La Madonna del lago e quella del colle

Testimonianza di Antonio Mancini

Invio il mio racconto perché venga pubblicato nella rubrica  «L'angolo dei lettori». Antonio Mancini, Vicenza

La Madonna del lago e quella del colle di Antonio Mancini

Il mio primo incontro con il Veneto ed i veneti, a parte la conoscenza scolastica sui testi di geografia della scuola elementare prima e della media poi, è stato intorno ai 15 anni, quando durante l’estate bighellonavo da solo o con il gruppo degli amici per le vie del paese, ma soprattutto nella zona del lungolago, con i giardini e con i ristoranti, tutti quelli che c’erano e che sono rimasti, sempre gli stessi, solo che a gestirli ora ci sono i figli o i nipoti, sempre della stessa famiglia. Guardavamo la gente seduta ai tavoli, all’aperto, a venti metri dalle rive del lago, sotto pergole o dentro improvvisati gazebo di canne, intenta a mangiare il piatto per il quale erano arrivati lì appositamente, e cioè la zuppa di pesce. Tutti e tre i ristoranti sul lago erano specializzati, caratteristici, famosi per questo: «Da Mimmo», «Da Otello», «Da Gino» non si facevano alcuna concorrenza perché tutti e tre offrivano lo stesso prodotto, con la base degli stessi ingredienti e sembrava che i turisti si dividessero equamente ed affollassero opportunamente i tre locali.

Nel parcheggio adiacente ai ristoranti, le numerose automobili attendevano pazienti che i rispettivi proprietari si fossero ben rimpinzati e potessero affermare con convinzione di causa, una volta rimessisi in viaggio, che ne era valsa proprio la pena essere arrivati fino a lì, dopo aver macinato anche centinaia di chilometri. In realtà, il mio paese non era la meta ultima dei loro viaggi e delle loro escursioni, pur conservando bellezze paesaggistiche ed architettoniche di rara bellezza, in parte esclusive, in parte condivise con gli altri paesi limitrofi, bagnati dallo stesso lago. I suoi abitanti non avevano mai voluto sviluppare quella abilità turistico-commerciale ed imprenditoriale che era presente invece in altre località, anche non molto distante dalla mia. Il mio paese non disponeva di alberghi o di altre possibilità di pernottamento, era solo una tappa intermedia, un obiettivo di passaggio, una sosta gastronomica, sulla cui eccellente qualità le voci oltrepassavano le mura cittadine, o quello che restava dell’antico recinto murario dell’antica famiglia Farnese e si diluivano nel circondario, nei quartieri di Roma, ma anche più al nord. 

Era per questo motivo che leggevo numerose targhe venete: moltissime di Treviso e di Padova, numerose di Vicenza, qualcuna di Belluno. Non avevo difficoltà a decifrarne la provenienza perché la nostra maestra delle elementari ci aveva fatto mandare a memoria tutte le province italiane, in rigoroso ordine alfabetico, regione per regione. E poi capivo subito che c’era una stretta comunanza, grazie proprio all’alfabeto, tra la mia provincia di appartenenza, VT, e quella di Vicenza, rispettivamente l’ultima e la penultima della lunga lista. Forse era l’inizio di un lungo rapporto, uno strano, a volte inspiegabile, sodalizio; una sorta di gemellaggio scritto nei capitoli insondabili della vita e della storia, sulle cui motivazioni non è sempre facile trovare il bandolo della matassa, neanche a distanza di tanti anni.

Avrei notato nel corso degli anni che si sarebbe instaurato uno stretto rapporto, soprattutto artistico, tra la mia regione di origine e quella che sarebbe diventata per me di destinazione; il cinema, ad esempio, avrebbe creato un interessante sodalizio, una sintonia, una comunanza di situazioni, di personaggi e di eventi, come se il Lazio ed il Veneto fossero due figli della stessa madre.  Si possono ricordare ad esempio film come Il commissario Pepe di Scola, Il comune senso del pudore di Sordi, Signori e signori di Germi e tanti altri, girati interamente in Veneto da cineasti laziali. Sarebbe interessante approfondire i motivi di questa scelta, solo apparentemente artistica.

