Ti odierò per sempre?

È possibile confrontarsi con un nemico irriducibile? Che cosa provoca un conflitto non risolto ai singoli e alla società? Vie percorribili per affrontare e prevenire un conflitto insanabile.
08 Marzo 2016 | di

La sala è gremita e il silenzio è di cristallo. In fondo ai gradoni dell’auditorium due donne attendono di parlare. Sta accadendo un evento che fino a ieri si poteva considerare impossibile, inaccettabile, quasi sacrilego. Agnese Moro, la figlia di Aldo, statista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, dialoga con Maria Grazia Grena che negli anni di piombo faceva parte di un gruppo eversivo. Tra loro c’è una misteriosa intesa, qualcosa di molto simile all’amicizia. Eppure rappresentano due mondi contrapposti, lontani, incommensurabili: quello della vittima e del colpevole. Siamo nel carcere Due Palazzi di Padova in un convegno per giornalisti, organizzato dalla rivista «Ristretti Orizzonti». L’attesa è alle stelle perché solo qualche giorno prima un evento analogo, organizzato a Scandicci (FI) nella Scuola superiore della magistratura, era stato cancellato tra le proteste. È naturale domandarsi perché l’incontro tra quei due opposti è ancora una bestemmia e perché invece qualcuno si ostina a costruire ponti a quarant’anni di distanza. Ma la domanda forse più intrigante è capire se noi c’entriamo in questa storia. Noi che non riusciamo a dialogare nemmeno con il vicino di pianerottolo, incastrati come siamo nella paura dell’altro e abituati alla spettacolarizzazione del conflitto.

Il segreto che lega Agnese e Maria Grazia è un percorso che dura da quasi otto anni, guidato dal gesuita Guido Bertagna e dagli studiosi Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato. Un percorso arduo, «un cammino che si è imposto» – lo definiscono i protagonisti –, fatto di scontri aspri, di progressi e repentine regressioni, di tensioni e inspiegabili intese, che oggi è confluito in un volume dal titolo essenziale Il libro dell’incontro (Il Saggiatore). Esso raccoglie le voci di tutti i testimoni di quegli anni, dall’una e dall’altra parte della barricata, un insieme di persone eterogeneo che ha scelto di chiamarsi semplicemente «Il Gruppo».

Agnese Moro rompe il silenzio e scaglia la prima pietra contro l’ovvio: «Io dalla giustizia penale ho avuto tutto quello che poteva darmi. Secondo il sentire comune dovrei stare bene. Ma non è così. La giustizia si occupa del reato ma non del male che il reato lascia». Maria Grazia Grena arriva a una conclusione uguale ma opposta: «Mi sono avvicinata al Gruppo quando credevo di essermi lavata, di aver pagato il mio conto con la giustizia: ero stata riabilitata, avevo un figlio e facevo molto volontariato in carcere. Eppure c’era ancora qualcosa d’irrisolto».

Cercando l’incontro L’esperienza inizia da una serie di incontri fortuiti. A raccontarne gli esordi è padre Bertagna: «Agli inizi del 2000 il mondo usciva da drammi terribili, causati da violenze e risentimenti a lungo covati: la guerra nell’ex Jugoslavia e i genocidi in Rwanda. Da qualche tempo, grazie al mio incarico di direttore del Centro culturale San Fedele di Milano, avevo avuto modo di incontrare sia vittime che ex appartenenti alla lotta armata. In ognuno di loro c’era un dolore che permaneva e un forte desiderio di dargli un senso che fosse di aiuto per gli altri e soprattutto per le nuove generazioni. Quel dolore così diverso e così uguale poteva essere messo in contatto».

Padre Bertagna non è solo in questo cammino. Con lui ci sono due amici, il criminologo Adolfo Ceretti e l’esperta di giustizia riparativa Claudia Mazzucato. Li unisce un interesse: «Eravamo affascinati dall’esperienza del Sud Africa del dopo apartheid, (in cui Nelson Mandela aveva evitato la guerra civile, istituendo un tipo di giustizia nella quale la verità è più importante della pena). Un punto luminoso per chi cerchi altre vie di giustizia». Tentare di applicare quel paradigma, il paradigma, cioè, della giustizia riparativa, a una delle esperienze più drammatiche e più irrisolte del nostro Paese come gli «anni di piombo» poteva divenire un processo di liberazione per molti e un’occasione per il Paese.

Ma liberare chi? E da che cosa? Nulla spiega meglio questo aspetto delle parole di Agnese Moro e Maria Grazia Grena.

