Teologia del quotidiano

A colloquio con padre José Correia, Superiore provinciale dei gesuiti di Portogallo, teologo e sostenitore di una «teologia delle piccole cose» che rivaluta l’importanza di una dimensione affettiva per la crescita spirituale.
22 Dicembre 2015 | di

Un sacerdote che parla di affetto, di tenerezza, non suona più così strano nell’epoca di papa Francesco. Scoprire però che lo fa discutendo di teologia e non di pastorale familiare può in effetti stupire. Il sacerdote in questione è padre José Frazão Correia, portoghese, gesuita, autore di due recenti volumi: La fede vive di tenerezza. Variazioni sul tema e Fra-tanto. La difficile benedizione della contingenza (Emp, 2015).

Msa. Padre Correia, che cosa significa in tempi di crisi, economica ma anche di fiducia, credere?Correia. Credere significa proprio scommettere sulla fiducia, sull’affidamento. A me piace parlare di fiducia partendo dall’immagine della nascita, che è una condizione che accomuna tutti, credenti e non, perché tutti veniamo alla vita portati da qualcuno al quale ci affidiamo. Quindi, in un tempo di crisi sociale ma anche personale – perché le crisi non mancano nella biografia di nessun individuo e di nessuna società –, quando il rischio di restare impigliati nella sfiducia aumenta, dobbiamo tornare proprio alla dinamica del nascere, che è strutturante della nostra esistenza. Perché se non riusciamo ad affidarci, la vita non porta frutto. Essa va nutrita di cose buone, mentre la sfiducia è un nutrimento avvelenato.

Lei dice che la fede vive di affetto. Che cosa intende? La parola portoghese che io utilizzo per dire «affetto», non ha niente di sentimentale. Non è un sentimento superficiale, momentaneo ma – l’espressione non è mia bensì di un teologo italiano, Raffaele Maiolini – è un «sentimento forte e persistente che crea legame». Quando dico, allora, che la fede vive di affetto intendo dire che vive di riconoscenza per un dono che è sempre immeritato, sempre sorprendente. La verità di cui la fede si nutre non è una verità astratta, intellettuale, sentimentale: è una verità esistenziale, che ha una risonanza affettiva, quindi vitale, e implica tutta l’esistenza. Io posso dire che Dio mi ama o posso dire che Dio ama l’altro, però se io come credente, se la Chiesa come comunità credente, non esprime in gesti questa verità, questa verità è astratta. Ecco perché dobbiamo riscoprire l’affetto.

Lei sostiene che spesso nella vita restiamo fermi sulla sofferenza e che questa fissazione ci impedisce di guardare avanti. C’è qualcosa che ci può aiutare a non restare imprigionati nel dolore? Direi che l’esperienza fondante e fondamentale è quella del sapersi amato. Suona come uno slogan per ragazzini o gente un po’ esaltata, eppure tutti quanti cerchiamo proprio questo nelle nostre esistenze. La possibilità di attraversare la difficile benedizione che è la vita arriva dalla certezza di non essere soli. All’inizio di tutto c’è l’amore, un amore vivo e vivente: Dio. E nel traguardo della vita ci sarà pure l’amore. Noi vogliamo che l’amore sia anche il viatico per ogni giornata lungo la nostra strada. E la strada, lo sappiamo, ci porta momenti di grande gioia e fecondità, ma pure di grande delusione e tristezza, di fallimento, insicurezza. L’esperienza di essere amati, di essere generati all’esistenza da un altro, è l’esperienza umana che ci tiene in vita. Non abbiamo molte altre alternative: se non facciamo leva su questa esperienza, faremo leva sull’autosufficienza, sul difenderci, sul fare violenza sull’altro per proteggere il nostro posto. Vivremo della delusione, del veleno interiore di essere abbandonati, del risentimento, tutte esperienze contrarie alla fiducia. L’esperienza di essere amati porta in ogni esistenza fecondità, libertà, creatività straordinarie.

Come può la Chiesa aiutare a vivere una «spiritualità del quotidiano», delle piccole cose, fatta di gesti ordinari come il nutrire, l’accudire… Lo può e lo deve fare, anche come missione centrale. Deve farlo aiutando a capire che tutti questi gesti sono profondamente spirituali, dipende da come si fanno. Se, per esempio, lancio un pane su una folla di affamati, io non li sto nutrendo: quel mio gesto può sfamare qualcuno, ma non è un gesto spirituale, è un gesto di arroganza, violento, umiliante. Tutti i gesti della nostra umanità possono essere profondamente spirituali se portano con sé l’affetto che genera un legame, o possono essere profondamente distruttivi se non creano legami, se non esprimono l’affetto, la vitalità che c’è tra di noi. Oggi, in un’epoca in cui viviamo il rischio di una certa compulsività nelle offerte, di una banalizzazione dei gesti, ricordare la dimensione spirituale delle cose più comuni mi pare sia già una grande missione per la Chiesa.

