C’è una terra che salva

Sospesa tra Italia e Africa, ma prima ancora tra uno sbarco e l’altro, in perenne emergenza, Lampedusa accoglie e restituisce umanità. Itinerario all'interno di un’isola ferita, capace ogni volta di rialzarsi. Volti, storie e parole della sua gente.
29 Aprile 2014 | di

Uno spuntone di roccia tra due continenti. Il luogo più lontano dall’Italia, più a sud persino di Tunisi. Fuori dal mondo, eppure al centro degli interessi di molti. Un tempo punto d’appoggio saltuario per itinerari commerciali e difensivi, oggi tra le quattro principali rotte dei migranti nel Mediterraneo. Lampedusa, terra sospesa tra Europa e Africa.

Lo dicono i 205 chilometri di mare che la separano dalla Sicilia e quelli, quasi il doppio, che la dividono dalla costa tunisina. Lo dicono i colori (tra tutti, l’ocra degli edifici – così diversi dai toni pastello delle case di Linosa – e l’azzurro del mare), la storia, le tradizioni, le insegne fuori dai negozi. Lo dicono, ancora, i volti, le storie e le parole dei migranti. E, di più, i volti, le storie e le parole della gente che vive qui. Lo dicono, soprattutto, i numeri, forniti dal Viminale: i migranti sbarcati in Italia dal primo gennaio al 14 aprile 2014 sono 17.954; nel 2013 erano stati 42.925 e 13.267 nel 2012. E si preannuncia un’estate da apocalisse. Perché il Nord Africa (a causa della situazione di instabilità in cui versano molti Pae­si) è sull’orlo di un esodo di vaste proporzioni: sono attesi tra i 300 mila e i 600 mila migranti. Lampedusa è tutto questo, ma non solo. Prima di tutto è un’isola. «È destino di ogni isola – ha detto lo scrittore e poeta siciliano Gesualdo Bufalino – essere sola nell’angoscia dei suoi sigillati confini; infelice e orgogliosa di questo destino».

Ci arrivano in tanti a cercare rifugio su queste scogliere, tra insenature che sembrano schiudersi in un abbraccio. Ci arrivano tartarughe, uccelli, balenottere. E ci arrivano esseri umani. Uomini, donne e bambini.

Un’isola sospesa tra le emergenze degli sbarchi. Scorrono le immagini che conosciamo tutti, quelle di una terra strappata, segnata, ferita dalla disperazione, dalla paura, dai sogni mai realizzati.

Ma a Lampedusa non è sempre emergenza, non è sempre dolore, non è sempre morte. Finito il dramma, spenti i riflettori, che cosa rimane tra questa gente che non ha mai smesso un solo giorno, una sola notte, di restare aperta all’accoglienza? È in questi momenti che Lampedusa si mostra per quello che è, nuda, vera, «isola» nella sua solitudine. È forse solo in questo tempo sospeso, in cui silenzio e attesa si incrociano, che si può capire meglio la profondità delle sue ferite. Quelle esteriori, visibili, ma anche quelle che non appaiono perché stanno dentro. Perché una ferita dev’essere ripulita dalle incrostazioni, dall’urgenza, per essere valutata, compresa, curata. Il nostro viaggio, alla scoperta di una terra che accoglie, comincia da qui, e in questo momento.
 
Il campo del vasaio
«Che cosa rimane di un viaggio, di un sogno, di una speranza? Cosa resta di un migrante? Che ne sappiamo noi della sua storia? Che ne sa, di lui, chi lo ha cresciuto, accudito e amato?». Il nostro itinerario parte da questi interrogativi e inverte la sua rotta, ancora prima di cominciare. Inizia dalla fine, dal primo luogo della memoria.

