle persone che avevano bisogno non solo della Parola di Dio, ma dei saperi del mondo occidentale. Quando uno sbarca da quelle parti si rende conto che è di fronte a un “mondo capovolto” e la prima constatazione è che lo Spirito Santo è arrivato prima di noi, nel senso che quelli che san Giustino definiva germi della Parola sono presenti in quelle culture prima ancora che arrivi il missionario. E, alla fine, se un missionario prova a fare un bilancio della sua esperienza, si rende conto che la missione non è solo dare, ma è anche ricevere e, paradossalmente, è molto più quello che uno riceve rispetto a ciò che uno ha preteso di dare.

Nel Nord Uganda – continua Albanese – la Chiesa è comunque ancora un piccolo gregge. È una Chiesa che ha sperimentato la passione di nostro Signore Gesù Cristo, perché quella è una zona dove la gente ancora oggi fa fatica a sbarcare il lunario, dove ci sono comunità cristiane che, grazie ai missionari e ai laici del posto, vivono un cristianesimo decentrato. C’è un impegno da parte dei laici, un senso di corresponsabilità, che dimostrano che la periferia è il locus della missione, perché lì c’è una maggiore percezione di quello che è l’impegno battesimale. Dobbiamo capire che la missione, l’annuncio e la testimonianza, avvengono per strada».
 
Napoli, Rione Sanità
Don Antonio Loffredo, parroco dal 2001 nel Rione Sanità e direttore delle catacombe di Napoli, ha raccontato nel bel libro Noi del Rione Sanità (Mondadori) la scommessa di un quartiere antico (luogo di nascita di Totò), ricco di arte e di storia, ma anche di problematiche sociali. Una sfida vinta, una rinascita dell’uomo a partire dalle pietre, in una zona centralissima di Napoli, ma rimasta «tagliata fuori». «È un’area – spiega don Antonio – che è restata isolata dal 1810 a causa di un ponte, quindi è una “periferia nel centro urbano”, con microcriminalità e degrado. Ci siamo guardati attorno e abbiamo cominciato a considerare il quartiere a partire dai beni storico-artistici. Abbiamo capito subito che questo poteva servire a guarire il cuore delle persone e a creare l’occupazione materiale dei ragazzi. Attraverso la bellezza, l’arte e la cultura, la gente si sta riappropriando del suo patrimonio artistico-culturale. E i giovani stanno sperimentando come il lavoro si moltiplichi, partendo dal bene storico-artistico. In Italia si dice che questo è il nostro “petrolio” perché ha delle ricadute economiche importanti, ma, secondo me, ancora prima è il petrolio perché fa crescere le persone. Io stesso resto stupito vedendo il cambiamento dei giovani: sono cresciuti come persone, attraverso i viaggi, la conoscenza delle radici, della storia».

Il lavoro di questi anni ha fatto uscire questa periferia dal ruolo in cui era stata relegata due secoli fa, per farla diventare anche un «luogo di traino».

Continua don Loffredo: «Abbiamo cominciato un lavoro sulle persone, attraverso il doposcuola, il teatro, la musica, ed è iniziato il recupero dei beni artistici abbandonati. È nata quindi la prima cooperativa, che si chiama La Paranza, e gestisce le catacombe di Napoli. Nel primo anno le visite sono aumentate del 300 per cento e ora i numeri continuano a crescere. Siamo tra il terzo e il quarto sito più visitato nella città di Napoli». Poi sono arrivate un’altra cooperativa, che si chiama l’Officina dei Talenti, per aiutare i ragazzi a inserirsi nel mondo del lavoro e moltissime altre attività, iniziative, sogni realizzati, che hanno veramente cambiato il volto del Rione. «Noi pensiamo – conclude don Antonio – che non esistano altre armi, se non quelle della cultura e della bellezza, capaci di intaccare il cuore dell’uomo. Il nostro ruolo è quello di stimolare i giovani a percorrere certe strade, perché dobbiamo insegnare loro a essere liberi e a vivere con dignità questo pezzetto di vita che il Signore nel tempo ci fa vivere».

E «bellezza», non a caso, è un’altra delle «parole chiave» del Papa, assieme a «bontà» e «verità». Una bellezza, prima di tutto, di occhi e di cuori, da cercare nelle periferie.
 
 

MAURO MAGATTI
Luoghi da valorizzare

 
Come sono le periferie e quali sono i loro punti di forza. Lo abbiamo chiesto a un attento osservatore della società, il professor Mauro Magatti, sociologo ed economista, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nonché curatore del volume della Caritas italiana La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane (Il Mulino).

Msa. Che cosa avete trovato nelle periferie che avete preso in esame?
Magatti. Nelle periferie abbiamo trovato un’umanità certamente ferita, ma non vinta. Abbiamo trovato donne, uomini, gruppi, comunità che vedono anche calpestati i propri diritti, ma spesso portatori di una grande intensità che non si trova in situazioni di maggior benessere. Il problema non è solo una questione economica, ma è l’esclusione, l’abbandono, la distanza, la mancanza di competenze.

Come si possono valorizzare e che cosa possono insegnarci?
Le periferie non sono solo luoghi di emarginazione, anche se delinquenza e degrado fanno spesso parte di queste aree urbane. Vi abitano persone che cercano di sopravvivere in una situazione sicuramente svantaggiata e, in genere, vi è anche una qualche forma di socialità, che può essere religiosa, oppure cooperativistica (una cooperativa che stimola e mette in rete le risorse umane che ci sono). E poi c’è sempre la scuola.  L’obiettivo dell’intervento in una periferia è quello di correggere le storture. Il modello cui ispirarsi non deve essere necessariamente quello del centro. È bene capire quali sono le risorse e come valorizzarle. La periferia può e deve essere anche un luogo di sperimentazione sociale ed economica.

Quante sono le persone che ci vivono?
L’Italia e l’Europa, in generale, sono sicuramente «messe meglio» rispetto ad altri Paesi, perché noi abbiamo una tradizione storica di cittadine medio-piccole. In Italia le grandi città sono veramente poche, quindi da noi il fenomeno è più contenuto, anche se una stima quantitativa esatta non c’è.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017