Rugby: concerto per palla ovale

Viaggio in uno sport di origine anglosassone, giocato da oltre 6 milioni di persone in 119 Paesi del mondo, che ha molto da dire (e da insegnare) anche fuori dal campo di gioco.
10 Novembre 2018 | di

Metafora della vita. Modello efficace cui ispirarsi in campo educativo e formativo. Questo è il rugby, sport nato e diffuso soprattutto in Inghilterra, dove ci sono oltre 2 milioni di giocatori, e che sta raccogliendo in Italia (78 mila rugbisti circa) e nel mondo (6 milioni) un numero sempre crescente di appassionati.

Si dice che tutto abbia avuto origine da un gesto rivoluzionario: il 1° novembre 1823, il giovane William Webb Ellis decise, nel corso di una partita di calcio giocata in una cittadina inglese del Warwickshire, di prendere con le mani (gesto allora consentito) la palla, cominciando a correre (cosa invece vietatissima) fino alla linea di fondo per lì deporla. Verità? Fantasia? Non lo si può sapere con certezza. Di sicuro, l’anno di nascita ufficiale del rugby è il 1866, quando venne fondata l’International Rugby Board, divenuta, nel 2014, World Rugby, l’organismo di governo del rugby nel mondo.

Ma questo conta poco, in fondo. Perché la storia del giocatore di pallone che infrange le regole la dice lunga sulla patina che ricopre la disciplina: sport anarchico e violento, dove i giocatori se le danno di santa ragione per 80 minuti, senza sconti né regole. Patina, appunto. Basta infatti grattare un po’ per scoprire un altro mondo. Agli antipodi. Come spiegano i fratelli Mauro e Mirco Bergamasco, già bandiere della nazionale italiana di rugby, nel volume Andare avanti guardando indietro (Ponte alle Grazie), scritto con il medico psichiatra Matteo Rampin. Una summa, non tanto o non solo, delle regole del gioco, quanto della filosofia che sottende a questa disciplina e che molto ha da dire e da insegnare, in campo e fuori.

Le parole del rugby

Nel mondo rugbistico ci sono termini che più di altri spiegano l’essenza del gioco, che in estrema sintesi si può così semplificare: due squadre di quindici atleti si fronteggiano per ottanta minuti, suddivisi in due tempi da quaranta, cercando di portare il pallone nell’area di meta dell’avversario.

Il primo di questi termini è imprevedibilità. Il pallone è rotondo: lo dice pure il proverbio, per significare che nello sport nulla è mai scontato. Bene, nel caso del rugby il pallone è addirittura ovale, cioè difficilissimo da gestire: la sua forma, spiegano infatti i due campioni, rende «impossibile sapere in anticipo che cosa accadrà in seguito all’impatto con un corpo solido». Il rugby, quindi, insegna prima di tutto a prendere l’iniziativa pur sapendo che sarà molto difficile programmare la risposta della palla, anche se la tecnica può aiutare ed è quindi sempre fondamentale prepararsi in modo serio, perfezionando ogni movimento. Morale della favola? Il rugby è «come la vita: per combinare qualcosa bisogna togliersi l’illusione di poterla tenere completamente sotto controllo». Il che non ci esime dal fare, e bene, la nostra parte.

Nonostante l’aspetto feroce e caotico, una cosa è certa: non esiste disciplina sportiva che sia zeppa di regole come il rugby. Il motivo sta proprio nella durezza del gioco che, se non ben guidato e regolamentato, mette a serio rischio l’incolumità dei giocatori. «Nel nostro sport lo scontro fisico è doveroso – continuano Mauro e Mirco –. In gara è consentito il “contatto totale” tra avversari: significa che tutte le parti del corpo possono scontrarsi, e si tratta di uno scontro “forte”, che ricorda da vicino quello delle discipline di lotta. Le due squadre si scontrano generando tonnellate di pressione, si creano mischie schiaccianti, arresti fulminei e collisioni micidiali». Bene, nonostante l’uso della forza sia la norma, nei match con la palla ovale il suo abuso è una rarità. Qual è il segreto di questo bilanciato cocktail di scontro e contatto, impiego della forza e contenimento della violenza? «La ferrea disciplina che regolamenta l’impiego della forza fisica e che è puntigliosamente annotata nei nostri complicati regolamenti» chiosano i due fratelli.

