Il meraviglioso viaggio di Odorico da Pordenone

Giusto sette secoli fa, il beato friulano partiva da Venezia destinazione Cina. A distanza di 700 anni, rimane intatto il fascino della relazione di viaggio che egli offrì all’Occidente, e che in controluce parla anche della sua santità.
23 Agosto 2018 | di

Padova, mese di maggio, anno 1330. All’ombra delle cupole della Basilica del Santo, ormai molto simile a quella che ancor oggi ammiriamo, frate Odorico da Pordenone detta le sue memorie al confratello scrivano fra Guglielmo da Solagna. Lo fa non di sua iniziativa, ché anzi, malato e restio a parlare di sé, ne avrebbe probabilmente fatto volentieri a meno, bensì per obbedienza, per l’insistenza di fra Guidotto. Costui, ministro provinciale, «comandò e ordinò in maniera importuna» (riportano le cronache) di impegnarsi in tal senso, vincendo infine la ritrosia dell’affaticato missionario.

È la genesi di un vero e proprio best seller (che influenzerà, tra gli altri, un certo Cristoforo Colombo...), molto ripreso e trasmesso in svariate varianti già nel titolo: Historia, Tractatus, Liber, Dispositio, Opera, Itinerarium, per assestarsi infine nel nome di Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, ovvero Racconto delle cose meravigliose dei Tartari d’oriente, come si legge sulla copertina della nuova traduzione italiana (Emp 2018). Sembra un titolo alla Emilio Salgari, ma, a differenza dell’autore veronese, che viaggiò solo con la fantasia, fra Odorico in Oriente ci andò davvero, affrontando uno straordinario viaggio missionario che da Venezia lo avrebbe portato in Cina, raggiunta via terra (fino al Golfo Persico) e quindi via nave con scali in India, Ceylon, Giava, Borneo (fu il primo sacerdote a celebrarvi Messa!), Filippine, per approdare a Canton e infine, toccando Nanchino e Yangzhou, alla capitale Khanbaliq, l’odierna Pechino.

Dopo tre anni di permanenza nella città del Gran Khan, il ritorno in Europa lungo la via della seta, a Nord, attraversando Tibet, Afghanistan e Persia. L’approdo a Venezia è datato tra la fine del 1329 e gli inizi dell’anno seguente, proprio quello in cui troviamo il frate friulano a Padova. La partenza era avvenuta, invece, nel 1318, esattamente sette secoli fa, ricorrenza che rende l’anno in corso propizio per la grande mobilitazione di energie e iniziative che sta riportando alla ribalta la vicenda del frate missionario. Odorico700 – questa la denominazione del progetto per l’anniversario – ha visto in prima linea la «sua» Pordenone e Udine (dove il francescano morì e fu sepolto, nel 1331) e, in subordine, Padova (dove dettò la Relatio), Portogruaro (ultima tappa prima della partenza per la Cina), Praga e Vienna (secondo la tradizione Odorico sarebbe figlio di un soldato della guarnigione boema stanziata a Villanova, nei pressi di Pordenone).

Iniziative accademiche, culturali, divulgative – con mostre convegni conferenze e nuove proposte editoriali –, l’appassionato percorso realizzato in alcune scuole del pordenonese, appuntamenti religiosi: molte sono state le strade battute per rendere speciale il centenario, che raggiungerà il culmine in ottobre, in particolare con la due giorni alla Basilica del Santo, il 20 e 21.

La scelta di ottobre, mese missionario, non è casuale: Odorico non è Marco Paolo, che fu nel Catai trent’anni prima; non è, cioè, un mercante, ma un frate evangelizzatore che attraversò l’Asia con il desiderio di annunciare il Vangelo. Il viaggio in effetti durò oltre un decennio anche per le molte soste «pastorali» compiute da fra Odorico e dal compagno di cammino, fra Giacomo d’Irlanda. In particolare, il nostro si sarebbe fermato per 5 anni in Armenia, Mesopotamia e Persia, oltre ai 3 anni dedicati alla Cina. Anche il rientro in Italia è motivato da esigenze pastorali – richiedere al Papa l’invio di nuovi missionari –, ché altrimenti Odorico non avrebbe lasciato la terra di missione. A inviarlo fu l’arcivescovo di Khanbaliq, fra Giovanni da Montecorvino; il frate friulano non fu, infatti, il primo né l’unico francescano a predicare in India e in Cina, almeno finché la pace mongola rese possibile affrontare il viaggio.

Con l’obiettivo di invogliare alla partenza, la Relatio non si sofferma troppo sulle difficoltà incontrate, preferendo presentare i nodi pastorali più urgenti che un evangelizzatore avrebbe dovuto affrontare, e la generale positività dell’orizzonte missionario. Così, ad esempio, del Gran Khan il frate friulano «sottolinea il rispetto della religione cristiana, l’affetto per i frati minori e il fatto che tra i suoi medici avesse anche dei cristiani: tutto ciò doveva togliere quella “paura dell’ignoto” che impediva le partenze a missionari che non fossero dotati di notevole spirito d’avventura», come nota Giancarlo Stival in Frate Odorico del Friuli (Emp 2012).

La sua fu una splendida, entusiasmante avventura.

 

L’articolo completo, con l’intervista a fra Giorgio Laggioni, vicario della Basilica del Santo e vice postulatore della causa di canonizzazione del frate friulano, è leggibile sul numero di luglio-agosto 2018 del Messaggero di sant’Antonio e nella corrispettiva versione digitale.

Data di aggiornamento: 23 Agosto 2018
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