Contrada Cala Pisana, cimitero comunale. Croci di legno e qualche fiore. Gli abitanti dell’isola la chiamano la zona dei «senza nome». È quella parte di camposanto – una sorta di «campo del va­saio» del terzo millennio – che accoglie quanti sono morti nei naufragi o nei barconi. Le lapidi in marmo bianco sono marchiate a vista con vernice blu, indelebile, non confondibile. Extracomunitario numero 1, ci hanno scritto. Oppure lettera e numero: F/2000, A/2008, B/2008, C/2011. O ancora: tre cadaveri, 8 maggio 2011.

Un Paese si riconosce da come accoglie i vivi, ma prima ancora da come tratta chi non c’è più. «Quella dei morti è una pagina che va ricostruita» spiega Giusi Nicolini, primo cittadino di Lampedusa e Linosa, già direttrice della Riserva naturale e responsabile locale di Legambiente. «Per questa ragione ho fatto togliere le vecchie lapidi. È stato uno dei miei primi interventi da sindaco. Le ho sostituite con delle targhe. Non è stato possibile dare un nome e un volto a quelle lapidi. Abbiamo allora cercato di raccontare del naufragio, di lasciare qualcosa di loro per chi verrà. Quasi nessuno ha qualcuno che possa piangerli, qui. Eppure visitare i morti, portare un fiore, starsene in silenzio di fronte a una lapide che nasconde una storia, una vita, una speranza, è un gesto che non costa nulla. Condividere il dolore aiuta a capire. Solo in questo modo parole come “viaggi della speranza”, “sbarchi”, “migrazioni” acquistano un senso, fuori dai luoghi comuni. Piangere anche chi non si conosce significa già accogliere, affermando un principio di responsabilità universale su questa tragedia. Il nostro cimitero dovrebbe diventare un luogo di pellegrinaggio, una tappa degli itinerari, anche turistici, così come l’Isola dei Conigli, decretata la più bella spiaggia del mondo. Non si potrà davvero conoscere Lampedusa se non si è passati, almeno una volta, tra queste tombe. Ci sono luoghi della memoria che vanno conservati e mostrati. Ci ricordano ingiustizie non più tollerabili, errori non più ammissibili. Non dobbiamo vergognarci. La visita di papa Francesco, lo scorso 8 luglio, ha fatto da spartiacque. Doveva arrivare un uomo dai confini del mondo a ricordare, a noi periferia di un mondo, di non aver paura di mostrarci come siamo, col nostro volto di sofferenza, legato alle tragedie dei migranti, all’isolamento, all’essere stati a lungo abbandonati a noi stessi quando ne avevamo più bisogno, ma anche con la nostra faccia di accoglienza a 360 gradi, le nostre porte aperte, la gente in strada per soccorrere, l’andirivieni di pentoloni per offrire cibo e bevande calde, le nostre coperte, i nostri indumenti, i nostri abbracci. Non sono i migranti che rovinano il turismo, ma le politiche sbagliate».

Incontriamo il sindaco all’uscita di un’assemblea pubblica sul nuovo Piano paesaggistico. «Quella che sogno, da sempre, è un’isola consapevole della sua identità, una terra in cui tutto possa avvenire alla luce del sole, senza più logiche clientelari che hanno pesato fin troppo sul suo sviluppo. Dobbiamo essere orgogliosi di quello che la natura ci ha dato, ma anche di ciò che sappiamo fare».
 
Scarpe rotte e piccoli cuori
Piccole croci, spesso rinvenute ancora strette tra i denti. E ancora: vestiti, bussole, pacchetti di sigarette, lettere, immaginette, orsacchiotti e piccole bambole, libri, scarpe rotte, ciotole per il cibo, pensieri affidati a piccoli ritagli di carta, alcuni rinvenuti in bottiglie restituite dal mare. In tasca, quasi sempre una foto. Scattata prima di partire: i volti sorridenti, gli abiti perfetti, come prima di una festa.

