Una Basilica, un santo e…

Prosegue il nostro viaggio all'interno del Santuario dedicato ad Antonio. In questo numero vediamo come la Basilica racconta, attraverso le opere d’arte in essa conservate, la vita del Santo.
30 Gennaio 2014 | di

Un edificio sacro non è un cumulo di pietre disposte secondo le leggi della statica e l’estro dell’arte. La forma e gli slanci a esso impressi danno voce alle pietre. E quelle che compongono la Basilica antoniana sono lì da oltre otto secoli a parlarci, in prima battuta, di colui alla cui memoria il Santuario è stato innalzato: sant’Antonio.

Delle vicende del Santuario diremo nella prossima puntata. Soffermiamoci ora a parlare di colui al quale esso è dedicato. Lo fanno anche i religiosi che accompagnano i pellegrini, partendo dalla Sala Priorale dell’Arciconfraternita di Sant’Antonio, al piano superiore della «Scuola del Santo».
 
Portoghese, di Lisbona
I dipinti offrono un eccellente supporto visivo al racconto. Uno di essi, attribuito a Bartolomeo Montagna, raffigura frate Antonio ritornato, per effetto della bilocazione (il misterioso trovarsi nello stesso tempo in due luoghi diversi), nella città natale, dove restituisce momentanea vita a un giovane assassinato, della cui morte è accusato il papà dello stesso Santo. Il risuscitato svela ai giudici il nome del vero assassino, discolpando l’accusato.

La città natale è Lisbona, in faccia all’Atlantico. Pur essendo detto «di Padova», sant’Antonio nel capoluogo euganeo ha trascorso un tratto brevissimo della vita, due anni circa. Una presenza importante, ma limitata nel tempo. Lisbona, dunque: il Santo vi nacque nel 1195. Di nobile famiglia, Fernando (è il suo nome di battesimo) avrebbe dovuto seguire le orme del padre Martino, cavaliere del re. Ma alle armi e agli onori egli preferiva la preghiera e lo studio. Entrò quindi nel monastero dei canonici agostiniani di Lisbona e poi in quello di Coimbra, dove fu ordinato sacerdote.

L’arrivo in città delle salme dei francescani martirizzati per Cristo in Marocco sconvolse la sua vita. Alcuni giorni dopo, chiedeva ai seguaci di Francesco d’Assisi di indossare il loro saio per poter andare ad annunciare il Vangelo, pronto anche al martirio. Accolto nell’Ordine con il nome di Antonio, raggiunse il Marocco, ma insistenti febbri lo costrinsero all’inazione e quindi a rinunciare al suo progetto. Sulla via del ritorno, un fortunale lo fece naufragare sulle spiagge della Sicilia nei pressi di Milazzo. Ospitato nel vicino convento francescano, si aggregò ai frati diretti ad Assisi, dove Francesco aveva radunato l’Ordine. È il «Capitolo delle stuoie» del maggio 1221, al termine del quale lo sconosciuto frate portoghese, essendo sacerdote, fu mandato a Montepaolo, nei pressi di Forlì, perché celebrasse Messa e prestasse assistenza spirituale ai frati che dimoravano nell’eremo. Mentre era qui, per la defezione del predicatore incaricato di recitare l’omelia a un’ordinazione sacerdotale nella cattedrale di Forlì, Antonio fu invitato a sostituirlo. Riluttante, salì sul pulpito, pronunciando un discorso che suscitò grande ammirazione per l’acutezza del ragionare e la vastità della dottrina.

Giunto a Padova, affrontò anche il tiranno Ezzelino da Romano per perorare, invano, la causa di alcuni giovani padovani suoi prigionieri, destinati a una fine crudele. Predicatore efficace, sostenuto da una cultura umana e teologica di rilevante spessore, da grande capacità di comunicare e da una limpida testimonianza di vita, frate Antonio attirava folle incredibili, soprattutto alle prediche che teneva per quaranta giorni in preparazione alla Pasqua, inaugurando l’ancora viva tradizione della predicazione quaresimale. L’ultima quaresima, vissuta a Padova nel 1231, lo affaticò a tal punto da costringerlo a ritirarsi nell’eremo di Camposampiero (PD). Riposo relativo: la gente, saputo della sua presenza, fece ressa attorno al noce tra le cui fronde Antonio s’era fatto costruire una celletta per stare solo con Dio, reclamando la sua parola.

Le stressanti fatiche aggravarono le sue condizioni di salute già precarie. Sentendo imminente la fine, chiese di essere riportato a Padova. Morì alle porte della città, nella località oggi chiamata Arcella, il 13 giugno dello stesso anno.
 
