Antidoto Dancalia

Nell'Africa orientale, al confine tra Etiopia ed Eritrea, si estende un deserto di lava e sale abitato da gruppi di allevatori nomadi. Un popolo che, a dispetto della sua pessima fama, conosce bene il rispetto del prossimo e il valore dell’ospitalità.
30 Gennaio 2014 | di

Da qualche anno torno, con ostinazione, in Dancalia. Devo spiegare: gli italiani, ai tempi delle colonie, hanno chiamato Dancalia il frammento orientale della regione degli afar, popolazione dispersa tra Etiopia, Eritrea e Gibuti.

Un deserto di sale e lava. Una regione di 50 mila chilometri quadrati, 10 mila dei quali sotto il livello del mare. Siamo in Africa orientale, tra il 15° e il 12° parallelo Nord, sul confine tra Etiopia ed Eritrea, Paesi che da sedici anni non riescono a trovare una vera pace. Vado in Dancalia ad accompagnare gruppi di turisti. Ho perfino scritto un libro su questa terra. Sulla sua copertina ci sono due uomini, due silhouette nere, con alle spalle la scenografia fiammeggiante, meravigliosa e terribile, dell’Erta Ale, la «montagna che fuma», uno dei quattro vulcani perennemente attivi del mondo. Le copertine, si sa, cercano sempre di sorprendere…

Questa è una terra fragile. Qui s’incrociano tre faglie tettoniche. La Dancalia è figlia di un cataclisma geologico. Qui la Rift Valley entra in Africa e, come un colpo di rasoio, da Nord a Sud, per oltre 8 mila chilometri, taglia in due il continente. Appena 5 chilometri sotto i nostri piedi mugghia il magma terrestre. È una dorsale di vulcani, la Dancalia. Qui si vede la Terra pulsare, arrabbiarsi, creare una tremenda bellezza. Qui si assiste ancora alla genesi del Pianeta. Tra qualche milione di anni, la Rift Valley spezzerà in due l’Africa. Nascerà una nuova, immensa isola nell’Oceano Indiano e il mare riempirà nuovamente la depressione dàncala. Sarà un ritorno: 80 mila anni fa un grande golfo, a causa di un immenso sollevamento di montagne, lentamente si prosciugò, lasciando in eredità un deserto di sale vasto 600 chilometri quadrati.

Non esistono censimenti attendibili nelle terre della Dancalia. Gli afar (o dàncali), separati dai confini di tre Stati, sono circa un milione e mezzo, ma in questo angolo estremo della loro regione non dovrebbero esserci più di 30 mila persone. Abitano villaggi solitari e, a volte, mobili, formati da capanne familiari, costruite con stuoie di foglie di palma e dalla volta a cupola. Praticano un nomadismo circolare, seguono l’andamento delle piogge e la breve fertilità dei pascoli. Gli afar sono un miracolo: la loro crescita demografica è sempre stata modesta, la loro economia è, di fatto, inesistente per il mondo moderno. Sono pastori e allevatori alle prese con l’ostilità di un clima e di un territorio. Hanno sempre vissuto ai margini della storia, inseguiti da una malvagia fama di selvaggi e predatori. Non hanno eretto templi o santuari. Didier Morin, antropologo francese, ha scritto che sono ben pochi i popoli africani ad aver subito «una negazione culturale così radicale». Privi di storia scritta e anche di cantori che ne abbiano raccontato le leggende, fino a pochi decenni fa gli afar di scritto non avevano nemmeno una lingua.
 
Contro gli stereotipi
Oggi è facile andare in Dancalia. I cinesi, come in mille altre parti dell’Africa, hanno costruito strade. La modernità è arrivata, quasi di botto, dietro alle benne dei caterpillar degli ingegneri di Pechino. In questi deserti di lava sono arrivate le multinazionali (canadesi, tedesche, indiane) in cerca di minerali (potassio, oro, forse litio, forse petrolio). In cinque anni ho visto cambiare gli orizzonti di questa terra. I turisti vi cercano ancora l’ultima avventura africana. In realtà vi passano non più di dieci giorni.

A volte cerco di spiegare che cos’è la Dancalia per me. E, da tempo, uso una sola parola: antidoto. La Dancalia è un antidoto contro ogni stereotipo occidentale attorno all’Africa. Per decenni e decenni la sua gente è stata disprezzata e temuta. Gli afar erano i guerrieri che tagliavano i testicoli dei loro nemici e vivevano dove nessun altro sarebbe sopravvissuto. Quanto ai paesaggi della Dancalia – una scenografia estrema e «da inferno» –, fino ai primi decenni del ’900 sono stati l’ultima vera «chiazza bianca» sulle mappe delle esplorazioni coloniali del continente africano. Questa terra è semplicemente diversa. Diversa da ogni altra.