Mio zio, di origini veneziane, dopo essere stato una volta dalle mie parti, ne era stato colpito dalla bellezza dei paesaggi, ma soprattutto dalla cucina. Succedeva di tanto in tanto che si mettesse in viaggio improvvisamente, costringendo qualche suo amico ad accompagnarlo. Dopo essere passati nelle rispettive abitazioni a preparare una valigetta per un viaggio di due o tre giorni ed aver salutato le rispettive consorti ed aver loro affidato la gestione delle relative famiglie ed aziende, imboccavano l’autostrada seguendo a naso la scia del profumo, già noto e sperimentato più volte in passato, della zuppa di pesce, con la materia prima appena pescata e portata ancora guizzante sulle tavole della cucina dei ristoranti. Arrivavano puntualmente giusto all’ora di pranzo e poi, nel primo pomeriggio, mio zio si presentava sulle scale di casa dei miei per fare due cose, salutarci e dirci che aveva già ordinato la zuppa di pesce da mangiare tutti insieme a cena, sempre nello stesso ristorante, quello in mezzo agli altri due. Lui andava sempre lì perché, oltre al piatto a base di pesce, metteva a disposizione dei clienti un nettare degli dei sotto forma di vino chiamato cannaiola.

Di lì a qualche anno avrei raggiunto mio zio e la sua famiglia, o meglio, mi sarei avvicinato a loro, quando ebbi l’idei di fare lo studente universitario a Padova. Arrivai all’alba di un autunno del 1968 e mi accorsi di essere arrivato in quella città perché i ferrovieri ne gridavano il nome andando avanti e indietro sui marciapiedi. Le tabelle e le insegne della stazione non mi furono di grande aiuto, perché erano semi sommerse dalla coltre di nebbia che ovattava il risveglio degli abitanti di quella città e lasciava incerti e diffidenti quelli come me che la vita non aveva assuefatto a quel genere di spettacolo. Da noi nebbia se ne era vista e se ne vedeva gran poca, forse quasi nulla, forse mai. In compenso, di tanto in tanto tirava ululando il vento di tramontana che faceva diventare il lago brutto a vedersi perché le onde diventavano di color grigio sporco, come se la immane forza dell’acqua avesse rastrellato il fondale di 150 metri sotto e ne avesse riportato in superficie tutta la terra e tutto chissà cosa vi si trovasse. 

Era la volta che grandi spruzzi di acqua arrivavano fino a lambire il monumento ai Caduti, al centro della piazza principale del paese, con il soldato messo di traverso sul piedistallo, con un braccio levato con energia e decisione, con l’indice della mano sinistra puntato verso l’imboccatura del porto come per avvertire il possibile arrivo di un invincibile nemico. Era allora che i pescatori si affrettavano ad ancorare le loro imbarcazioni legando la prua con robuste corde ai tronchi di stagionati platani piantati a pochi metri dalla riva. Ogni pianta conteneva l’appiglio di tre o quattro imbarcazioni che si vedevano ballare seguendo il ritmo degli incontenibili cavalloni.

Di nebbia ne avrei vista spesso, soprattutto nelle zone del basso vicentino, dove sarei andato a lavorare per alcuni anni. Capitava che alcune sere gli abitanti di quei luoghi uscissero dalle osterie o dall’ultimo spettacolo del cinema parrocchiale e si mettessero a cercare a tentoni l’automobile parcheggiata qualche ora prima quando la visibilità era ancora buona e verso mezzanotte invece il paese sembrava immerso in un immenso calderone di zucchero filato, appiccicoso e fumante. Si sentivano voci ora lontane ora vicine, qualcuno aveva individuato l’automobile dell’amico e sperava che l’amico potesse fare la stessa cosa.

Per alcuni anni presi poi residenza nella parte settentrionale della provincia vicentina. Qui venni a conoscenza di un'altra caratteristica locale, e cioè la grande attenzione, il culto, la devozione della popolazione nei confronti della loro Madonna di Monte Berico. Mi sembrava che la gente della parte alta della provincia dimostrasse più interesse nei confronti del santuario della città e del culto che vi ruotava intorno, piuttosto che quella della zona meridionale, più vicina alle terre padovane; non era ancora la mia Madonna; non intendevo ancora tradire quella che per molti anni aveva accompagnato la mia infanzia e la mia adolescenza, fino al momento della partenza, del mio distacco dalle origini: la Madonna del Monte, anch’essa oggetto di una secolare, immodificabile ed immodificata tradizione devozionale da parte dei miei compaesani del lago di Bolsena. 