«Il male che io vivo – afferma Moro – è una presenza ossessiva del passato. È come se una parte di me fosse legata a quel periodo con un elastico che continua a tendersi man mano che il tempo passa. Io non so se quell’elastico mi riporterà indietro di colpo o si spezzerà facendomi però perdere una parte importante di me. Il mio passato allora è come un sasso in gola, che copre un urlo che non riesco a esprimere. Però, quell’urlo che non esce si porta via tutto». Quell’urlo, liberato nel Gruppo, Grena lo ricorda bene: «Mi è arrivato dritto in faccia e non è stato facile. Un pugno nello stomaco. Possibile che non potevo più liberarmi di ciò che ero stata? In realtà io avevo tanto lavorato su me stessa, ma le vittime non le avevo mai incontrate. Anch’io ho potuto raccontarmi, e – incredibile – non solo sono stata ascoltata, ma sono stata accolta. È stato un grande regalo. Non siamo uguali, l’incommensurabilità permane, ma siamo tutti ex: tra noi non c’è più odio ed è difficile spiegare perché nonostante tutto siamo arrivati a volerci bene».

Creare uno spazio per un confronto così non è facile. Non si tratta tanto di ricostruire una verità storica, quanto di restituire uno spazio d’ascolto ai vissuti delle persone. «Il nostro obiettivo non è un’impossibile memoria condivisa – spiega Bertagna – ma una condivisione di memorie per capire come si è arrivati alla violenza e come evitare che quel male ritorni».

Il ruolo dei mediatori è delicato e fondamentale: «Abbiamo dovuto imparare “l’equiprossimità” – spiega Bertagna –, che non è l’equidistanza del giudice, ma è la capacità di stare accanto a entrambe le parti allo stesso modo». Nodi centrali di questo processo sono la capacità di ascoltare senza giudicare e la ricerca di un linguaggio accettabile per entrambe le parti: «Ci siamo chiesti, per esempio, se stavamo parlando di “lotta armata” o di “terrorismo”» afferma Bertagna, facendo intendere che le parole non sono mai neutre e possono diventare pietre.

Acquisiti gli attrezzi, il percorso è impervio ma ricco di colpi di scena. Il primo è scoprire che il dolore indicibile non riguarda solo le vittime, ma anche i figli degli ex che erano piccoli o non ancora nati al tempo dei fatti. «Portano un peso che condiziona le loro vite senza avere alcuna colpa, ma il loro dolore è invisibile» spiega Bertagna. Peraltro l’odio non disinnescato annienta anche i figli delle vittime. Giorgio Bazzega aveva 2 anni e mezzo quando suo padre Sergio, maresciallo, fu ucciso dal brigatista Walter Alasia: «Volevo andare a prenderli e ammazzarli. Tutti quelli che mi avevano privato di mio papà. Avevo anche iniziato la mia strada di distruzione con varie sostanze. Ero rimasto solo io, mia mamma e una rabbia mostruosa... mi stavo consumando».

Il secondo colpo di scena è scoprire che il mostro crudele che ti eri immaginato nelle tue notti di dolore non è un mostro. «Quando tu accetti l’incontro – spiega Moro –, scopri un volto che non ti aspettavi. Un volto di una certa età, che esprime emozioni e la difficoltà di una vita complicata. Un volto che non mente. Gli occhi hanno pudore di guardarti. Poi senti parole di dispiacere e dolore che non avresti mai immaginato. Credevo che il dolore fosse solo nostro, ma anche il loro è terribile: è il dolore di chi sa di averla fatta grossa e di non poter più riparare». Un dolore, per giunta, senza diritto di cittadinanza.

Ma c’è un terzo colpo di scena: scoprire che loro, i nemici di sempre, sono immersi nella stessa assordante solitudine. Un po’ come succede dopo i funerali: passati i processi, scontate le pene, nessuno ti chiede più come stai o ti aiuta a elaborare il lutto. «Noi, sia ex che vittime, siamo simboli di una storia – spiega Agnese Moro –, non possiamo essere noi stessi». Di fatto il contesto li vuole icone immobili, cristallizzate nel ruolo della vittima perenne e dell’assassino irriducibile e imperdonabile. Il dialogo, invece, rompe gli schemi, rimette le vite in gioco: «Il Gruppo è stato il primo luogo in cui io ho potuto essere Agnese».

