17 Agosto 2018

Emily Dickinson: quando la poesia illumina lo schermo

Una vita di gioie e dolori, affetti e contrasti sempre nel segno della poesia. È la storia di Emily Dickinson (1830-1886) raccontata da Terence Davies nel film «A quiet passion» (Gran Bretagna, Belgio, Usa 2016).
Una scena tratta da «A quiet passion» (Gran Bretagna, Belgio 2016), di Terence Davies.
L'attrice Emma Bell interpreta la giovane Emily Dickinson in una scena di «A quiet passion».
SATINE FILM

Emily Elizabeth Dickinson nasce il 10 dicembre 1830 ad Amherst, Massachusetts. Una settimana dopo la sua morte, avvenuta il 15 maggio 1886, Lavinia, detta Vinnie, la sorella minore, trova i manoscritti delle poesie, un tesoro folgorante custodito nello scrittoio di Emily e in un cassetto di ciliegio (si veda la «Cronologia» redatta da Marisa Bulgheroni per «I Meridiani» Mondadori, 1997). Una marea di carte, a partire dalle quali nascerà la prima edizione nel 1890, un raffinato volume bianco che conterrà centoquindici poesie. La potenza visionaria, che alcune frammentarie pubblicazioni avevano annunciato (pur rimaneggiate arbitrariamente dal preoccupato editore), esplode ora per il grande pubblico. Le immagini ricorrenti nei suoi versi (l’abito candido, l’ape, il mare, la rosa, il vulcano, la margherita) parlano di gioie e pene, di rivelazioni e disincanti, che i versi contengono a stento. La passione per la poesia, una passione tutt’altro che quieta (con buona pace del titolo del film), accende i sensi di una donna curiosa e arguta, la colloca a distanza dalle ovvietà e le imporrà (da un certo momento in poi) un regime claustrale, quale monaca ribelle, volontariamente isolata nella casa paterna, nella sua stanza al secondo piano, perennemente vestita di bianco. «Non oltrepasso mai i confini del giardino di mio padre, per andare in altre case o altre città».

Difficile fare un film sulla poesia, su questa poesia che espande la vita interiore al punto che nomi e parole fluttuano tra la realtà, l’invenzione e il sogno a occhi aperti, poiché l’arte ha rotto i confini percettivi e acuito lo sguardo sull’assoluto. Di lei riferiranno queste affermazioni: «Se leggo un libro e mi sento gelare in tutto il corpo così che nessun fuoco mi può scaldare, allora so che quella è poesia. Se provo la sensazione che mi scoperchino la testa, allora so che quella è poesia». Il regista Terence Davies ricostruisce l’amatissimo ambiente familiare, l’intenso rapporto col padre (avvocato e uomo politico), gli studi intensi, il senso inflessibile di dignità femminile e libertà intellettuale. Virtù queste che suonavano provocatorie nel clima puritano e borghese del New England in età vittoriana. Quando nel collegio di Mount Holyoke la direttrice chiede alle alunne di professarsi cristiane, levandosi in piedi, Emily è l’unica a restare seduta (nel film lei sta ferma, non si dispone né nel gruppo di destra né in quello di sinistra, per i troppi dubbi sul proprio futuro). La trama della pellicola è ovviamente scarna di avventure esteriori e invece densa di relazioni personali. La macchina da presa si concentra sulla delicata bellezza degli spazi domestici, degli oggetti personali (Emily cuce da sé i fascicoletti delle sue liriche), del giardino circostante, della mutevole luce della vicina foresta. Le amicizie, gli incontri, i lutti, i trasporti sentimentali, le vibrate invettive contro chi tradisce le promesse, sono rappresentati in forme inevitabilmente sintetiche, accennate, allusive. Il cinema sembra confessare il proprio debito verso l’invisibile fonte da cui germina una fotografia (di Florian Hoffmeister) sobria, minuziosa, ossessionata dai dettagli.

In una doppia dissolvenza il volto della protagonista si fa adulto (nelle sembianze delle due attrici) e poi diventa quello della vera Emily, nell’unico ritratto del 1847, che tutti conosciamo dalle biografie. Lo spettatore percepisce che il genere biografico (biopic, in gergo) avrebbe qui bisogno di altro: contaminazioni con la pittura e con la poesia visiva, montaggi sperimentali, sceneggiatura in dialogo dissonante con le immagini. Come può il cinema spingersi sino alla spiritualità di una lettera, se una lettera «è la mente sola senza la sua compagnia corporea», come scriveva Emily? Eticamente pregnante il capitolo della malattia mortale. Emily soffriva di una grave nefrite. Il medico fa rapidamente una difficile diagnosi: gonfiore agli arti, urine rossastre, debolezza, nausea, convulsioni febbrili, difficoltà nel respiro, dolori lombari, perdite di coscienza. Emily chiede la verità: «Si può curare?». «Non che io sappia, solo diuretici e calmanti». «Grazie, dottore». La patologia infausta obbligherà a penosi periodi di inattività e sarà accompagnata dall’affettuosa cura dei fratelli e dei sanitari. Ma la costrizione fisica non intacca l’energia morale. Pur trascinandosi incerta nella sua stanza, Emily non interrompe il lavoro artistico, né soffoca il suo stile o coarta la propria vita emotiva. L’immortalità, che la scrittura poetica dona in pegno a questa vestale, le consente di trascendere anche l’ultima paura: «Poiché non potevo fermarmi per la Morte, lei gentilmente si fermò per me».     

Data di aggiornamento: 17 Agosto 2018

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