Costruttori di sogni

L’incontro con l’altro, con il diverso da sé, apre sempre percorsi nuovi e positivi nelle comunità. E l’integrazione diventa una ricchezza, per chi arriva, ma anche per chi accoglie. Storie di vita buona, in giro per l’Italia.
09 Gennaio 2016 | di

C’è chi pulisce le strade e sfalcia l’erba dei giardini pubblici. Chi insegna inglese nella città che lo ospita e chi dà una mano cucinando per quanti hanno più bisogno. Le storie di immigrazione hanno davvero risvolti inediti, che non ti aspetti. A Trento come a Prato, tra le montagne bellunesi come in mezzo alle piane dell’entroterra cosentino, si moltiplicano gli esempi di buona accoglienza. Esperienze che incoraggiano percorsi inediti di condivisione e dialogo. Mentre si intrecciano altrettante storie dalle quali ripartire.

Mohammad e Mosa In classe tutto è pronto per la lezione di inglese. Sui banchi, studenti un po’ speciali: i cittadini di Montalto Uffugo (CS). In cattedra, docenti altrettanto speciali: Mohammad e Mosa. Entrambi di origine afghana, etnia hazara, hanno rispettivamente 28 e 22 anni. La loro storia è simile: «Abbiamo lasciato il nostro Paese da piccoli e vissuto in altri Stati europei prima che ci venisse riconosciuta la protezione internazionale in Italia. Il nostro viaggio è analogo a quello di tanti bambini costretti a scappare da una terra lacerata. Come Amir e Hassan, i protagonisti del libro Il cacciatore di aquiloni», raccontano.

A Mosa è stato riconosciuto il diritto di asilo, a Mohammad la protezione umanitaria. Mosa, laureatosi in Ingegneria meccatronica in Norvegia, ha già insegnato inglese proprio nel Paese del Nord Europa. Mohammad, invece, è al suo primo incarico da formatore. Ha un diploma professionale e un’esperienza lavorativa come tappezziere. Oltre all’inglese, parlano l’italiano, l’arabo, il tedesco e il persiano. «L’Italia è la terra che ci ha salvato – dicono –. Vorremmo restituire, in qualche modo, ciò che questo Paese ci ha dato». Entrambi hanno un sogno. Mosa vorrebbe proseguire gli studi universitari con la laurea specialistica, Mohammad desidera trovare un’occupazione stabile così da poter restare nel territorio che l’ha accolto. Il percorso che sta seguendo va proprio in questa direzione: ha sostenuto un esame per la certificazione della conoscenza della lingua italiana, sta studiando per conseguire la patente di guida, ha svolto un tirocinio formativo che significa esperienza di lavoro certificata. E sogna una famiglia tutta sua.

«L’idea di un corso gratuito d’inglese per i cittadini di Montalto – spiega Elisa De Nardo della cooperativa sociale Promidea che ha curato il progetto della rete Sprar (Sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo) – è nata dai due ragazzi, dal loro bisogno di sentirsi “utili” e di ricambiare l’accoglienza ricevuta dalla comunità che li ospita. Idea subito accolta, rea­lizzata e ben riuscita». Tra le altre iniziative portate avanti dalla cooperativa: un corso di patchwork durante il quale rifugiati e persone di Montalto hanno condiviso arti e culture e «Puliamo il mondo», in collaborazione con Legambiente e associazione «L’Arca».