Viaggio all’inferno Man mano che il percorso procede, nessun argomento, neppure il più spinoso, viene lasciato indietro. Comincia il viaggio agli inferi, nel cuore della violenza. Nel libro il racconto dei testimoni è un flusso di coscienza a più voci. Ed ecco il dolore: «La memoria di quegli anni è di incubi notturni, e io non volevo andare a dormire»; «Il dialogo con le vittime... rivela le conseguenze dei propri gesti sugli altri e questo può persino intensificare l’afflizione… ben più dell’intervallo vuoto della detenzione». La rabbia: «Tu, in quanto assassino, che cosa vuoi dare al Gruppo?». L’assurdo del male: «Se devo spiegare perché ho ucciso, è come se uccidessi per la seconda volta. È un dramma: non c’è un perché». Il tentativo di capire: «Sentivo allora che avrei fatto qualcosa per le generazioni future»; «Ero convinto di combattere la guerra che avrebbe annullato tutte le altre». La disumanizzazione: «Nel momento in cui si forma una macchina, quindi si forma un’organizzazione che ha un obiettivo, le emozioni personali non contano più niente». La pena peggiore: «Volevi portare la vita e hai portato la morte... Allora il carico che devi affrontare non è solo quello di aver tradito la vita, ma anche quello, ancor più pesante, di aver tradito te stesso». Il peso del male: «È osceno che noi siamo ancora vivi». La dichiarazione di resa: «Abbiamo perso... Ma se anche avessimo vinto... non era giusto utilizzare la violenza». L’assunzione di responsabilità: «Ciò che mi è chiaro è che si tratta di compensare un debito contratto: di questa opportunità ringrazio tutti».

Mentre i pensieri scorrono implacabili a riannodare i fili di quegli anni, incredibilmente ciò che unisce diventa sempre più significativo. Tanto che uno dei testimoni nel libro scrive: «L’indicibile per me è che tanto le vittime quanto gli ex sono comunità dolenti, accomunate, per quanto possa scandalizzare... dalla stessa sindrome da stress post-traumatico... dai volti di chi è morto e dei suoi congiunti, da quegli spari, da quelle coltellate, da quel sangue. Umanità sfibrate che marciano faticosamente verso l’incontro, come una luce in fondo a un tunnel». 

E cosa c’è in fondo a quel tunnel Bertagna cerca di spiegarcelo: «C’è che i fatti non si possono cambiare, ma si può cambiare il modo d’interpretarli, senza minimizzare e senza dimenticare. In questo modo il dolore prende senso, si apre al futuro, liberando le persone e dando ai colpevoli la possibilità di riparare».

Dopo l’incontro al Due Palazzi, due donne aspettano fuori dagli alti cancelli del carcere. Sono Agnese Moro e Maria Grazia Grena. Camminano a braccetto, quasi sostenendosi l’un l’altra. Come reduci di guerra nella terra di nessuno. Sono il simbolo di un nuovo giorno, dopo una lunga interminabile notte. Hanno fatto tanta strada per venirci a testimoniare che il male no, non ha l’ultima parola.  

ZOOMGiustizia riparativa

La giustizia riparativa è una forma alternativa di giustizia – utilizzata in Canada per la prima volta negli anni ’70 – che supera il modello tradizionale della punizione del reo e offre un paradigma capace di affrontare i conflitti provocati dal reato. Questa forma di giustizia mette al centro la vittima e ha lo scopo di restituirle dignità. Nel suo iter vengono coinvolte tutte le parti in causa: vittima, reo, comunità civile. Mentre la pena classica si fonda su tre principi: riaffermare la legge, difendere la società, rieducare il reo, la giustizia riparativa pone al centro la riparazione del danno e la ricostruzione del tessuto sociale danneggiato dal reato. Il passato non viene dimenticato, ma diventa la base per un’assunzione di responsabilità per il futuro. Il metodo della giustizia riparativa si basa su quattro regole: volontarietà di partecipazione, riservatezza, confidenzialità e gratuità. In Italia questo tipo di esperienza ha finora riguardato soprattutto la giustizia minorile.    

L'INTERVISTA: MANLIO MILANILa storia rivisitata  

Manlio Milani ha perso la moglie Lidia nella strage di piazza della Loggia a Brescia. Era il 28 maggio del 1974. Oggi è il rappresentante dei familiari delle vittime e il depositario della storia di quegli anni grazie alla Casa della memoria, di cui è presidente. Anche lui fa parte del Gruppo.

