Solitari interconnessi

Riproponiamo l'intervista a Zygmunt Bauman che il "Messaggero di sant'Antonio" pubblicò nel novembre 2015. Un modo per ricordare il grande sociologo polacco oggi scomparso all'età di 91 anni.
09 Gennaio 2017 | di

Davanti a più di cinquemila persone che lo ascoltavano in piazza Grande a Modena, accanto alla torre Ghirlandina, all’ultima edizione del FestivalFilosofia Zygmunt Bauman ha citato papa Francesco, ritrovandosi in un passaggio dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali».

Bauman, tra i più autorevoli sociologi del nostro tempo, ha uno sguardo sempre lucidissimo sulle dinamiche della contemporaneità: compirà 90 anni il 19 novembre, e la sua vita dunque ha attraversato stagioni e rivoluzioni, ha visto costruire muri e li ha visti poi cadere, ha conosciuto i totalitarismi e la loro dissoluzione così come l’affermarsi di un panorama produttivo e industriale che oggi si smaterializza nell’evanescenza dell’universo virtuale.

Da tutte le sue analisi, Bauman ha tratto il cuore del suo pensiero e ha spiegato come la nostra sia una modernità «liquida», dove si sono dissolte alcune certezze del passato, soprattutto nei legami sociali e personali: molte solidità (anche nel lavoro e nella comunità) non esistono più, e l’uomo si trova spesso solo in mezzo a «un universo di oggetti in movimento». «Se dovessi definire cosa sia la modernità liquida, direi che è la condizione di irreparabile precarietà in cui ci troviamo», annota. Anche la «seduzione tecnologica» e l’attrazione dei social network rischiano di essere soltanto una grande illusione: quando navighiamo in Rete, pensiamo di fare parte di un’ampia comunità, «ma connettersi è facile quanto disconnettersi», aggiunge il sociologo. Una communitas è un dono ma anche un’assunzione di responsabilità: ci si sente sicuri quando si fa parte di una comunità, mentre l’immunitas porta a togliersi di dosso gli obblighi. «La Rete sembra promettere a tutti i benefici della comunità, senza caricarci degli oneri», dice Bauman. Ma alla fine, in realtà, ci lascia solo il prezzo dell’isolamento: siamo solitari interconnessi. Tutto questo mentre la nostra società deve affrontare nuove, enormi migrazioni di popoli e un nuovo confronto o scontro di civiltà. Proprio su questi temi (anche alla luce dei suoi libri più recenti) Zygmunt Bauman ha accettato di rispondere alle nostre domande.

Msa. Professor Bauman, in Babel (con Ezio Mauro, Laterza editore) lei spesso si riferisce alla nostra vulnerabilità. Da che cosa dipende? Bauman. Dall’incertezza cronica, dal sospetto di impotenza e dall’umiliazione che deriva da entrambi. Noi abbiamo soltanto una vaga idea (o addirittura non ce l’abbiamo del tutto) di cosa ci porterà il domani, e questa è l’incertezza. Sono tante le domande che ci poniamo. Ci sarà ancora il mio lavoro? I miei risparmi varranno ancora come oggi? Il mio quartiere sarà ancora così familiare e accogliente come è adesso? Potrò ancora godere della posizione sociale che ho guadagnato con le fatiche di una vita? Il mio partner e i miei amici mi avranno girato le spalle? I giornali di domani porteranno notizie di altre catastrofi, pericoli o insidie?

Perché nasce il senso di impotenza? Perché, di fronte anche a una sola minaccia, avvertiamo che c’è veramente poco – o forse nulla – che possiamo fare per evitare che ci colpisca o per attenuarne l’effetto; per non parlare poi della possibilità di combattere queste insidie. Da qui viene l’umiliazione: ci si sente non all’altezza delle sfide della vita, inadeguati agli obiettivi con cui dobbiamo confrontarci. Ogni uomo ritiene quindi di essere un fallimento, esposto al pericolo dell’intimidazione, del degrado, della condanna e dell’esclusione.

Milioni di migranti stanno bussando alla nostra porta. Sono una sfida alla nostra coscienza? I migranti ci mostrano quanto siano fragili e inaffidabili le nostre conquiste. Del resto loro stessi, fino a non molto tempo fa, potevano essere magari legati ai loro luoghi e al loro modo di vivere: potremmo quasi pensare che fossero sicuri come desideriamo credere di essere noi stessi. Vediamo invece come si siano dimostrati illusori il loro benessere e la loro sicurezza. Sono stati cacciati via dal posto del mondo che ingenuamente (oh, quanto ingenuamente!) pensavano fosse loro di diritto, sono stati forzati a scappare e ad affrontare gli orrori inenarrabili della mancanza di una casa, così come i pericoli indescrivibili del vagabondare. Sono stati costretti a correre questi rischi da quelle forze elusive, nascoste, misteriose e infide che cospirano al di là della nostra portata e della nostra vista. Ma noi non siamo forse già indirizzati a soffrire i colpi di queste stesse forze ostili? Non siamo forse noi le prossime vittime? E anche noi non ci dimostriamo altrettanto fragili, quando arriva il nostro turno di soffrire?