Ciò che rimane di un viaggio della speranza, oltre ai morti, sono gli oggetti. Resti di umanità grazie ai quali è possibile ricostruire un’identità, scoprire una storia e affidarla a chi verrà. Molti oggetti sono custoditi nel Museo delle migrazioni, inaugurato a febbraio. «Non si tratta solo di accumulare cose, scritti, legni. L’obiettivo è studiarli insieme con i migranti e vedere cosa loro ci raccontano» spiega Giacomo Sferlazzo, responsabile di Askavusa («a piedi scalzi», nel dialetto lampedusano), l’associazione che ha raccolto oggetti altrimenti destinati alla discarica.

L’esposizione permanente si pone come punto d’incontro, al centro del Mediterraneo, per testimoniare il passaggio di esseri umani e culture. «L’isola è ritornata quella che è sempre stata nei secoli: terra di accoglienza. Bisogna uscire dalle emergenze per dare voce alle migliaia di persone, portatrici di speranze, sogni, vite, idee di futuro che si sono intrecciate con le nostre, ispirando l’idea di un possibile destino condiviso. Anche noi siamo stati migranti in tante zone del mondo. Queste tragedie ci riguardano. Queste vite, in fondo, ci appartengono».

Come quelle dei 366 migranti morti nel naufragio del 3 ottobre scorso. Una piccola pianta e un lume ricordano, oggi, ognuno di loro nel «Giardino della memoria». Si trova lungo la strada che porta all’Isola dei Conigli. I piccoli arbusti, scelti tra le specie autoctone che popolano la riserva, sono contrassegnati da un numero e da un cuoricino colorato.

Lungomare del porto. Altro luogo della memoria, simbolo dell’accoglienza dell’isola.

A una manciata di metri dal molo Favarolo, dove sbarcano i migranti tratti in salvo dalle motovedette della Guardia Costiera, sono accatastati i barconi. Hanno colori sgargianti. Alcuni sono sventrati. In altri si scorgono i resti di un incendio. Altri ancora sono incredibilmente intatti, quasi pronti a salpare di nuovo. Su alcuni stanno scritti dei nomi: Hurria, Abdallah, Mourad. Oppure il Paese di provenienza.

Vita e morte si stringono dentro questi scafi. Anche 2.500-3.000 dollari il costo di un viaggio in coperta, al «sicuro». Molto minore quello per la stiva, il luogo più pericoloso dove, in caso di incidente, quasi nessuno sopravvive. Sembrano non aver mai smesso di vivere, le barche. Come il legno con cui sono state realizzate. Potrebbe essere recuperato per farne, ad esempio, librerie per ragazzi, panchine per l’arredo urbano, croci.
 
Mai più come prima
Più che l’isola dei migranti, in questo momento Lampedusa sembra l’isola dei militari. Si trovano ovunque, per strada, in piazza. E, ovviamente, a presidio del Cpsa, il Centro di primo soccorso e accoglienza in contrada Imbriacola. In questo periodo il Centro è chiuso, non ci sono migranti. Si stanno eseguendo lavori di ristrutturazione. Fa uno strano effetto varcare quel cancello dove, fino a poco tempo fa, erano appesi magliette e indumenti, e oltre il quale centinaia di migranti erano stipati peggio che nei barconi.

«In questo spazio, vicino all’ingresso, si radunavano i bambini. Appena entrati si mettevano a giocare, come se niente fosse successo» racconta Paola. Lavora ormai da sette anni al Cpsa come psicologa. Con lei Francesca, medico. Fanno parte di «Nuova Lampedusa Accoglienza» che gestisce, attualmente, il Cpsa. Quando arrivano, ci dicono, i migranti vengono subito sottoposti a interventi di prima assistenza: «Le patologie più comuni sono disidratazione, dolori causati dalla cattiva posizione, ustioni, infezioni, intossicazioni da carburante. Le ferite più profonde, però, sono quelle psicologiche».