C’è chi pensa che l’incontro tra vittime e colpevoli tradisca la memoria di chi è morto. Per capire il male bisogna penetrarlo, non ignorarlo o allontanarlo. Costruire una memoria pubblica vuol dire ascoltare tutte le memorie. Purtroppo al nostro percorso manca una memoria, fondamentale: quella dello Stato.

A cosa è dovuto ciò? Nell’ambito delle stragi e del terrorismo sono tante le responsabilità istituzionali ancora nell’ombra, ma sarebbe un errore generalizzare. Se oggi abbiamo molte verità lo dobbiamo a quegli uomini dello Stato che hanno rispettato le regole democratiche, mentre il silenzio è proprio di chi non lo ha fatto. E quel silenzio pesa. C’è poi un secondo elemento: la storia ancora oggi è usata in modo strumentale, come una clava contro l’avversario, per tenerlo nella condizione del nemico. Avremmo invece bisogno di una storia pubblica che racconti tutte le memorie e che porti a capire che quelle vicende riguardano tutti.

Perché la società tende a mantenere vittime e colpevoli in ruoli distinti e cristallizzati? Perché avere l’icona del male subìto o inferto permette in alcuni casi di giustificare politiche di sicurezza che si basano solo sull’ordine pubblico. Mentre il tema è capire che una società umana deve sempre saper analizzare il male che la penetra per rafforzare continuamente il bene.

Che reazione hanno i ragazzi quando parla loro del Gruppo? Sono un po’ sorpresi e disorientati. Mi chiedono se si tratta di perdono, ma io spiego loro che il perdono non c’entra, l’esperienza serve a capire il perché dei fatti. Loro ne sono incuriositi: in una società individualizzata questa esperienza apre a una comprensione più ampia del male e del bene e arricchisce il valore delle scelte di bene.    

QUANDO IL CONFLITTO E' RELIGIOSO

di Claudio Zerbetto  L’esperienza del gruppo «Camminare insieme» di Fiorano Modenese per un dialogo interreligioso che supera diffidenza e paura.   «Charlie Hebdo» e il supermercato Kosher di Parigi. O il Bataclan. Sono solo alcuni dei luoghi che rimandano ad altrettanti atti di odio e violenza che il terrorismo internazionale vorrebbe attribuire a motivi di fede. Succede in diverse parti del mondo, dove Dio è «usato» per combattere e uccidere. L’odio jihadista, che diffonde terrore in nome dell’islam, ne è un esempio. Ma l’Isis non è l’islam. E nessuna religione è responsabile di una guerra. Occorre partire da questo per evitare possibili conflitti. Ingiusti e ingiustificati. Iniziando dal basso, dalla quotidianità. Con un dialogo che si coniughi con curiosità, relazione, scuola, cultura, identità. Una vera e propria sfida alla diffidenza e all’odio.

Come quella portata avanti dal gruppo «Camminare insieme» di Fiorano Modenese, fondato da Ruggero Cavani, per molti anni impiegato comunale, sposato, quattro figlie e nipoti. Siamo agli inizi del 1999 quando un gruppo di famiglie cristiane decide di riunirsi settimanalmente per un momento di preghiera e convivialità. Si incontrano il giovedì, alle 19, a casa dell’una o dell’altra, per la recita dei vespri e per mangiare insieme un semplice pasto. Vivono e lavorano a Fiorano e Sassuolo (Modena), zone conosciute per la produzione della ceramica. Nel distretto, per ragioni di lavoro, in questi ultimi vent’anni sono arrivate persone da ogni parte del mondo. La stragrande maggioranza, quasi il 70 per cento, proviene dal Maghreb ed è di fede musulmana. «Per questo motivo – spiega Ruggero – nei primi mesi del 2001 abbiamo dato vita a un progetto complesso, ma affascinante: incontrarci con alcune famiglie di fede musulmana».

Solo pochi mesi dopo, l’attacco alle Torri Gemelle sembra mettere in discussione ogni cosa. Inizia una strada tutta in salita. Ma Ruggero non si scoraggia. Grazie alla sua attività lavorativa nei Servizi sociali del Comune di Fiorano e l’impegno come amministratore a Sassuolo, conosce molti stranieri. Nasce così l’amicizia con Ouakili Abdelatif, mediatore culturale all’interno della comunità islamica. Attraverso di lui è possibile proporre al «gruppo del giovedì» l’incontro con altre persone di fede musulmana. Una volta al mese le famiglie di Abdelatif, Zahi e Mohammed cominciano a cenare con le famiglie cristiane, per scambiare informazioni e curiosità sulle rispettive esperienze culturali e religiose. «Volevamo passare – aggiunge il fondatore del gruppo “Camminare insieme” – dalle notizie, dalla diffidenza e dalla paura reciproca, alla conoscenza, all’incontro, all’ascolto, alla condivisione. Dalla convivialità e dalla fraternità siamo passati, quindi, alla ricerca di “parole comuni”, per esprimere la lode al Dio Unico, attraverso altri momenti di incontro».