Molti anni fa m’incamminai a piedi verso la depressione di Afar. Era la sola maniera che conoscevo per raggiungere la Piana del sale, cuore di questa regione. Assieme a due compagne di viaggio, mi ero prefisso di seguire le carovane dei cammellieri che, da sempre, scendono dall’altopiano etiope per strappare il sale all’antico fondo marino prosciugato. Partimmo che era ancora notte fonda. Non avevamo la minima idea di che cosa ci attendeva.

All’alba, oltre una collina, apparve un uomo. Aveva capelli lunghi e arricciati. Sedeva tranquillo sotto un’acacia spinosa e, di tanto in tanto, smuoveva le braci di un piccolo fuoco. Mohammed era (ed è ancora) un barista. La sua capanna sorgeva lungo la pista delle carovane. Si passava davanti alla sua casa per andare verso il deserto di sale. E lui offriva tè. Avrei imparato, in seguito, il suo soprannome: Mohammed Tchai Tchai (Mohammed Tè Tè). Era un uomo magro, ossuto, dalla faccia a spigoli. E aveva un sorriso disarmante. Non appena ci vide si mise a sfaccendare con tazzine di plastica, poi riempì di acqua una teiera annerita dal fuoco. Ricordo ancora con nostalgia quel tè. Sul momento presi tra le mani un articolo che mi ero portato in viaggio. Era stato scritto da un celebre giornalista e descriveva con queste parole gli afar: «Feroci come il deserto, spietati perfino con se stessi, elusivi come una cupa leggenda». Alzai gli occhi e guardai Mohammed che continuava a sorridere. Il «feroce» afar era un uomo gentile e premuroso. Attorno a lui zampettava un bambino. Appallottolai le pagine di quell’articolo e le gettai nel fuoco.

Ogni volta che torno in Dancalia mi fermo (e con me porto anche i turisti) alla capanna di Mohammed. Oramai ne conosco i nipoti. L’ultima volta sua moglie ha tirato fuori eleganti bicchieri in vetro arabescato per offrirci il tè. Al solito, non ha voluto essere pagata.
 
Colloqui di silenzio
Fa bene visitare la Dancalia. Me lo spiegò con lucidità un giovane scrittore spagnolo: egli avvertì che, cercando avventure, «non saremmo mai andati oltre la superficialità». Mi disse ancora: «Il sole bianco e rovente, l’indifferenza degli afar, la monotonia di un deserto privo di colori ti faranno sentire nudo e impotente». Poi il ragazzo consigliò: «Devi difenderti in Dancalia. Devi mostrare a te stesso di avere un’anima di poeta. Si va in Dancalia per cambiare punto di vista».

Ogni volta che mi siedo su una pietra accanto a Mohammed lo guardo, facendo in modo che lui non se ne accorga. Stiamo invecchiando entrambi. Niente mi unisce a lui. Nella sua lingua ho imparato solo a dire gheddeghè, «grazie». I nostri colloqui sono fatti di silenzi. I nostri valori sono lontani anni luce. Eppure, io mi sento legato a quest’uomo. La sola possibilità che abbiamo è quella di riconoscere la nostra diversità. Una volta chiesi a Mohammed se potevo fotografarlo: egli si alzò, svanì dentro la capanna a igloo e ricomparve con una camicia bianchissima made in China, con su stampigliato un fantastico drago alato nero. Non aveva dimenticato il jile, il lungo pugnale ricurvo degli afar. Sul manico c’era un fiore di plastica rosso. Gli antropologi mi avevano spiegato che era il simbolo dei nemici uccisi. Ma a me parve un vezzo di eleganza.

Un altro personaggio conosciuto durante i miei soggiorni in Dancalia è Derder Eto. Brusco, altezzoso, taciturno. Un capo. Alto e robusto, per essere un afar. Fu la prima guida (mia e degli altri turisti) quando salimmo sull’Erta Ale. Per un’intera notte ci fece prendere confidenza con un mondo di fuoco. Guardò assieme a noi quel lago di lava che ci ipnotizzava. Fu attento alle nostre distrazioni. Anche lui, a modo suo, era premuroso. Alla fine, ci accompagnò al riparo di alcune pietre (allora non vi erano capanne in vetta al vulcano) e ci aiutò a preparare i giacigli. Più tardi lo sentii muoversi. Si era alzato, aveva fatto pochi passi. Doveva conoscere i punti cardinali. Nel buio s’inginocchiò verso Oriente. Vedevo solo un’ombra nera, ma sentivo il suono dei suoi sussurri. Una preghiera. Derder piegò la testa fino a terra. Ho sempre rimpianto di non essermi unito a lui. Come avrei voluto pregare insieme: «Sia benedetta questa terra!».
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017