Sulle pareti, nelle camerate anche con quindici letti per stanza, ci sono piccoli disegni, nomi, date, immaginette ancora appiccicate, e tante croci, preghiere, invocazioni. «Per sopravvivere, molti cercano di ricostruire, tra queste mura, un pezzo della loro storia, di restare aggrappati al loro credo. Basta anche una coperta per terra, dove inginocchiarsi e pregare. Non si sono mai verificate tensioni per motivi religiosi. Ognuno, in genere, rispetta l’altro. I diverbi, se ci sono, scoppiano per cause futili, contingenti. La convivenza non è facile per nessuno, tanto più tra persone appartenenti a diverse etnie con regole, abitudini e modi di vita differenti».
 
Un mare di emozioni
Il giglio marino è un fiore del mare. Rispecchia, in maniera emblematica, l’anima del lampedusano. Cresce spontaneo sulla sabbia dove, talvolta, viene calpestato. «Un po’ come succede per la nostra isola» afferma Caterina Famularo, anima dell’associazione «Il giglio marino» che ha promosso alcuni progetti tesi a capire quanto certi episodi dolorosi abbiano scavato dentro l’animo dei bambini e delle donne di Lampedusa. «È nei momenti di crisi che diventa indispensabile ascoltare e accogliere chi ha sempre accolto l’altro, senza mai essere ascoltato veramente nei suoi bisogni: il lampedusano».

Con i bambini è stato realizzato un laboratorio sul tema del mare, che li aiutasse a riattribuire a esso un valore positivo. «Per tanti piccoli, infatti, il mare è simbolo di dolore, perché lo vedono solo come luogo di morte. Ma il mare è l’anima della nostra isola, ed è ciò che alimenta le emozioni. Siamo partiti da una paura, da un sentimento, da uno stato emotivo per elaborarlo e farlo diventare un libro illustrato, una favola, una storia». Il laboratorio «Il filo narrante», invece, si è rivolto alle donne, lampedusane o di diversa provenienza, che vivono sull’isola. Sono state realizzate bambole di pezza, esposte poi in una mostra, che rappresentavano le donne sbarcate a Lampedusa o che vivono ancora in quei Paesi nei quali i loro diritti vengono sistematicamente violati.
 
La croce e il chiodo
Francesco (Franco) Tuccio è il falegname che realizza le croci con i legni dei barconi. Sette mesi fa ne ha fatte, in pochi giorni, 366 e le ha poste sopra a ognuna delle vittime del naufragio del 3 ottobre. Ma ne ha fatte anche molte altre, così come ha avuto l’occasione di contribuire a un momento gioioso. Franco, infatti, è diventato «il falegname del Papa». È stato lui a costruire l’altare, il pastorale e il calice utilizzati da papa Francesco a Lampedusa lo scorso luglio. Quando andiamo a trovarlo, nella sua bottega in via Sanvisente, sta lavorando alla più grande croce che gli sia mai capitato di realizzare: tre metri di lunghezza, un metro e mezzo di larghezza, 60 chili di peso. Gliel’ha commissionata Arnoldo Mosca Mondadori, poeta ed editore. La croce è stata benedetta dal Papa il 9 aprile. Da quel giorno ha iniziato un pellegrinaggio in tutta Italia per spingere i fedeli a riflettere sulla sofferenza e per portare un messaggio di solidarietà e di pace.
«Mio padre costruiva barche, ma non era il suo mestiere – racconta Franco –. Lui faceva il muratore. Dopo il lavoro andava nel laboratorio di un amico, maestro d’ascia. Lì realizzava piccole barche, lunghe non più di 6-8 metri, quelle che si usano per i trasbordi. Sceglieva legni robusti e forti, come l’azobè ricavato da alberi di alto fusto che crescono solo in Africa. Lo stesso dei barconi che ho recuperato dopo i naufragi».

Per un periodo, padre e figlio lavorano insieme. «Lui mi diceva: “Fai questo, fai quello”. Non è stato facile. Io ero giovane e perdevo la pazienza. Tanto che ho fatto di testa mia e me sono andato».

