Il dominio dell’odio

Nel dibattito politico, più ci s’insulta, più si denigra l’avversario, minore appare la forza delle idee e degli ideali.
29 Giugno 2016 | di

L’assassinio della deputata laburista Jo Cox da parte di un uomo legato a gruppi di estrema destra, durante la campagna elettorale sulla Brexit, ha indotto molti opinionisti a rilevare la presenza dell’odio in politica. In verità segnali di questa presenza c’erano già da molto tempo. E non solo nel mondo – la campagna elettorale americana è influenzata dai messaggi di odio di Donald Trump – ma anche nel dibattito politico elettorale del nostro Paese, dominato spesso dalla violenza verbale, dall’uso senza scrupolo di tutti i mezzi per denigrare l’avversario, con attacchi personali anche bugiardi e ingiustificati.

So bene che c’è una differenza enorme tra un crudele assassinio, come quello della deputata laburista, e gli insulti elettorali. Ma anche a questi bisogna fare attenzione. L’odio omicida attecchisce con più facilità in una cultura che li favorisce, che li considera normali nella contrapposizione d’idee. Non è così. Il contrasto delle opinioni dell’avversario anche nelle sue forme più radicali non ha niente a che fare con l’attacco nei confronti della persona. La contrapposizione d’idee nella storia c’è sempre stata e ha avuto, talvolta, conseguenze drammatiche per le sorti d’interi popoli, ma si tratta di vicende che meritano un altro tipo di riflessione.

Il fenomeno cui ci riferiamo non riguarda il rapporto tra le idee o le opinioni, ma quello tra i singoli individui che, in nome della politica, insultano e sono insultati, denigrano e sono denigrati, offendono e sono offesi. Questo modo di agire, in Italia, ha avuto origine negli anni Novanta quando, con l’esaurirsi della prima Repubblica in seguito a Tangentopoli, venne meno la «sacralità» dell’agire politico.

Prima la politica era una sorta di tempio in cui le parole, i gesti, le propensioni personali si misuravano e si controllavano e l’asprezza e la polemica erano rivolte alle opinioni non alle persone. Il dibattito tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista ha avuto vette di conflittualità, ma non è mai degenerato in insulti. Giovanni Guareschi nel suo Don Camillo e l’onorevole Peppone racconta di contese – asperrime – ma che non escludevano un rapporto personale di stima e persino affettuoso.

Dobbiamo domandarci se è possibile restituire alla politica una sua laica sacralità, intendendola come il luogo in cui gli uomini danno la parte migliore di sé, anche se non sono gli uomini migliori. Oppure se non può che essere il luogo della selvaggia contrapposizione di uomini (e di qualche donna) che, per ottenere quello che vogliono, usano tutti i mezzi a loro disposizione. E che non esitano a spostare nella sfera pubblica interessi, mancanze, aggressività e rancori. Lo abbiamo visto in queste settimane. Insieme con un crollo delle idee e della proposizione di contenuti necessari per cambiare.

Perché più ci s’insulta, più si denigra l’avversario, minore appare la forza delle idee e degli ideali. Ed è questa la conseguenza peggiore del dominio dell’odio nella sfera pubblica.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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