«Grazie a Dio» Loro sono Amadou, Ibrahim e c’è pure un altro ragazzo dal nome simpatico: Thankgod, vale a dire «grazie a Dio». Siamo a Pieve di Cadore (BL). La giornata di dicembre è rigida. I giovani stanno tinteggiando la ringhiera della scuola media. Ma quest’estate, quando le temperature erano miti, hanno pure sfalciato l’erba lungo le strade, sistemato sentieri e resi accessibili percorsi secondari come quello che, vicino al bosco, porta al cimitero. Arrivano, in genere, dal Mali o dall’Africa subsahariana. «Siamo stati costretti a fuggire dai nostri Paesi sempre più in balìa di guerriglieri estremisti. Abbiamo visto l’inferno, soprattutto in Libia, nei campi dove si viene ammassati, con un pasto al giorno quando va bene, costretti a stare seduti giorno e notte perché non c’è posto per stendersi» raccontano due di loro. «All’inizio erano una decina – spiega Monica Argenta della cooperativa Cadore che sta rea­lizzando il progetto insieme con vari Comuni della zona –. Oggi sono trentacinque i richiedenti asilo impegnati nelle attività». I ragazzi lavorano a fianco degli operai comunali a Pieve di Cadore, Valle, Perarolo e Domegge, nella manutenzione di strade, verde ed edifici pubblici. «Hanno tra i 18 e i 25 anni, tra loro anche ragazze e due giovani coppie. A settembre è nato il figlio di una di queste. Lo hanno chiamato con un nome italiano: Roberto. È la nostra mascotte».

Vicini alla gente I progetti di cittadinanza attiva si susseguono. A Cesena, per esempio, decine di profughi originari del Centrafrica, uomini e donne, sono impegnati nelle piccole manutenzioni in varie zone della città. A Milano, Comune e Prefettura hanno firmato un protocollo che prevede il coinvolgimento di migranti in iniziative di volontariato anche in oratori o affiancando gli allenatori delle squadre di calcio. A Palermo i profughi distribuiscono, insieme con i volontari della Caritas, cibo e acqua ai migranti che arrivano al porto, mentre a Catania si dedicano all’assistenza di anziani soli, bambini e senza fissa dimora. A Trento si occupano del decoro pubblico.

«Bisogna colpire il pregiudizio laddove si annida – spiega Mariachiara Franzoia, assessore al sociale del Comune di Trento –. Molti pensano che gli immigrati stazionino senza far niente o sporcando? Facciamo vedere, invece, che sono impegnati nel tenere pulita una città che, per primi, vogliono ordinata. Il primo passo, tra l’altro, è il racconto delle loro storie in alcune serate pubbliche. Dobbiamo conoscere per capire».

Un’altra storia arriva dal Centro Italia. A Prato, rifugiati e profughi hanno deciso di mettere a disposizione il loro tempo a favore della collettività. Un atto di riconoscenza verso chi li accoglie e il desiderio di guardare al proprio futuro con fiducia. Provengono dal Senegal, Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Pakistan. A turno svolgono lavori di mantenimento e cura del verde pubblico anche lavorando in associazioni di volontariato. Sanizh, 28 anni, è arrivato un anno fa dalla Sierra Leone. Insieme con altri venti profughi ha svolto attività di volontariato nell’ambito del progetto «Accoglienza straordinaria e impegno civile» avviato dal Comune in collaborazione con Caritas, Arci solidarietà Prato, Cooperativa sociale 22 onlus, Consorzio Astoir, Cooperativa sociale Pane&Rose e Asm. «Ci siamo impegnati a lavorare nei giardini pubblici per pulire la città – spiega Sanizh –. Sono contento di aver dato una mano a questa città, di aver aiutato i suoi abitanti a tenerla pulita e in ordine. Per noi che arriviamo da Paesi difficili, attraversati da fame e guerre – aggiunge – è stato un grande dono e un onore». Per quarantacinque giorni i profughi sono stati impegnati in attività socialmente utili sotto la guida e l’organizzazione di associazioni aderenti al progetto. Hanno preso parte a eventi e manifestazioni, si sono impegnati nella manutenzione del decoro urbano, nel supporto a uffici comunali che svolgono attività culturali, sociali e di inclusione. Un’esperienza positiva, assicurano i profughi e gli stessi promotori. Progetti che vengono riproposti, a rotazione, ai nuovi arrivati.