Franco «ritroverà» suo padre molto tempo dopo. Una storia che in pochi conoscono. «Una sera mi chiama don Stefano, l’ex parroco. “Franco, avremo il Papa a Lampedusa. Devi realizzare l’altare con i legni dei barconi”. Abbiamo lavorato per giorni, senza fermarci. Ci siamo messi alla ricerca di una barca. Non riuscivamo a trovarla: o era troppo grande o era troppo piccola. Finché una mattina all’alba, quasi per caso, passo da un vecchio pescatore. Vedo subito una piccola barca, quasi nascosta. Non ho dubbi. Ma non sono solo le misure ciò che sto cercando. Riconosco la mano di chi l’ha realizzata. È quella di mio padre». Un passaggio di testimone, un filo che non si è mai interrotto, una storia partita da lontano che si chiude in uno dei momenti più significativi della vita di Franco. «Hai fatto cose belle per me» sono le parole del Papa a Tuccio. «Non ero emozionato – confessa Franco –. Quando l’ho incontrato è stato come se ci conoscessimo da tempo. E l’abbraccio è stato come quello tra un padre e il proprio figlio».

Forgiato dalle mani di Franco anche il calice utilizzato dal Papa. Anzi è stato papa Francesco in persona a sceglierlo. «A differenza dell’altare, il calice non è stato scolpito all’ultimo momento. Due anni fa trovai un pezzo di legno davvero bello, prezioso. Decisi di realizzare dei calici. Ne ricavai quattro. Certe opere sono come dei figli, si fatica a staccarsene. Così pensai che non li avrei venduti per nessuna ragione al mondo, “fosse stato anche il Papa a chiedermelo”, mi dissi. Pulendo il legno rinvenni un chiodo ormai arrugginito. Bastava da solo a esprimere, senza parole, tutta la passione, la sofferenza e il dolore dell’uomo. Uno dei quattro calici portava quel chiodo. Una mattina don Stefano mi piomba in bottega, e mi dice: “Hai dei calici per il Papa?”. “No” gli rispondo. E lui: “Franco, ma sono per il Papa!”». Don Stefano invia le foto dei calici a Roma. Papa Francesco non ha dubbi. E sceglie proprio quel calice col chiodo conficcato nel legno. «Era già tutto scritto. Quel calice ha atteso il Papa».

Nella bottega, dove gli arnesi e i legni pronti da lavorare sono riposti con cura, arriva la moglie di Franco, Giovanna. La coppia ha quattro figli. Il più piccolo, Calogero chiamato Lillo, ha 4 anni. Gli piace andare in laboratorio, usare gli attrezzi e, se può, non ascoltare le raccomandazioni di papà Franco. Fa già di testa sua, il piccolo Lillo. Come suo padre.
 
In prima linea
Vita e morte si incrociano, forse per un destino non così strano poi, in molti degli abitanti di Lampedusa. Pietro Bartolo, 58 anni, è il medico dell’isola. Dottore vecchio stampo, giuramento di Ippocrate impresso nella testa e ancor prima nel cuore. Sempre disponibile: giorno e notte, sabato, domenica, giorni di festa. Pure se qualcuno lo ferma per strada e gli chiede: «Pietro, c’haiu a fari pi ’sta tussi ca nun mi passa?». Il «duttù» è nato, cresciuto ed è rimasto a Lampedusa. Poteva andarsene in qualche grande ospedale. Ha scelto, invece, di fare il medico nella sua isola. Dove un ospedale non esiste, ma a funzionare è solo un poliambulatorio che, pur garantendo il trattamento dei casi d’urgenza, è sprovvisto di servizi sanitari essenziali come, ad esempio, sale operatorie chirurgiche o assistenza intensiva neonatale. Nell’isola il dottor Pietro ha famiglia, gli amici d’infanzia e quelli che, prima di essere dei pazienti, sono i suoi concittadini.