La forza delle immagini
Il frate che accompagna i pellegrini nella visita alla Basilica, richiama in genere solo alcuni dei dipinti della Sala Priorale. Qualcuno di essi  ripercorre tratti della biografia del Santo. Come quelli, non bellissimi a dire il vero, di Gian Antonio Corona e di Antonio Buttafoco. Il primo raffigura, in due quadri, frate Antonio che giunge a Padova, dove porta la pace tra i cittadini, e il drammatico incontro con Ezzelino da Romano; il secondo, gli ultimi istanti di vita del frate.

Con maggior perizia Girolamo Tessari celebra le esequie del Santo, raffigurato in un altro dipinto da Filippo da Verona mentre appare, qualche anno dopo la morte, a fra Luca Belludi per annunciargli la liberazione della città dalla tirannia di Ezzelino. Bartolomeo Montagna affresca la presunta seconda ricognizione delle spoglie mortali di sant’Antonio nel 1350, presente il cardinale Guy de Boulogne. Si tratta in realtà di un «falso storico», rivelato dall’indagine ricognitiva del 1981 (la seconda in assoluto) quando i periti hanno certificato che nessun’altra ricognizione è avvenuta dopo quella del 1263, presenziata da san Bonaventura, nel corso della quale venne rinvenuta la lingua incorrotta del Santo.

Altre pitture illustrano i «miracoli» che hanno accompagnato la predicazione del Santo. Come la presenza reale di Cristo nel pane e nel vino dell’Eucaristia, «testimoniata» da una mula che, digiuna da giorni, schivò il mucchio di biada preparato e andò a inginocchiarsi davanti all’Ostia consacrata, lasciando di stucco l’eretico che, sicuro del contrario, aveva sfidato frate Antonio. Il dipinto è attribuito al Tessari, autore anche dell’affresco in cui un altro eretico, Aleardino, dice ai padovani, di cui è ospite, che crederà alla santità di Antonio solo se questi farà rimanere intatto il bicchiere di vetro che lui scaglierà a terra. Il bicchiere, conservato nella Cappella delle Reliquie, non si infranse. Si infranse invece il muro di incredulità dell’eretico. Il racconto della vita di Antonio prosegue con la raffigurazione di altri miracoli.

Tessari lo raffigura mentre richiama in vita un bimbo caduto in una pentola d’acqua bollente. In Domenico Campagnola la risuscitata è una ragazza, anch’essa annegata, come il bimbo dell’affresco di Gian Martino Frangipani. La famiglia è al centro di tre episodi raccontati da Tiziano, uno dei grandi maestri del Cinquecento, al quale è attribuito anche l’affresco con il guardiano della Confraternita che distribuisce il pane benedetto. Tiziano affronta episodi che sembrano usciti dalle cronache dei nostri giorni: il marito geloso che pugnala la moglie; un altro marito che sospetta che il bimbo dato alla luce dalla moglie non sia suo; il giovane che, dopo aver confessato al Santo di aver assestato un calcio a un genitore, prende sul serio l’ammonimento del confessore – il piede meriterebbe di essere tagliato – e si recide l’arto, poi da frate Antonio prodigiosamente riattaccato. Del fratello di Tiziano, Francesco, è la storia dell’usuraio il cui cuore, dopo la morte, viene ritrovato, su indicazione del Santo, nello scrigno nel quale egli custodiva gelosamente quei tesori ai quali aveva dedicato la vita, a danno dei debitori, soffocati con il capestro dell’usura.

A questo punto i pellegrini hanno le idee un po’ più chiare sulle vicende umane e spirituali di questo straordinario seguace di san Francesco d’Assisi.
 

Zoom
Il pane del miracolo

 
Due dei dipinti descritti sono legati a una delle iniziative antoniane di carità più conosciute. Il primo è quello attribuito al Tessari, nel quale è narrato il ritorno in vita di un piccino, Tommasino. Il fatto è dettagliatamente raccontato in una delle prime biografie del Santo, la Rigaldina. In sintesi: il piccolo, ventidue mesi, incautamente lasciato solo dalla mamma, cade in una pentola di acqua bollente e annega. La disperazione della mamma è alle stelle. Poiché abita nei pressi della chiesa del beato Antonio, da poco scomparso, le è naturale rivolgersi a lui, supplicandolo di ridare la vita al piccino. Fa anche voto di distribuire ai poveri la quantità di grano corrispondente al peso del bimbo, se il miracolo si compirà. Il miracolo avviene e il grano offerto si tramuta in pane per i poveri. Nasce così la tradizione mai interrotta de «il pane dei poveri», che Tiziano ha ricordato ritraendo il guardiano della Confraternita mentre distribuisce il pane, oggi diventato qualcosa di più idoneo ad alleviare il disagio di chi fatica a vivere.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017