Perché gli stranieri alle porte di casa ci fanno paura? Perché è come se fossero messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano delle verità che preferiremmo non imparare mai. Quindi devono essere quasi esorcizzati, rimossi dalla vista, come un male messo al bando. Per placare in qualche modo le sofferenze suscitate da questi arrivi, tentiamo il più possibile di autoconvincerci che loro, a differenza di noi, meritano il loro destino e che sono indegni di qualsiasi tipo di comfort, anche lieve, che possa esserci nelle nostre vite. Dunque ogni paragone con loro (per non parlare di empatia o solidarietà) è fuori luogo, ingiustificato e non richiesto. Cerchiamo in tutti i modi di ascrivere a queste persone ogni sorta di difetto: peccati, vizi morali, reati commessi o previsti, misfatti e cattive intenzioni che ovviamente noi diciamo di non avere. Tutto questo per provare (soprattutto a noi stessi) che quella triste sorte è un problema loro, non nostro.

Perché è così difficile impegnarsi in un dialogo? Il monologo è più sicuro di un dialogo. Impegnandosi in un dialogo, ciascuno di noi rischia di esporre la propria fiducia in se stesso ai capricci del destino, oppure al pericolo di perdere un confronto ed essere smentito. Sono tutte esperienze dannose per la stima di sé e per la pace spirituale, dunque sono di solito rigettate o possibilmente evitate. Piuttosto che affrontare gli azzardi del confronto, si preferisce quindi il monologo, che di solito va di pari passo con il negare diritto di parola a chi porta visioni e opinioni contrarie, che non vengono prese in considerazione seriamente.

Nel saggio Il secolo degli spettatori (Edizioni Dehoniane), lei scrive che oggi, nell’età dei mass media, tutti noi siamo «spettatori della sofferenza». I drammi del mondo ci arrivano in casa e non possiamo fingere di non vederli. Ma possiamo realisticamente fare qualcosa per non essere solo spettatori? Possiamo farlo, e c’è un crescente numero di persone che lo fa, sebbene sia ancora insufficiente. In questo «secolo di spettatori» si verificano due fenomeni. Da un lato, la profusione di immagini di crudeltà e sofferenze umane può portare a una sorta di compassion fatigue, ovvero l’indisponibilità a fare opere di carità, proprio perché si parla troppo di un problema: si neutralizza così lo choc che questi casi dovrebbero provocare. Però, al contrario, queste sofferenze così forti, che i media portano nelle nostre vite, possono anche perforare l’armatura dell’indifferenza e dell’autoisolamento in cui i testimoni a volte cercano riparo per difendersi dai rimorsi di coscienza o dai rischi di resistenza attiva al male.

Terminando la sua lezione a Modena, lei ha citato papa Francesco e ha sottolineato che l’ineguaglianza è la causa di tutti i mali sociali. Ma come possiamo sradicarla? Considerando il nostro attuale modo di vivere, penso che la strada per arrivare a eliminare le ineguaglianze sia, con ogni probabilità, molto lunga e tortuosa. È difficile delineare con chiarezza una «road map» che ci porti ad affrontare con serietà e determinazione questo tema. Una cosa, comunque, è certa: che noi, seguendo le raccomandazioni di papa Francesco, dobbiamo iniziare col dire un deciso «no!» a sei peccati sociali: no a un’economia della diseguaglianza e dell’esclusione, no all’economia del trickle-down (è la teoria, spesso associata al liberismo, secondo cui i benefici economici concessi ai più abbienti portano beneficio a tutte le classi sociali, ndr), no alla nuova idolatria del denaro, no alla tirannia del profitto, no alla disuguaglianza che genera violenza, e no a un sistema finanziario che governa piuttosto che servire. Facendo questo, dobbiamo tenere in mente le parole di san Giovanni Crisostomo che il Papa cita a sostegno della sua chiamata: «Non condividere la propria ricchezza con i poveri significa derubarli e togliere loro la vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro...».         

La schedaChi è Zygmunt Bauman è nato nel 1925 a Poznan, in Polonia, da genitori ebrei. Con l’invasione tedesca del Paese nel 1939, dovette fuggire nella zona di occupazione sovietica: dopo la guerra studiò all’Università di Varsavia e alla London School of Economics. Dal 1968, l’antisemitismo in Polonia gli fece perdere la cattedra all’Università di Varsavia e lo costrinse a emigrare, dapprima in Israele e poi nel Regno Unito, dove dal 1971 ha insegnato sociologia all’Università di Leeds e oggi è professore emerito. L’Inghilterra è divenuta la sua nuova patria. Nei suoi numerosi libri ha tratteggiato gli aspetti della società globalizzata, e in particolare i mutamenti nella definizione del pubblico e del privato e le conseguenze filosofiche e morali del nuovo capitalismo.

Tra i suoi testi tradotti in italiano, Modernità liquida; Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi; Consumo, dunque sono e i più recenti Il secolo degli spettatori. Il dilemma globale della sofferenza umana; Stato di crisi; Il ritorno del pendolo; Psicoanalisi e futuro del mondo liquido; Babel (con Ezio Mauro).

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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