Il dottor Bartolo è conosciuto come il medico dei migranti. Ne ha soccorsi a centinaia. È riuscito a strapparne tanti alla morte, ma a lui non basta. «Molti di più, purtroppo – racconta con gli occhi che si gonfiano di lacrime –, sono stati i cadaveri che ho dovuto ispezionare. E spesso erano corpicini. A ognuno di questi, lo confesso, ho fatto un segno di croce sulla fronte, come per battezzarli. Non avrei mai pensato potesse capitarmi. Proprio a me che, per una vita, i bambini li ho fatti nascere». Quando iniziano gli sbarchi, in quell’inferno di sofferenza che cambierà per sempre l’isola e i suoi abitanti, non ci sono altri che lui. Il ministero degli Interni lo nomina «coordinatore di tutte le problematiche sanitarie riguardanti lo sbarco di clandestini extracomunitari nelle Pelagie». E, in più, «responsabile delle attività di medicina legale».

Mai fermo, il «duttù». Soprattutto da una certa mattina. È il 3 ottobre 2013. Vita e morte si intrecciano insieme, ancora una volta, per Pietro. Quel giorno non è in ambulatorio. Due settimane prima era stato colpito da un’ischemia cerebrale. I colleghi gli prescrivono riposo assoluto. «Dottore, c’è stato un naufragio. Può darci una mano?» gli chiedono al telefono. Per quattro giorni non rimarrà fermo un momento. Giorno e notte, ininterrottamente, da quel giovedì mattina. «Non potevo rimanere a casa mentre c’era gente che moriva».


Tra i tanti in prima linea, cittadini, uomini e donne delle istituzioni, forze dell’ordine. Come il comandante della Guardia Costiera, Giuseppe Cannarile. «Il mio compito, e quello dei miei uomini, è salvare vite umane. Siamo dotati di mezzi potenti e adeguati, ma ci attende una stagione di grande emergenza. L’affronteremo, come sempre, senza risparmio, con tutte le nostre forze. Un collega del Friuli-Venezia Giulia mi ha detto, nei giorni scorsi, al telefono: “Siamo entrambi in luoghi di frontiera”. Gli ho risposto: “No, a Lampedusa siamo in trincea”». Cannarile ha una bimba di 3 anni. Per giorni ha visto il papà solo dalla finestra, mentre presidiava la zona del molo coperta di cadaveri. «Non c’era tempo, nemmeno di dormire. Una sera sono rientrato per pochi minuti. Sul divano ho visto, allineate, alcune bambole, tutte coperte da un fazzoletto, come fosse un sacco. “Così guardi anche me”, mi ha detto mia figlia».
 
Non si nasce tra i dammusi
L’Italia finisce qui. Oltre c’è solo il mare. Non è facile vivere a Lampedusa. Sono in tanti, soprattutto giovani che, negli ultimi anni, hanno lasciato l’isola. Scarse prospettive di lavoro, costi altissimi della sanità, ma anche dei beni di prima necessità, dai generi alimentari alla benzina. A Lampedusa e Linosa, 25,83 km quadrati di superficie, ci sono 6.299 abitanti, 1.021 gli studenti. Per chi si iscrive alle superiori c’è solo il liceo scientifico. Ma non tutti i ragazzi sono portati. Si assiste così a molti abbandoni. Se qualcuno vuol studiare altro deve trasferirsi in Sicilia o in altre regioni. È stata chiesta l’attivazione di un istituto superiore a  indirizzo tecnico o professionale. Dal prossimo anno, vista la realtà enogastronomica e i servizi di ospitalità alberghiera, potrebbe partire, finalmente, un corso di studi turistico-alberghiero.

