01 Gennaio 2018

La (benedetta) solitudine del foglio bianco

Il foglio bianco va riempito, come l'anno nuovo. E se non ci sentiamo all’altezza della situazione, ricordiamo che è proprio attraverso le fessure delle nostre debolezze che passa la luce.
vignetta fessura di luce nel muro

©JeSuisLautre

Per me è la stessa sensazione ogni volta che ci risiamo, a ogni cambio di calendario. Ma per quel che ne posso sapere, mi sa che è la stessa storia tutte le volte che ci troviamo davanti a qualcosa di nuovo nella nostra vita, bello o spiacevole che sia.

È come essere seduti davanti a un tavolo, da dove, unico oggetto che vi è adagiato, ci guarda un foglio. E il «bastardo» sa che siamo in difficoltà, e ne gode sadicamente. Perché è un foglio bianco, un posto da dove tutte le parole scritte se ne sono andate via. Lasciandoci inesorabilmente e senza alcuna pietà soli, senza che il nostro sguardo possa trovare un appiglio, uno qualsiasi. Senza che il nostro sacrosanto bisogno di sicurezze, anzi, di certezze possa distendersi dentro una frase, nel conforto di una parola che ci faccia dire: ecco, da qui si può, questo è il nostro sentiero oltre la linea d’ombra, partiamo. Perché tutto non è già ben scritto? Perché quando veniamo al mondo non ci forniscono anche le istruzioni per l’uso? Perché ogni volta ci fanno partecipare a una caccia al tesoro, con troppi indizi scritti in maniera astrusa e mappe indecifrabili? Perché chi sa te lo dice solo alla fine, o al massimo centellinando le informazioni?

Poi le parole, davanti ai nostri occhi, cominciano ad affiorare dal bianco e come rami in impercettibile crescita, vanno a occupare tutta la pagina. Parole che non rendono ragione dell’attesa ottimistica in un «anno migliore». Perché condannate a ripetere, in un ossessivo «copia e incolla», quelle dell’anno appena andato: paura, terrorismo, difficoltà economiche, morti innocenti, guerre, disastri ambientali, violenze, disuguaglianze sociali, brutte malattie, scandali, infedeltà. Ma anche solo l’inesorabile trascorrere degli anni, pure di quelli segnati nella propria carta d’identità.

Ce n’è anche di troppo per sporcare la nostra pagina! Come far sì, anche sgomitando quanto serve, che tra queste ci stiano anche «altre» parole?

Ma se sono parole deboli, fragili, indifese, tanto quanto insolite, non famose né ambite o ricercate, non è questa una partita persa in partenza? A chi volete che interessino perdono, misericordia, solidarietà, gratuità, dono di sé, povertà, uguaglianza, silenzio, preghiera, autenticità? Parole in cerca d’autore, non divino, che questo sappiamo chi è, ma del partner umano. Di ciascuno di noi. Perché il bene, che non è una cosa astratta che non si sa neanche dove stia, ma è quello che giorno per giorno ognuno di noi potrebbe cercare di fare, sembra predestinato alla sconfitta?

Oh, l’insostenibile strazio per la debolezza del bene, che pare non vincere mai! Perché è affidato proprio a noi? A noi che siamo impacciati peggio di bambini in fatto di valori, più o meno fermi all’età della pietra quanto a emozioni, e camminiamo in carenza di speranza, che è invece l’ossigeno dei cristiani? Il buon Dio, che so?, non poteva scegliersi il cardellino del Turkmenistan o la capra di montagna del Tibet, o almeno qualcuno di migliore tra noi poveri umani? E invece ha scelto proprio la creatura più scalcinata che esista in natura. Dove sta l’imbroglio?

Il bene è una parola piccola piccola, nemmeno calcata sulla pagina. Ma era la parola preferita da Gesù, e che aveva in­gaggiati pure san Francesco e sant’Antonio. Così piccola, lo noto solo adesso, da starci in qualsiasi pagina pur già ingombra di ben altre parolone. E proprio perché piccola e fragile – «un tesoro in vasi di creta» direbbe san Paolo (2Cor 4,7) –, posso paradossalmente farmene carico anche in questo nuovo anno appena iniziato: «Dimentica la tua offerta perfetta / in ogni cosa c’è una fessura / è così che passa la luce» (Leonard Cohen, Anthem). Che il buon Dio ci accompagni!

Data di aggiornamento: 01 Gennaio 2018
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