E luce sia a Bereina!

Una missione nel cuore della foresta in Papua Nuova Guinea. Un progetto per bambini e ragazzi, contro l’abbandono, la droga e la violenza. All'origine di tutto un gruppo di suore laiche e un impianto fotovoltaico per accendere la luce su un nuovo futuro.
04 Gennaio 2015 | di

La missione spiazza, ti rimette in gioco, ti chiede di ricominciare. È entusiasmante e complicata al tempo stesso. E così quando Caterina Gasparotto, 48 anni, originaria di Marostica (VI), mette per la prima volta piede a Bereina, nel cuore dello Stato indipendente della Papua Nuova Guinea, i tanti anni di missione nelle vicine Filippine non le bastano a inquadrare subito la nuova sfida: «Mi sembrava di essere stata catapultata indietro di qualche secolo – racconta –. Nei villaggi la gente viveva ancora in maniera primitiva. La Papua è una terra abbandonata e povera».

In realtà il Paese possiede molte risorse e materie prime (oro, rame, petrolio, terra fertile) ma registra uno degli indici di sviluppo umano più bassi del mondo. Con un’indipendenza dall’Australia ottenuta solo nel 1975, la Papua conta 8 milioni di abitanti, divisi in un gran numero di etnie, più di 850 lingue locali e un’economia basata sull’agricoltura di sussistenza. Tanti i problemi sociali, legati soprattutto ai più giovani. Una grande sfida per Caterina e le sue sorelle, che appartengono alla Fraternità Cavanis Gesù Buon Pastore, una congregazione di consacrate laiche sorta nel 2000 proprio intorno al carisma di educare mente e cuore delle giovani generazioni.

Caterina si trova nelle Filippine, quando, all’inizio del 2013, il vescovo di Bereina chiede alla congregazione di essere presente nella sua diocesi e mette a disposizione una casa di legno, vicino alla chiesa. Prima del «sì» ufficiale, le sorelle compiono una breve missione e cominciano a lavorare con bambini e giovani. Il posto è insieme meraviglioso e inospitale, incastonato com’è tra foresta e mare. La città più vicina, Port Moresby, la capitale, è a 4 ore di macchina, non c’è corrente se non per alcune ore al giorno, non ci sono strade né infrastrutture di altro genere. L’unica scuola, che accoglie 400 allievi, non ha né banchi né materiali scolastici. C’è un centro medico recente, ma vi operano saltuariamente due infermieri senza mezzi e medicine. Un bambino su 10 non arriva ai 5 anni di vita, mentre l’Aids è diffuso a macchia d’olio.

Il vescovo che le ha chiamate è un prete povero che guida senza forze e mezzi una diocesi vastissima: «Alcune parrocchie delle montagne – spiega suor Caterina – sono raggiungibili solo a piedi o con piccoli aerei: i sacerdoti devono camminare per mesi per visitare i villaggi. Quando arrivano, somministrano i sacramenti, benedicono le tombe, pregano con la gente che li ha attesi con pazienza». Nessuno sa quanti siano gli abitanti della diocesi: il 50 per cento è analfabeta, buona parte non possiede un certificato di nascita. Ma ciò che più preoccupa le sorelle è il consumo di una droga, ottenuta da una noce locale, la betelnut, unita ad altri ingredienti, molto radicata nella cultura del luogo e somministrata anche ai bambini di 5, 6 anni per smorzare i morsi della fame. «Questa sostanza provoca tumori alla gola, danni al cervello, appiattisce la volontà. Il degrado legato al suo consumo incide particolarmente sui bambini che non vengono nutriti, curati e mandati a scuola e sono invece spesso abusati». Conseguenze pesanti anche per gli adolescenti, che crescono senza speranze, diventando a loro volta violenti.