Quale deve essere a suo parere, se c’è, lo «stile credente»? Lo stile credente o lo stile cristiano dovrà essere sempre un insieme di stili. Infatti, la Chiesa rivela questo insieme policromo di stili di vita, di manifestazioni artistiche, culturali, letterarie, di congregazioni. Qualche volta sembra addirittura che la Chiesa sia… l’insieme degli opposti! La Chiesa è stata sempre uno «stile di stili», dove per stile s’intende un modo di dare corpo alla verità che professiamo, un modo di abitare il mondo in modo spirituale, che è sempre un modo profondamente incarnato, perché per noi lo spirito incide sulla materia, prende radici nel corpo della vita reale, a livello individuale e sociale. Oggi è tempo di riflettere su questo stile, di esercitarsi in esso, perché non è sempre uguale, ma muta a seconda delle persone, delle circostanze e dei luoghi. Per esempio, oggi sarà molto difficile che una parrocchia riesca a compiere la sua missione se non accetta ritmi distinti di percorsi di vita e di fede. Ci sono persone che sono all’inizio del cammino di fede, altre che devono ancora cominciare e altre ancora magari più avanzate. Al giorno d’oggi abbiamo una possibilità straordinaria di poter essere segno della grazia nelle vite reali della gente, accettando anche l’umiltà di percorsi diversi. Se non lo facciamo, tante persone sentiranno che il Vangelo non è per loro, perché magari non si sentono all’altezza, si sentono troppo lontane, pensano che la loro vita non corrisponda a ciò che la Chiesa chiede. E questo sarebbe drammatico, perché vorrebbe dire che abbiamo dato testimonianza che il Vangelo non è per tutti, non è per tutte le circostanze. Ma noi sappiamo che il Vangelo è Parola di vita e che il Signore Gesù salva in ogni tempo, in ogni luogo e ogni persona. Lo stile, allora, è una missione pura: abitare il mondo in modo cristiano, in modo che questa testimonianza possa rendere vivo Dio e presente il Vangelo che salva.

Nei suoi lavori emerge una visione di teologia che passa attraverso la piena valorizzazione di tutto ciò che è umano. È una questione innanzitutto di attitudine. Mi spiego. Ho preso il dottorato in teologia ubbidendo ai miei superiori. Ma io avevo bisogno di dare parola al movimento di vita e di fede che è in me e così ho utilizzato i miei studi a questo scopo, affinché incidessero sulla mia stessa esistenza. Poi ho voluto far dono dei frutti di questa mia fatica alle persone che conoscevo, con un gesto di generosità. Tutto ciò si è tradotto nel mio tentativo, da un lato, di far uscire la teologia dalle mura accademiche per portarla nella vita ordinaria delle comunità e delle esistenze e, dall’altro, di innalzare il tono della riflessione delle comunità cristiane, per far riemergere in esse l’intelligenza del mistero cristiano. Se questa manca, infatti, la gente si allontana. Oggi la Chiesa dovrebbe aprirsi un po’ di più all’intelligenza del mistero, quindi alla teologia, per non correre il rischio di diventare fanatica, chiusa, indifferente alle cose. L’atto di pensare è un atto di grande nobiltà umana, e se è vero che il pensiero può diventare feticcio per se stesso, è altrettanto vero che può diventarlo anche l’assenza di pensiero.

Ma perché la riflessione teologica è così importante? Abbiamo bisogno di un pensiero che renda giustizia alla vita e la teologia non può non essere una riflessione sulla vita, perché tratta del mistero dell’incarnazione che è fondatore della nostra fede. La nostra stessa vita ha bisogno di una parola che la rielabori, perché l’assenza di parole, di intelligenza, porta al fanatismo e alla violenza, e lo vediamo anche oggi. Le dittature non hanno mai apprezzato la presa di parola, la riflessione, l’intelligenza delle cose, perché le cose si accettano e basta. La fede non è accettare e basta, la fede è questa dinamica vitale di un riconoscimento corrisposto, anche tramite l’intelligenza. La fede non può essere insensata, contraddirebbe se stessa, e quindi l’atto di pensare teologico è un atto di giustizia e di onore alla fede che professiamo.

Siamo alla vigilia di un giubileo della Misericordia. Un atteggiamento misericordioso nei confronti di se stessi e degli altri, può generare alla fede? Penso che generi tout-court, perché il cuore rivolto con affetto verso la vita di un altro genera sempre frutto. Poi non so se generi alla fede religiosa, però porta la vita, e questo è più importante. L’amore verso un altro, verso la miseria di un altro, genera sempre vita, la vita fiorisce e magari alcuni vorranno corrispondere a questa vita e qualcuno forse anche in un modo religioso. Ma, ripeto, l’importante è che generi vita. 

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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