A Lampedusa si muore, ma non si nasce. Oltre a mancare l’ospedale manca anche una sala parto. «Gli ultimi due nati lampedusani sono i figli di donne, in stato di travaglio, salvate dai naufragi» afferma Franca Parizzi, assessore alla sanità e medico. Franca non è di Lampedusa. Lei è nata in Brianza. Nell’isola ci veniva solo in vacanza. Poi se n’è innamorata e ci è rimasta. «No, non tornerei mai indietro. La mia vita è qui, anche se, lo riconosco, da queste parti è difficile vivere». Le donne che devono dare alla luce un figlio non possono farlo a Lampedusa. Devono andare a Palermo, la città con servizi ospedalieri più veloce da raggiungere. Due i voli giornalieri, alle 7 e alle 16, a bordo di un piccolo aereo che ci impiega in media un’ora. Un parto, alla fine, può costare anche 10 mila euro. Incluso il soggiorno in albergo per chi deve accompagnare la futura mamma. «L’idea di un reparto maternità nell’isola non avrebbe senso – spiega Franca Parizzi –. Sarebbero costi troppo elevati, non giustificabili. Si potrebbero piuttosto aumentare, e migliorare, i collegamenti, soprattutto dal punto di vista dei costi. Oppure, come stiamo facendo, prevedere un rimborso spese».

Stesso discorso per le visite specialistiche o per le sedute di chemioterapia se si è malati di cancro. «Sono esborsi altissimi e continui per un malato e la sua famiglia. Stiamo pensando all’attivazione di una struttura a Palermo dove i famigliari dei pazienti possano alloggiare, a prezzi accessibili, garantendo così l’assistenza necessaria ai loro cari». Tra quanti non hanno abbandonato l’isola, il vicesindaco Damiano Massimiliano Sferlazzo, una laurea in Scienze naturali, conservazione della natura e delle sue risorse. «Potevo andarmene a fare il mio mestiere in qualsiasi altra città – afferma –. Ho deciso, invece, di rimanere. Lavoro alla stazione Enea. Sono orgoglioso di essere lampedusano. Sento l’obbligo di restituire, anche in termini di impegno, ciò che quest’isola sta dando non solo a se stessa, ma al mondo».

Altro lampedusano per nascita e per scelta è Giorgio, 26 anni. Ha frequentato un corso biennale a Torino per diventare calzolaio. Un lavoro artigianale umile, poco remunerativo. Ma lui è convinto che certi mestieri non possano andar perduti. Vorrebbe realizzare un modello di calzatura tipica dell’isola. Gli piacerebbe poter aprire un piccolo negozio entro la fine dell’anno. A dare una mano alle varie attività promosse dalla parrocchia di San Gerlando, guidata da don Mimmo Zambito, coadiuvato dal vulcanico don Giorgio Casula, sono arrivate a marzo anche tre suore della congregazione di don Morinello. «Siamo pronte a dare una mano. La gente ha voglia di fare, di partecipare». Incontriamo suor Veronica, suor Maria e suor Paola in chiesa. All’interno anche una piccola statua di sant’Antonio a cui i lampedusani sono molto devoti.
 
«Mi chiamo Seydou»
«Nene (mamma, ndr). Sono Seydou». Dall’altra parte risponde mamma Sira. Il volto, possiamo immaginare, le si schiude in un sorriso. Ogni lunedì lascia il suo villaggio e percorre chilometri e chilometri a piedi, nella polvere, per poter sentire al telefono la voce di suo figlio. La prima volta si è messa a piangere. Per mesi lo aveva creduto morto assieme ad alcuni degli amici con cui era partito dalla sua terra. Ha varcato i confini di ben cinque Stati: Senegal, il suo Paese, Mali, Burkina Faso, Niger e Libia, quest’ultimo il peggiore, prima di arrivare in Italia. Al suo villaggio Seydou, 16 anni, faceva il pastore. Qualche volta gli capitava di giocare a calcio, gli piaceva. In cuore, però, sognava una vita diversa. Così un giorno ha deciso di andar via. Non sapeva ancora che lo attendeva un viaggio lunghissimo.