Due feste diverse, due modi differenti di estrinsecare la medesima devozione nei confronti di chi si credeva da lunga data una grande benefattrice e dispensatrice di miracoli o di eventi miracolosi: la fine di una micidiale epidemia di peste che aveva falcidiato le antiche popolazioni vicentine aveva determinato nei superstiti il sentimento di gratitudine e di glorificazione che si era concretizzato nella costruzione della Basilica, da sempre meta di preghiera e di ringraziamento della comunità berica. Anche io, motivato ed incuriosito dai racconti che ascoltavo da amici e colleghi, mi decisi a partecipare a questa grande festa. Ascoltavo di fedeli che si incamminavano dai paesi della provincia, di notte per beneficiare dell’aria fresca  e per evitare la calura della tarda estate; percorrevano a piedi decine e decine di chilometri, tra preghiere e canti devozionali, facendo colazione con il pane portato da casa appena in vista della città; dopo la messa bisognava fare un secondo pellegrinaggio al bar del piazzale, di fronte al santuario, per la tazza di cioccolata, mentre i ragazzi reclamavano qualche manciata di lire per acquistare le loro leccornie dai bombonari.

Io mi trovavo in mezzo a questa grande, immensa festa; avevo il vantaggio di essere solo e, dunque, di avere tutto il mio tempo per guardare, osservare, riflettere, sorridere, comprendere, condividere e ricordare. Mi veniva in mente che, in realtà, al mio paese sul lago venivano ricordate due Madonne, o meglio, esistevano due santuari diversi dedicati alla devozione di Maria: quello che riscuoteva l’attenzione maggiore, che stava nel cuore di tutta la popolazione, anche in quelle persone che non frequentano molto l’ambiente della chiesa, era il santuario della Madonna del Monte, così chiamato perché si trova in cima a un piccolo colle; la vista che si offre allo sguardo è quanto mai suggestiva: la bellezza paesaggistica si accompagna splendidamente all’atmosfera di tenue e velato misticismo, di acquisita serenità, quasi un senso di sicurezza che proviene dall’angusto locale della piccola chiesa retrostante.

L’altro luogo di devozione si trova da tutt’altra parte; sempre decentrato rispetto al nucleo cittadino e sulla provinciale che porta al paese limitrofo di Capodimonte. Questo santuario prende il nome di Madonna del Castagno; la sua onomastica dovrebbe avere una facile spiegazione, se non fosse che al momento di castagni non ce ne sono più; forse ce n’erano anticamente, quando venne eretta quella costruzione. Anche questo santuario, come quello precedente, è di antiche origini, forse del X-XI secolo. All’interno ci sono degli affreschi ormai andati quasi del tutto in rovina; è un luogo non molto frequentato; molti anni fa, era meta soprattutto delle persone più anziane, le quali approfittavano del momento di devozione e della preghiera o della possibilità di portare un mazzo di fiori di fronte all’immagine di Maria per fare anche una salutare passeggiata, sperando che la Vergine guardasse con occhio più benevolo e più riconoscente i loro reumatismi e i loro acciacchi. Il flusso di traffico sempre più massiccio e invadente ha reso sempre più pericolose queste passeggiate fuori porta, non solo per le persone più anziane, ma per tutti, ed ecco perché la Madonna del Castagno è stata lasciata sempre più sola, per non dire abbandonata del tutto. Ricordo che io feci un pellegrinaggio in quella chiesetta il giorno della Cresima, con tutti i miei compagni di quel sacramento e con tutti i nostri familiari.

Dietro la chiesetta si trovava una pineta di media grandezza e si scendeva per un sentiero tortuoso, ma non per noi ragazzi, fino al lago sottostante. C’era infatti una piccola insenatura che pochi conoscevano e solo chi ne sapeva l’esistenza veniva a fare il bagno o a prendere il sole in quel piccolo paradiso, silenzioso, ovattato. Dopo alcuni anni, ritornai da quelle parti, perché mio padre lavorava dentro una villa degli stessi proprietari di quella pineta (e forse anche del santuario vicino). Io andavo a trovare mio padre, ma poi restavo poco con lui, perché mi inoltravo nel bosco e poi giù per il sentiero, fino alla spiaggia e al lago. Spiaggia in quel momento completamente deserta, forse perché l’estate era finita o forse perché doveva ancora incominciare, questo non lo ricordo.