Inoltre, «l’autorizzazione all’impatto rude fa sì che sviluppiamo una discreta abilità a evitare, quando possibile, lo scontro diretto. Evitare la collisione è uno dei modi in cui si manifesta l’intelligenza rugbistica». E, laddove questo non fosse possibile, è obbligo che il conflitto non degeneri. Mai. Ecco perché nel rugby gli inevitabili contatti in campo vengono fatti con… tatto. Cioè con rispetto dell’avversario. Perché bisogna sempre avere chiara la differenza tra forza e violenza, tra un contatto normale e uno lesivo: «Il rispetto è uno dei valori più importanti messi in gioco dai rugbisti» fanno eco i Bergamasco. Un principio che si estende anche a spettatori e tifoserie. «C’è un’aura di familiarità, amicizia e cordialità sugli spalti – confidano gli ex azzurri –. Fuori dallo stadio i giocatori della squadra avversaria sono accolti dal pubblico di casa con manifestazioni di affetto ed entusiasmo. E se durante la partita gli insulti dagli spalti si sprecano, terminato il match si è di nuovo accolti festosamente dalla gente, indipendentemente dal risultato». Perché i giocatori sono avversari solo in campo; fuori, tornano a essere persone normali.

Persone capaci di divertirsi, e anche molto, non solo durante le partite. Per esempio nel cosiddetto terzo tempo, che si gioca fuori dal campo e che rappresenta un altro aspetto inconfondibile del rugby: a partita terminata si va tutti insieme, le due squadre in primis, a fare festa. «Una tradizione che contribuisce a eliminare ogni paura dell’altro, dell’avversario – spiegano i fratelli Bergamasco –. Il terzo tempo si svolge in un clima goliardico che ha una funzione ben precisa: allentare le tensioni e creare un ambiente fluido di scambi reciproci». Perché «dissacrare e lasciarsi prendere in giro e accettare gli scherzi è il modo più divertente per riportare alla giusta dimensione tante cose cui attribuiamo troppa importanza, prima tra tutte il nostro ego».

C’è però una parola che più di ogni altra caratterizza il mondo del rugby: fiducia. Perché la durezza del gioco rende davvero indispensabile sapere di poter contare sulla propria squadra. In questo sport nessuno può bastare a se stesso, non ci sono star assolute. Non c’è giocatore così forte da «fare la squadra»: non i registi del gioco, che pure sono fondamentali in campo; non il capitano, nonostante sia una figura carismatica e rispettata da tutti, e nemmeno l’allenatore, il quale, anzi, durante la partita sta in tribuna, lontano dai giocatori, per dimostrare loro la sua fiducia e garantire autonomia.

Per cogliere fino in fondo la genesi di tale fiducia, bisogna andare al cuore del gioco. L’originale filosofia che sottende al rugby, infatti, si basa tutta su una semplice regola: si avanza nel gioco passando con le mani la palla all’indietro. «La nostra strana regola sembra confermarci che da soli non possiamo fare nulla – chiariscono i due rugbisti –. Quando hai la palla ti devi preoccupare di chi hai davanti (gli avversari), e quando sei senza palla ti devi occupare di chi hai davanti (i tuoi compagni); in tal modo, proprio a causa della regola del passaggio all’indietro, il focus dell’azione è sempre davanti. Non c’è spazio né tempo per pensare che, da dietro, potresti ricevere qualche sgradita sorpresa, e questo è un ottimo modo per sperimentare, in maniera bidirezionale, che cosa sia la fiducia: quella che nutriamo verso gli altri e quella che gli altri nutrono verso di noi».

«Chi avanza col pallone avverte di far parte di un gruppo compatto – proseguono –. Ha la sensazione di essere spinto in avanti dall’intera, imponente massa costituita da chi in quel momento sta lottando nelle retrovie». Questa profonda connessione con il resto del team, contribuisce a delineare un’altra dote importante, in campo e fuori: l’umiltà. Che nella disciplina rugbistica non è mai pura retorica. È ancora la regola del passaggio all’indietro a dirlo. «Nel nostro sport, quando si è forti si è potenzialmente deboli: nel momento in cui abbiamo la situazione in mano, per portare a termine il compito può essere utile effettuare un dietro-front. Soprattutto, conviene saper resistere all’impulso di concludere contando solo su noi stessi: il gesto del passare all’indietro fa dell’umiltà una virtù strategica. Infatti, a prescindere da ogni altra considerazione, una regola universale che nel rugby si apprende subito è: “Se non passi, se non fai partecipare gli altri, se non li rendi partecipi delle tue imprese, il gioco non funziona”. La palla, come la vita, non è fatta per essere trattenuta. Occorre mettere in circolo i talenti, per farli fruttare. Detta altrimenti: per avere, si deve dare».

Data di aggiornamento: 10 Novembre 2018
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