Seydou è uno tra i migranti intercettati, il 4 gennaio scorso, a bordo di cinque barconi, a sud est di Lampedusa. Finisce prima al Centro di Augusta, poi a Messina. Mentre Seydou è in viaggio, da tempo una famiglia di Lampedusa si sta preparando, senza saperlo, ad accoglierlo. Una famiglia emblematica per comprendere a fondo la grandezza d’animo degli isolani da sempre aperti all’accoglienza.

Piera e Bartolomeo (Lillo) Maggiore sono sposati da 21 anni. Hanno due figlie, Maria di 23 ed Eleonora di 18. Durante gli sbarchi non sono mai rimasti a guardare. Si sono rimboccati le maniche. Sono corsi al molo con coperte e bevande calde. Più di qualche sera, in casa Maggiore, la tavola è stata apparecchiata per 10-15 migranti. «Non abbiamo mai chiuso le nostre porte». Da tempo Piera e Lillo chiedono di poter fare di più. E così presentano domanda per avere in affido uno dei ragazzi che giungono a Lampedusa. La burocrazia, però, sembra mettersi di traverso. Almeno fin quando, una mattina, non arriva la telefonata tanto attesa. «Dopodomani arriva un ragazzo senegalese. Si chiama Seydou». «Seydou è giunto da noi il 10 gennaio scorso – racconta Piera –. Ora va a scuola. Frequenta la terza media. Eleonora, ma anche i compagni, gli danno una mano nei i compiti. In casa rispettiamo le sue abitudini, il suo credo religioso». Lillo, per aiutarlo a inserirsi, lo iscrive alla società di calcio, Asd Lampedusa Libera. Tre allenamenti la settimana più partita domenicale, in un campo di proprietà della parrocchia. I volontari lo hanno sistemato e recintato con grandi reti recuperate dai barconi.

Il nostro viaggio si conclude in questo fazzoletto di terra, poco lontano dal mare. Sono tanti i ragazzi impegnati, dalla squadra Primi Calci agli Under 18. Seydou è stato accolto a braccia aperte. Non manca mai agli allenamenti che si chiudono, di rito, con una breve partitella. Stasera, però, rischia di finire a reti inviolate. Almeno finché qualcuno non trova il guizzo vincente. Seydou segna, di destro, il gol della vittoria. Gli occhi si illuminano. La bocca si spalanca in un sorriso. Difficile rimarginare le ferite, impossibile cancellare certe cicatrici. Eppure in quest’isola si continua a salvare e ad accogliere.

Si continua a parlare il linguaggio della speranza e dell’accoglienza. Fuori o dentro l’emergenza, Lampedusa continua a tessere e a restituire umanità.

Vengono in mente i versi che Alda Merini ha donato all’isola (in occasione dell’inaugurazione della «Porta di Lampedusa – Porta d’Europa») in ricordo di chi, su queste spiagge, non è mai arrivato: Una volta sognai / di essere una tartaruga gigante / con scheletro d’avorio / che trascinava bimbi e piccini e alghe / e rifiuti e fiori / e tutti si aggrappavano a me, / sulla mia scorza dura. / Ero una tartaruga che barcollava sotto il peso dell’amore / molto lenta a capire / e svelta a benedire. / Così, figli miei, / una volta vi hanno buttato nell’acqua / e voi vi siete aggrappati al mio guscio / e io vi ho portati in salvo / perché questa testuggine marina / è la terra / che vi salva / dalla morte dell’acqua. La vita, non solo a Lampedusa, ricomincia da qui. Da una terra che salva.


L’odissea del vecchio e del giovane migrante
 

Cronaca di un incontro, nella redazione del «Messaggero di sant’Antonio», tra chi è partito dall’Italia e chi ha fatto il percorso inverso quarant’anni dopo. All’insegna dell’accoglienza.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017