A sinistra vedevo il promontorio di Capodimonte e di fronte l’isola Bisentina che, da quella posizione, sembrava a portata di mano, mentre sua sorella, la Martana, era lontana ad oriente, riottosa e selvaggia. All’interno della Basilica di Monte Berico, dove la voce dell’officiante giungeva a malapena, attenuata, quasi sommersa dalla moltitudine dei fedeli che si alternavano di fronte ai numerosi altari, quella immensa devozione, abitudinaria, rituale, non poteva che suscitare in me ricordi vissuti a lungo e da molti anni disertati incolpevolmente. Cosa potevo ricordare se non una grande festa, analoga nella partecipazione corale, analoga nella devozione, analoga nella attesa popolare? Ogni 14 maggio il paese di Marta vive da secoli questa ricorrenza che costituisce anche un momento, lungo una giornata, dalle prime luci dell’alba fino al tramonto, di sottile, impercettibile, apparentemente immotivata, divisione sociale e familiare. È una festa che assume un tono quasi privato, interno; non è rivolta ai turisti, ai forestieri, tanto è vero che ricade sempre lo stesso giorno; non viene mai spostata alla domenica precedente o successiva per trasformarla in occasione turistica e, dunque, occasione di guadagno per le categorie commerciali.

È una festa degli abitanti, ma solo degli uomini; ed è questo un elemento di divisione, di cui parlavo poco sopra. Le donne vi partecipano indirettamente; sono presenti attivamente durante la preparazione, l’impasto e la cottura delle grandi ciambelle di pasta dura condita con i semi di anice, le quali poi vengono portate a spalla, infilate su lunghi bastoni, per essere poi date in omaggio ad ogni partecipante della «Passata». Ed ecco un secondo motivo di sottile divisione: il nome stesso della festa. Viene chiamata da alcuni «Le passate» e da altri «Barabbata». La prima denominazione è vicina all’ambiente della chiesa, in quanto si riferisce alla sfilata che tutti i partecipanti fanno all’interno del santuario della Madonna del Monte, passando di fronte all’immagine di Maria, gridando e glorificando il suo nome. Il secondo nome della festa ricorda la sua origine decisamente pagana, legata alla tradizione popolare, infarcita di riti orgiastici e sensibile ai divertimenti dei baccanali. Tutto questo prima che l’intervento della Chiesa, intervento deciso e determinante, desse una svolta autorevole alla manifestazione, allontanandola sempre più dalla tradizione secolare e portandola via via sui binari dei fondamenti ecclesiastici.   Le donne, apparentemente relegate a un ruolo marginale, animano invece la grande sagra quando, affacciate alle finestre e ai balconi, lanciano manciate di petali di ginestra (il maggio) sul corteo dei loro uomini in sfilata; attendono il passaggio dei loro mariti, fratelli, figli o «morosi» per coprirli di fiori. È l’occasione per qualche ragazza di manifestarsi al suo innamorato in modo esplicito con una pioggia di petali ed è anche l’occasione di tutti i bambini di vivere la loro iniziazione alla società degli adulti, perché ogni padre mostra con orgoglio i propri figli, sempre rigorosamente maschi, che lo accompagnano nei loro piccoli vestiti tradizionali di parata, con una consapevolezza adulta del loro ruolo. Sono tutti i lavoratori del paese che portano i frutti del proprio lavoro in offerta alla Madonna, sul colle, al suo santuario, per ringraziarla e per invocarne ancora protezione e benevolenza. I pescatori portano a spalla o trainano a forza di braccia le loro barche ricche di reti e di pesci; i contadini spingono carri pieni dei frutti della terra; i butteri maremmani gridano sui loro cavalli il nome di Maria, levando in alto i loro cappelli di paglia ed incitando il corteo a fare altrettanto; i mietitori portano mazzi di spighe e, arrivati sul sagrato del santuario, le battono con il correato.

All’interno del suo santuario, Maria osserva silenziosa; al suo fianco c’è un fusto di cannone che ha sparato in guerra; sulla parete ci sono molte foto, quasi tutte sbiadite; sono uomini che hanno gridato, invocato il Suo nome prima di essere salvati dalla morte o prima di essere colpiti a morte. Non è facile distinguere, ma tutti hanno la stessa cosa che li accomuna. Dopo la grande messa, il corteo torna in paese, la festa giunge al termine; le coppie si riuniscono, i bambini si sentono più importanti, qualche ragazzo conserva i petali per donarli alla sua innamorata, qualche altro cerca di indovinare da quale finestra siano venuti giù i fiori che gli hanno coperto il capo e le spalle. La Madonna del Monte rimane sola; lei ci è abituata; ma continua a sorvegliare e custodire i miei paesani, dalla cima del colle. Io l’ho denominata la Madonna del Lago, ma in realtà vive sui colli, come quella di Monte Berico. Tutte e due non si stancano mai di vigilare, notte e giorno, che tutto vada bene.

Data di aggiornamento: 29 Maggio 2018