Nel frattempo le consorelle preparano il terreno; con l’aiuto di benefattori e volontari riescono a ingrandire la casa che il vescovo ha messo loro a disposizione. Iniziano l’accoglienza di settanta bambini al giorno, la produzione di pane, il laboratorio di artigianato per le mamme, il lavoro con i giovani. La loro è una presenza che muove speranze ma anche diffidenze. L’arrivo in pianta stabile delle sorelle nell’ottobre del 2013 non è salutato da tutti allo stesso modo. «I bambini e i giovani reagiscono con entusiasmo, gioia, speranza. Chi ha un ruolo, come i capi tribù, cova ostilità perché teme i cambiamenti».

Ma i cambiamenti penetrano ugualmente, proprio attraverso i giovani: «Un gruppo di venti ragazzi tra i 18 e i 24 anni – racconta suor Caterina – si è stretto intorno a noi, per proteggerci e aiutarci. Nulla di organizzato. Con loro abbiamo condiviso la situazione. Li abbiamo incoraggiati a smettere di usare la betelnut in cambio di pasti regolari e la possibilità di imparare dei lavori. Li abbiamo visti trasformarsi, diventare parte della nostra comunità. Alcuni non sono mai andati a scuola ed è un’esperienza commovente insegnare a leggere e a scrivere a ragazzi di 20 anni. Ricordo l’emozione di Indi quando ha potuto scrivere la sua prima firma su un documento o quella di Leo che si è commosso quando è riuscito a fare le sottrazioni in colonna».  Un progetto… illuminante Su questa giovane pianta s’innesta il nostro progetto: suor Caterina, che già si era rivolta a Caritas Antoniana per la missione filippina, chiede l’aiuto dei lettori e degli amici del Santo per questo nuovo impegno. «La luce è vita – spiega –. Solo ora lo capisco pienamente. Se sei abituato ad avere a disposizione l’elettricità, non immagini neppure che cosa significhi vivere in un luogo in cui dopo il tramonto l’unica risorsa è il fuoco. Non potevamo sviluppare una missione, senza energia». Così chiedono a un’azienda vicentina di fare un preventivo per un impianto fotovoltaico – «bisogna portare tutto da fuori, qui non c’è nulla» chiarisce suor Caterina – e si rivolgono alla Caritas Antoniana per un aiuto finanziario.

Il progetto è accettato per l’intero costo, 40.300 euro. Nell’aprile 2014 l’impianto fotovoltaico viene installato da due tecnici e un volontario italiani. L’occasione è propizia per offrire un’esperienza di formazione ai ragazzi. «I tecnici hanno lavorato insieme con i nostri giovani come una squadra e con la pazienza di insegnare loro le cose. Al termine hanno rilasciato ai partecipanti un attestato ed è stato commovente vedere come anche quel piccolo segno sia servito ad aumentare la loro autostima. Gianni, un volontario, ha regalato ad Andrew, il suo più stretto collaboratore, un grembiule da officina. La notte di Pasqua Andrew l’ha indossato per la Messa».

Ora è arrivata la luce, fuori ma anche dentro ai ragazzini di Bereina. «Ci è cambiata la vita – testimonia suor Caterina –: oggi possiamo fotocopiare dei disegni per i bambini, offrire un bicchiere d’acqua fresca a un viandante stanco, fare i ghiaccioli per i piccoli una volta alla settimana. Ma anche fare un aerosol a chi ha un attacco d’asma o usare un pirografo per decorare il legno. La magia più bella, però, è il televisore: è emozionante vedere gli occhi sgranati dei bambini mentre guardano un cartone animato». Ecco, la missione è questo, è il tutto di niente: «Qui impari a gioire delle piccole cose e nello stesso tempo a liberarti dalla schiavitù di ciò che è inutile».

A Bereina il futuro oggi è pieno di promesse: «Abbiamo tanti sogni – conclude suor Caterina –. Il primo è far conoscere la forza liberante del Vangelo. Il secondo è portare tutti a scuola. Il terzo è che non ci siano più violenze sui piccoli. E l’ultimo che arrivi un vermicello che si mangi tutte le betelnut…».

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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