Filippine, la via di Duterte

La guerra del presidente-sceriffo Duterte contro il narcotraffico sta causando decine di vittime innocenti. In continua violazione dei diritti umani.
27 Febbraio 2018 | di

L’ultima volta Ephraim Escudero è stato visto vivo il 19 settembre del 2017. Al calare del sole, una telecamera di sicurezza lo ha inquadrato a bordo della sua motocicletta in una strada di San Pedro, appena fuori dall’area metropolitana di Manila.

Con lui, sul veicolo, c’erano altri due uomini: stando al racconto di un testimone, il ragazzo ha dato loro un passaggio uscendo dal lavoro. Il primo è stato in seguito identificato come Ronnie Pionilla, un 51enne che aveva appena finito di scontare una condanna per possesso illegale d’arma da fuoco. Dell’altro, tuttora irrintracciabile, si ignora l’identità.

Escudero, 19 anni, padre di due bambini, per un breve periodo ha fatto uso di quella che nel Sud-est asiatico viene chiamata shabu, una sostanza a base di cristalli di metamfetamina: è stato il dilagare di questa droga, e del conseguente aumento della criminalità, a fare da rampa di lancio per il presidente-sceriffo Rodrigo Duterte che, in un Paese sfiancato da corruzione, criminalità di strada e narcotraffico, ha promesso ai suoi elettori misure drastiche.

Ephraim Escudero è, con ogni probabilità, una delle decine di vittime collaterali della guerra alla droga che il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte ha lanciato nel luglio del 2016. Le ricerche dei suoi famigliari sono terminate il 24 settembre scorso, in un’agenzia di pompe funebri in cui il cadavere del ragazzo è stato deposto in attesa di riconoscimento.

È stato rinvenuto dalla polizia tre giorni prima: il corpo riverso in un’aiuola nella zona di Pampanga, una cittadina a oltre 100 chilometri dal quartiere in cui Ephraim viveva e lavorava: la faccia, i polsi e le caviglie immobilizzati con del nastro isolante.

È stato freddato con tre colpi alla testa. Nelle stesse ore, a qualche chilometro di distanza, è stato rinvenuto anche il cadavere brutalmente torturato di Ronnie Pionilla: i denti strappati con una pinza, la gola tagliata, lo stomaco e il volto trafitti da decine di frammenti di vetro; nel cranio, il foro di un proiettile di grosso calibro. Secondo gli Escudero, proprio Pionilla sarebbe stato il vero obiettivo dei killer.

Nel luglio del 2016, appena insediato, Duterte ha ordinato la compilazione di una lista «prendendo i nomi da un database che l’Agenzia per la lotta alla droga aveva redatto qualche tempo prima», spiega Dionardo Carlos, commissario capo e portavoce della polizia di Manila.

«A ognuna di quelle persone, circa un milione e 800 mila – precisa Carlos – abbiamo posto una scelta: consegnarsi alle autorità per intraprendere un percorso di riabilitazione o prepararsi a essere arrestata. L’obiettivo era raggiungerne almeno il 70 per cento in un periodo compreso tra i sei e i dodici mesi, perché in campagna elettorale il presidente aveva promesso di risolvere il problema in quell’arco di tempo».

Poco più di un anno dopo, secondo Gwendolyn Gana, portavoce della Commissione dei diritti umani, la guerra ai narcotici di Duterte ha disseminato di cadaveri l’intero arcipelago delle Filippine. Nel settembre 2017 gli omicidi extragiudiziali connessi alla campagna sono già più di 13 mila. 

Nell’agosto del 2017, l’uccisione di Kian delos Santos, un ragazzo di appena 17 anni, ha sollevato uno scandalo a livello internazionale. Delos Santos è stato freddato durante un raid antidroga in una baraccopoli di Caloocan, alla periferia settentrionale di Manila.

La polizia ha dichiarato di averlo ucciso per autodifesa, ma qualche giorno dopo i filmati delle telecamere di sicurezza hanno evidenziato una verità del tutto diversa: il ragazzo, disarmato, è stato ammanettato in mezzo alla strada: non ha opposto resistenza.

Gli agenti lo hanno trascinato in un vicolo. Lo hanno ammazzato a sangue freddo. «Circa il 40 per cento dei casi che stiamo indagando – spiega Gwendolyn Gana – riguardano situazioni di questo tipo. Spesso sono degli innocenti a essere uccisi».

Sull’identità dei killer, che qui chiamano vigilantes, molte ipotesi, ma nessuna certezza: la polizia è convinta che si tratti di gangster che approfittano del caos per regolare vecchi conti. Altri – come Sherbien Dacalanio, un giovane fotoreporter che ha documentato decine di omicidi nelle strade di Manila – credono che il fenomeno sia da imputare all’iniziativa di cittadini che in qualche modo vengono in possesso della lista di Duterte e obbediscono alle sue indicazioni.

«La riabilitazione, signori, non è più una valida opzione – ha affermato il presidente appena insediato –. Un anno di utilizzo di shabu è sufficiente a restringere la massa cerebrale di una persona in modo permanente e irreversibile. Chiunque veda uno di questi tossici nel suo quartiere si senta libero di occuparsene personalmente, se ha una pistola».

Con questa dichiarazione pubblica, nelle Filippine ha avuto inizio la mattanza. Sono centinaia le vittime collaterali, morte per essersi trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Come Francisco Manosca, un bambino di appena 5 anni, trucidato nel dicembre del 2016 assieme al padre Domingo, tassista ed ex tossicodipendente finito sulla lista.

Secondo alcune testimonianze, la polizia li ha uccisi prima ancora di fare irruzione, sparando alla cieca attraverso le lamiere della loro baracca.

L’articolo completo è disponibile nel numero di febbraio 2018 della rivista e nella versione digitale.

Data di aggiornamento: 27 Febbraio 2018
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