Molti di loro in Africa erano agricoltori, muratori, falegnami, saldatori. Finché, un giorno, la dura decisione: raggiungere la Libia per salire su un barcone con destinazione Europa. Come un gruppo di profughi fuggiti da Paesi dell’Africa sub sahariana. Tra loro Patrik, 29 anni, ghanese, approdato in Sicilia dopo aver attraversato in auto Burkina Faso, Niger e Libia. E da qui la successiva, drammatica, traversata del Mediterraneo. Oppure, Ibrahim, 34 anni, senegalese, che ha attraversato l’Africa centrale fermandosi a lavorare qua e là per racimolare qualche soldo e continuare il suo viaggio. Nel suo Paese ha lasciato la moglie e due bambini. È scappato per la persecuzione religiosa in atto. Nel gruppo di migranti giunti a Prato c’è chi è occupato nella ripulitura delle piste ciclabili; altri prestano servizio nell’Emporio Caritas per l’aiuto ai più bisognosi, altri lavorano per Arci nel circolo Ballerini. In sette condividono anche un appartamento in città. Tutti sognano di poter rimanere e vivere in Italia con un lavoro stabile.

«Ho sempre lavorato, sin da giovanissimo – spiega Randi, ghanese –. Poi sono fuggito dal mio Paese perché la mia vita era in pericolo». Ha attraversato il deserto con mezzi di fortuna, mettendosi nelle mani dei trafficanti. Arrivato in Libia è stato rapito da miliziani, picchiato e abbandonato per giorni nel deserto. Poi l’imbarco, tre giorni di navigazione e l’arrivo sulle coste italiane. «Sono grato – continua – a quanti mi hanno dato la possibilità di offrire il mio contributo alla comunità che mi ospita». Vite che si riprendono la loro dignità. Dopo il buio, la luce. E la speranza in un futuro che non sarà più come prima.

Piccola Lampedusa Bolzano da qualche mese a questa parte vede la presenza di un gran numero di profughi provenienti dal Sud Italia. Migliaia di persone stremate, affamate e senza nulla con sé raggiungono lo scalo ferroviario altoatesino per proseguire verso il Brennero, direzione Germania. Un’umanità disperata, senza documenti, senza aver passato i controlli insegue un futuro migliore. Bolzano, piccola Lampedusa. Quando giungono allo scalo alpino, queste persone trovano gruppi di volontari che offrono loro cibo, vestiario, assistenza e informazioni. Tra questi, i membri della Caritas, associazione che gestisce otto centri di accoglienza con 400 profughi nelle strutture attive in diocesi, o di «Volontarius», ong molto attiva nell’altoatesino.

Ma tra i volontari ce n’è uno particolare. Si tratta di Samba, 32 anni, senegalese, che ha deciso di offrire il proprio tempo a quanti transitano alla stazione di Bolzano perché ha un desiderio: «Ricambiare in questa città l’aiuto ricevuto». Scappato da povertà e dittatura, il giovane ha voluto dire grazie a chi l’ha accolto, donando tutto ciò di cui dispone: due braccia, un sorriso raggiante e la giovane età. Da profugo ad «angelo dei rifugiati». Così l’hanno soprannominato in molti, qui a Bolzano. La sua presenza ha significato una parola di conforto e di aiuto per tutti, adulti e bambini. In particolare, Samba ha pensato soprattutto a questi ultimi, più sensibili alle fatiche di un viaggio lungo ed estenuante. In un angolo della stazione li ha fatti giocare e disegnare. A ciascuno ha consegnato dei fogli bianchi e dei colori. La loro sorprendente creatività ha fatto il resto: scene di guerra, la fuga, i barconi. Ma anche colombe, ramoscelli d’ulivo, paesaggi pieni di colori e fiori. Samba li ha appesi in stazione, perché tutti si ricordino di loro, di questi piccoli alla ricerca di un futuro. Anche questa è storia. Storia di un popolo in cerca di speranza e di pace.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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