In questi anni «Camminare insieme» è cresciuto e coinvolge oggi centinaia di persone. Tra le iniziative avviate, «Moschee aperte» e la visita di famiglie musulmane ai luoghi di culto cristiani: chiese, santuari o monasteri, come quello delle monache del Carmelo di Sassuolo. Con un’attenzione particolare ai momenti forti delle due religioni: Ramadan e Quaresima.

Altro che guerre sante, conflitti tra religioni. «L’obiettivo del nostro gruppo – sottolinea Ruggero – non è mai stato il proselitismo, ma il vero dialogo alla ricerca di ciò che unisce, senza dimenticare ciò che ci rende differenti. Non stiamo con “loro”, né “loro” con noi, perché ci vogliamo convertire a vicenda, bensì perché viviamo nello stesso territorio, condividiamo la stessa fede nel padre Abramo e vogliamo che i nostri figli crescano nella pace e nel rispetto reciproco».

I figli, i giovani. Anche loro sono coinvolti in questa esperienza di dialogo, dove servono fedi mature, «altrimenti il confronto si riduce a un confuso coacervo di voci religiose». Una partecipazione che ha coinvolto negli anni anche le figlie di Ruggero: Anna, Maria, Marta e Sara. E tanti altri, come il gruppo giovani salesiano «Amici del Sidamo» dell’oratorio Don Bosco di Santa Croce a Reggio Emilia. «Il futuro del dialogo sono loro, inseriti appieno nella società a partire dalla scuola. Sono la nostra speranza». Lo sottolinea anche Khawula, donna palestinese: «I giovani hanno meno pregiudizi. Hanno potuto sperimentare che l’incontro tra diversi è possibile, utile, indispensabile».

Incontro e dialogo anche nei momenti drammatici, come la morte di un figlio. Dolore condiviso in occasione della XIV Giornata nazionale del dialogo cristiano-islamico dalle due comunità, colpite entrambe da gravi lutti: una famiglia musulmana di Sassuolo, di origine marocchina, con tre figlie annegate nel fiume Secchia e una famiglia, cristiana, con due figlie uccise dal monossido di carbonio. La tragedia, la disperazione e la fede. Due comunità diverse, eppure unite nella preghiera. «Il dramma – afferma Hicham Ouchim, presidente della comunità islamica di via Cavour a Sassuolo – ha fatto sì che emergesse il lato umano delle persone; la città ci è stata vicina perché quello che è avvenuto colpisce tutti, indipendentemente dalla religione».

Differenze che si dissolvono di fronte a un comune sentire: «Credo nella vita eterna». «Se Dio ha “permesso” questo – ha affermato Kawtar, la sorella maggiore superstite, durante l’incontro – forse è perché ci vuole riservare qui in terra e in Paradiso qualcosa di grande». Kawtar, due grandi occhi scuri che spiccano nel viso incorniciato dal velo grigio perla e Maria Pia, mamma delle giovani uccise dal monossido, si stringono in un abbraccio interminabile. Così fa anche Chaibia, mamma di Kawtar e delle tre ragazze scomparse nel Secchia. Lacrime e dolore, apparentemente distanti, eppure così vicini.

Lo testimonia la preghiera pronunciata da due cori, quello femminile con Chaibia, Kawtar e Maria Pia, e maschile, con le voci di Hicham, Giovanni (padre delle due ragazze scomparse) e Ruggero. «O Dio grazie di averci fatti incontrare e di non aver avuto paura delle differenze che esistono tra di noi», pregano i maschi. E le donne: «O Dio siamo uomini e donne che pur venendo da esperienze, popoli, culture e religioni diverse abbiamo immensa fiducia in Te». «Un momento davvero emozionante – confida commossa Maria Pia –. Noi così diverse: loro in abito lungo e col velo, io in jeans e scarpe da ginnastica, a pregare strette l’una all’altra… E lievemente ci accarezziamo, perché in quel momento siamo unite, una cosa sola, perché stiamo pregando un unico Dio. Lo stesso Dio che ci ha aiutate, che ama ogni uomo e che vuole che tutti siano e vivano da fratelli».

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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