Confessioni di una sposa bambina

Quarant’anni fa, appena undicenne, divorziò dal marito aguzzino che la famiglia le aveva imposto. Oggi Khadija Al Salami è una pluripremiata regista che, nel suo «La sposa bambina» (Yemen, 2014), denuncia una tradizione figlia dell’ignoranza.
24 Giugno 2016 | di

L’abito bianco, i fiori, i festeggiamenti… C’è chi passa l’infanzia intera a sognare il proprio matrimonio e chi invece la trascorre nel disperato tentativo di rimuoverne ogni ricordo. Dimenticare le pressioni dei familiari, cancellare il volto di un marito aguzzino che ha il triplo dei tuoi anni. Seppellire la violenza fisica ma soprattutto psicologica, venire a patti col dolore per poter guardare avanti. Sono tappe che Khadija Al Salami conosce bene. Lei che, yemenita di umili origini, a 11 anni ha sfidato la tradizione del suo Paese chiedendo e ottenendo il divorzio. Lei che in età preadolescente ha scelto di continuare a studiare, perché «l’istruzione è l’unica cosa che può garantirti un futuro». 

Oggi Khadija è una cinquantenne da primato. Prima donna yemenita a diventare regista e produttrice cinematografica, dopo il trasferimento negli Usa e la laurea in produzione e regia cinematografica, ha girato oltre venticinque documentari e fatto incetta di premi e onorificenze in tutto il mondo (è stata insignita, tra l’altro, della Legione d’onore francese e del titolo di Cavaliere dell’ordine delle arti e delle lettere). Nonostante il successo, un nuovo matrimonio e una nuova vita in Francia, la regista non ha mai lasciato davvero – almeno col cuore – la sua patria. Della difesa dei diritti umani ha fatto un vero e proprio manifesto professionale. E sulla piaga delle spose bambine, a quarant’anni dai fatti che l’hanno vista coinvolta in prima persona, ha deciso di imbastire addirittura un film. 

Uscito nelle sale italiane il 12 maggio scorso, La sposa bambina è tratto dal libro La sposa bambina. Io, Nojoud, 10 anni, divorziata (Piemme, già edito in Francia nel 2009), a sua volta ispirato alla battaglia per la libertà di Nojoud Ali, un’altra giovane yemenita votata alle nozze a soli 10 anni. «Ogni anno nel mondo circa 15 milioni di bambine vengono costrette a sposarsi – ha denunciato lo scorso 5 maggio Khadija Al Salami, a Milano per presentare il suo film in occasione del Festival dei diritti umani –. Se non facciamo qualcosa, entro il 2020 ci saranno 140 milioni di spose bambine». Seduta al centro di una terrazza della Triennale – con un verdissimo scorcio su parco Sempione a farle da sfondo –, la regista non ha lesinato sorrisi e confidenze ai giornalisti. Onesta e schietta proprio come la sua pellicola, ha parlato di uno Yemen fragile, di una tradizione che rende schiavi e di un nemico comune, l’ignoranza, che si combatte solo insieme. 

Msa. Prima la difficoltà a reperire i fondi, poi le riprese eseguite senza corrente elettrica e l’incidente che ha visto coinvolto un uomo caduto sul set. Girare La sposa bambina in Yemen non dev’essere stata una passeggiata… 

Al Salami. Realizzare questo film è stato un incubo. Ho impiegato cinque anni a trovare i finanziamenti, perché nessuno era interessato a produrre la storia di una bambina sposata in un Paese come lo Yemen. Poi ho convinto un’amica a rischiare in proprio. Insieme abbiamo raccolto una prima somma che ha permesso alla lavorazione del film di cominciare. Ancora più difficile è stato trovare la protagonista. Nello Yemen non esiste un’industria cinematografica, tanto meno attori professionisti. In che modo avrei potuto convincere dei genitori yemeniti a lasciare la loro figlia interpretare una storia come questa? A un certo punto ho pensato persino di ingaggiare un’orfana. Poi per fortuna mia sorella ha proposto le sue due figlie (per la parte di Nojoom a 5 e 10 anni). È stata la soluzione migliore. Le mie nipoti sono state molto brave. Per girare il film hanno saltato un mese e mezzo di scuola. 

La sposa bambina ha partecipato a oltre cento festival internazionali e rastrellato diciassette premi (tra gli altri, Best fiction feature all’International film festival di Dubai nel 2014). In Yemen che accoglienza ha avuto? 

L’obiettivo era mostrarlo nel mio Paese, perché desideravo istruire la popolazione su una realtà spesso negata. Un anno e due mesi fa, però, in Yemen è scoppiata la guerra e così il mio intento è fallito. Sul web, tuttavia, ho appreso che il film è stato piratato e che ora per le strade del Paese viene venduto in dvd. Tutti cercano di accaparrarsi una copia. Il che è insolito, perché normalmente un film simile sarebbe considerato oltraggioso, in quanto mostra il Paese sotto una cattiva luce. Ho saputo inoltre che alcune ong hanno organizzato proiezioni del dvd, dando vita a dibattiti. Certo le critiche non sono mancate. Una spettatrice mi ha accusato di aver inventato una realtà inesistente. Alla sua proposta di girare un film su un «personaggio vero» come la regina di Saba, ho risposto che c’è una sola regina di Saba, mentre di ragazzine in questa condizione se ne contano a milioni. La loro situazione, però, viene ignorata dalle élite che vivono nelle città, lontane dalle aree rurali.

La sposa bambina ripercorre la storia di Nojoud Ali (nel film il nome della protagonista diventa Nojoom), ma in un certo senso anche la sua. Quanto c’è di autobiografico in questa pellicola? 

Alcune scene sono prese dal mio passato. Ad esempio, quella in bagno: sono io che ho picchiato la testa contro il muro fino a perdere i sensi. O quella del matrimonio: sempre io che, nel giorno delle mie nozze, mi sono allontanata per andare a giocare. E poi il finale: rispecchia il mio ritorno a scuola. 

Nei 99 minuti recitati in lingua originale il confine tra bene e male sfuma in continuazione. Se la famiglia di Nojoom risulta quasi vittima del sistema, a chi va la responsabilità di un crimine così grave? 

L’ignoranza e la povertà sono il nemico principale. Io stessa ho vissuto l’esperienza di Nojoom, eppure provengo da una famiglia che mi ha sempre voluto bene. I matrimoni infantili sono perpetrati non per mancanza di amore o per cattiveria, ma perché si crede in tradizioni tramandate nei secoli e accettate passivamente. Io sentivo che questa pratica era ingiusta, così mi ribellai. I miei familiari mi attaccarono, tacciandomi di essere una cattiva ragazza. Ho impiegato molto tempo a perdonarli, lo stesso che hanno impiegato loro per capire le mie ragioni. Tante volte ho chiesto a mia madre come avesse potuto impormi il medesimo destino che lei aveva subìto a 8 anni. La sua risposta? Non sapeva esistesse un’altra via. Con la mia reazione, però, ho indotto alla riflessione. E ora nella mia famiglia nessuno è più costretto a sposarsi. 

L’intervista completa nel numero di giugno del «Messaggero di sant’Antonio» e nella versione digitale della rivista.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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