12 Febbraio 2017

Alla faccia della forza…

«Quando sono debole, è allora che sono forte» dice perentorio san Paolo. E cioè? Che cosa dobbiamo imparare da un Dio che rinuncia alla sua onnipotenza in nome della sua misericordia?
l'edera cresce bucando il metallo

© JoseABernat/GettyImages

«Gentile direttore, sono abbonato da lungo tempo, o meglio, il “Messaggero” è sempre stato un giornale di casa che ci siamo tramandati di padre in figlio. Ora il padre sono io, anzi ormai quasi il nonno, almeno per l’anagrafe... Devo ammettere che il mio “problema” è proprio legato al passare del tempo. Non so fare pace con la nuova debolezza con cui mi ritrovo a fare i conti giorno dopo giorno, con le forze che non sono più quelle di una volta, sfiduciato. Per andare avanti nei miei impegni mi faccio forza pensando alla forza di Dio, ma è ancora poco. Sto un po’ ingarbugliato, mi aiuti lei se può, con una parola buona».

Lettera firmata

 

«Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10): l’affermazione di san Paolo è perentoria. Come in pochi altri casi riesce però a sintetizzare magistralmente il modo di procedere di Dio. Quel Dio la cui forza «infatti, non sta nel numero, né sui forti si regge il tuo Regno: tu sei invece il Dio degli umili, sei il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 9,11), perché, a differenza di noi che vediamo l’apparenza, egli «vede il cuore» (1Sam 16,7).

Certo, e di conseguenza oltretutto, tra le pagine della Bibbia ricorre spesso l’invito a farci pure noi «rifugio dei poveri»: «Beato l’uomo che ha cura del debole: / nel giorno della sventura il Signore lo libera» (Sal 41,2); «Vi esortiamo, fratelli: (…) sostenete chi è debole» (1Ts 5,14); «Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi» (Rm 15,1; cf. At 20,35); e via dicendo. Altrettanto certo che mai nella Bibbia si afferma esplicitamente che lo stesso Dio sia in qualche modo debole (eventualmente è «grande, forte e terribile»: Dt 10,17). Ma come altro possiamo definirlo un Dio che rinuncia alla sua onnipotenza in nome della sua misericordia? Quasi si «ritira» per far spazio alla sua creatura, crea­ta libera anche di dire di no? Si mette letteralmente nelle nostre mani, e la sua Parola, per risuonare ancora, ha bisogno del nostro fiato e di qualcuno che apra il libro? E che dire di Gesù Bambino a Betlemme? E Gesù in croce? Alla faccia della forza…

Ben a ragione Chiara e Francesco d’Assisi possono meravigliarsi di questo Dio: «O mirabile umiltà, o povertà che dà stupore! Il Re degli angeli, il Signore del cielo e della terra è reclinato in una mangiatoia» (FF 2904)!

Allora, quando le Fonti Francescane, e lo fanno spesso (cf. FF 132, FF 1231, FF 1619, FF 3279), descrivono Francesco e Chiara con la categoria della «debolezza», capita senz’altro perché è un luogo comune nelle vite dei santi. Ma molto più perché la loro debolezza è piuttosto segno della forza e dell’amore di Dio: perciò ce se ne può vantare!

«Cristo gli disse [a Francesco]: “Perché ti turbi e ti rattristi tanto, Francesco? Io ti ho chiamato dal mondo, idiota com’eri, malaticcio e semplice, per manifestare in te la mia sapienza e potenza”» (FF 2147). Debolezza che in Chiara e le sorelle diventa evangelicamente «forza»: «Francesco, osservando attentamente che, pur essendo deboli e fragili nel corpo, non ricusavamo nessuna indigenza, povertà, fatica, tribolazione, o ignominia e disprezzo del mondo, anzi, al contrario, li ritenevamo grandi delizie sull’esempio dei santi e dei suoi fratelli, avendoci esaminato frequentemente, molto se ne rallegrò nel Signore» (FF 2832).

«Ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,25)!

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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