28 Marzo 2017

Diario dal terremoto - 5. L’Aquila

È la «normalità» il terremoto? Le impalcature, lo svuotamento dei centri storici, la chiusura dei piccoli negozi? L’Aquila è a un’ora di strada da Amatrice. Come è ripartita? Quale prezzo ha pagato?

casa diroccata ad Accumuli

Ogni sera, a un certo punto delle nostre chiacchiere, le mie vicine di container a Santa Giusta, nelle colline di Amatrice, sospirano: «Sappiamo cosa è accaduto, ma ora cosa accadrà? Cosa accadrà?».

Allora vado a L’Aquila, terremoto della primavera del 2009, otto anni fa. Il capoluogo abruzzese dista poco più di un’ora di strada da Amatrice. Vado a parlare con Lina Calandra, 42 anni, geografa dell’università aquilana. Lei e i suoi studenti hanno studiato a lungo i cambiamenti avvenuti nel post-terremoto. Nel 2010, hanno interrogato gli abitanti dell’Aquila. Li hanno ascoltati.

«Sai quale era il desiderio più forte delle donne più anziane? Una mela fresca, una mozzarella…
Gli aggettivi che più abbiamo ascoltato nei mesi dopo il terremoto sono stati: disorganizzato, devastato, abbandonato, deprimente. Una società si è scoperta dispersa, frammentata».

È la vita quotidiana che è stata travolta. Dal terremoto e da quanto è accaduto dopo. Un quarto degli aquilani ha cambiato medico di famiglia («troppo lontano», «non so dove sia finito»). Si sono spezzate relazioni, amicizie, vicinanze. In 15 mila sono andati a vivere in 19 new towns. Sono stati sparpagliati. L’Aquila si è allungata, poco meno di 70 mila persone oggi vivono dentro un cerchio che ha il diametro del raccordo anulare di Roma. Nessuno (meno dell’1 per cento) oggi va al lavoro a piedi: tutti in macchina. Per andare al lavoro, a scuola, a fare spesa, a ritirare la pensione. In centro hanno riaperto appena una cinquantina di negozi. Io sono sorpreso da un’elegante gioielleria. Come se solo il lusso abbia avuto la forza di riaprire. I piccoli esercizi non ce l’hanno fatta. Il mercato quotidiano di piazza del Duomo è finito nella lontana spianata di piazza D’Armi. Un quinto degli aquilani (15 mila persone) era abituato a fare la spesa in centro. Ora non è più possibile, le bancarelle non sono tornate in una delle più belle piazze italiane. E nel nuovo mercato sono quasi spariti i contadini (il 70 per cento in meno) e si sono quasi dimezzati gli ortolani. In compenso, in pochi anni, sono raddoppiati i centri commerciali. Un quarto degli aquilani prende la macchina e va lì a fare spesa. Prima del terremoto, passeggiare per il centro era un’abitudine del tempo libero. Adesso si sta a casa o si va a passare il tempo libero nei centri commerciali. «Il terremoto ha accelerato un processo, una crisi già in atto – dice Lina Calandra –. Il territorio dell’Aquila sta trasformandosi in una provincia dei profondi Stati Uniti. Ci dicono che siamo “periferia”, ma periferia di cosa?». La metà dei giovani aquilani vuole andarsene.

L’Aquila era la città delle 99 piazze, delle 99 chiese, delle 99 fontane, i ricercatori raccontano così la vita del post terremoto: è degenerata in una mesta utenza fra rotatorie stradali. Dicono ancora: l’appartenenza a una comunità si è trasformata in «spaesamento». Le parole che si ascoltano oggi a L’Aquila sono «paura», «insicurezza». Nonostante che il questore si sgoli a spiegare come i furti siano diminuiti.
Leggo che il grande sbaglio (il grande interesse? Il grande giro di soldi?) a L’Aquila sia stato pensare alla ricostruzione prima che a un’idea di riabitare. I suoi abitanti stanno correndo «il rischio di ritrovarsi in luoghi che rendono triste la gente a causa di gente che ha fatto tristi i luoghi».

Ho voglia di citare una ragazza aquilana di 14 anni che racconta di una passeggiata assieme a sua madre: «Non ricordo niente di prima. Quello che vedo sembra la normalità. Quando passo con la mamma, lei dice “oddio”, ma io non capisco, perché mi aspetto i ponteggi e le strutture. Se non ci sono più, sono io a sorprendermi».

Posso sorridere? A L’Aquila mi hanno dato un lungo decalogo di comportamenti ancora oggi da seguire (e seguiti, a quanto ne so) nella vita di tutti i giorni. Tra di loro: «Il pigiama? Obsoleto. Solo pseudo tute, possibilmente in pile perché fa freddo. In modo da essere vestiti in modo dignitoso alle tre di notte circa». E poi: «Chiedere sempre al lampadario la conferma di una scossa». E ancora: «Oddio il vento, ergo terremoto».
Insomma, sarà possibile farci beffe del terremoto e di quanto gli uomini fanno dopo?  Cosa accadrà ad Amatrice, a Norcia, ad Arquata del Tronto, a Visso, a Ussita?

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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