Padri in cerca d’autore

Negli ultimi decenni il ruolo del padre è in crisi. Il nuovo padre non ha più punti di riferimento: diviso tra tenerezza e regole, autorità e impotenza. Una grande sfida, che chiede ai padri d’essere accanto ai figli in modo nuovo, pieno e significativo.
27 Febbraio 2014 | di


Michele Serra
VISTI DAL DIVANO
 
«Gli sdraiati»di Michele Serra è il libro sui padri più letto negli ultimi mesi. È il monologo autoironico, accorato, melanconico di un padre che dichiara la sua inadeguatezza, la sua impotenza, le sue contraddizioni. Un libro scritto senza reti e pieno d’implicazioni e provocazioni, che abbiamo girato all’autore.
 
Niente come la letteratura sa dipingere la realtà, sa renderne i contorni, la profondità, le contraddizioni, con l’immediatezza di una fotografia ma senza la pedanteria del saggio. Anche su questo poggia il successo de Gli sdraiati, il fortunatissimo romanzo di Michele Serra, giocato sapientemente sul crinale tra letteratura e autobiografia, che sta facendo discutere già da mesi uno stuolo di genitori e figli. È il monologo autoironico, accorato, melanconico di un padre che dichiara la sua inadeguatezza, la sua impotenza, le sue contraddizioni: «Mi rendo conto di sommare le due debolezze: la smania protettiva della Madre, le pretese di rettitudine del Padre. Mi vedo soccorrerti e contemporaneamente sgridarti, caricatura schizofrenica dell’autorità». Dall’altra parte un figlio, disordinato, incompiuto, iperconnesso, apatico, consumista, distante se non addirittura ostile, che ha fatto del divano il suo punto d’osservazione del mondo. Tra i due un abisso incolmabile, sul quale il padre cerca goffamente di gettare ponti, mal celando la paura che la sua incapacità di aver certezze, verità assolute – «sono un relativista» dichiara apertamente – possa rappresentare parte del problema. Che padre essere allora? Che cosa vuole questo figlio? C’è un luogo dove è possibile incontrarsi ancora? Un romanzo, scritto senza paura d’essere messo in discussione.

Msa. Michele Serra, questo libro deve esserle costato molto a livello umano e intellettuale. Perché l’ha scritto?
Serra. Perché mi sembrava appassionante, forse anche per chi mi avrebbe letto, il tema del tramonto dell’autorità paterna. Comico e tragico al tempo stesso. Denso di implicazioni personali, culturali, sociali. Un’occasione di scrittura quasi irripetibile.

Su internet i ragazzi esprimono rabbia per il ritratto che lei ne fa. Ma la sensazione è che il focus del libro sia in realtà più sul padre che sul figlio. Mi sbaglio?
Non solo non si sbaglia, ma la ringrazio di averlo capito. Come molti lettori, del resto. Bastava leggere il libro senza troppi pregiudizi per capire che parla solo il padre, maniacalmente, spesso furiosamente, e dunque solo il padre è davvero messo a fuoco. Il figlio è un mistero. Un mistero vincente, come si capisce nelle ultime pagine.

Lei scrive «Sentirmi chiamare papà… quasi mi atterrì. Come un’accusa. Un richiamo all’ordine. Io – non altri – sono quelle due sillabe»; sembra appunto un richiamo ancestrale che riemerge prepotente sotto la crosta della cultura. Perché questo padre ne è così atterrito?
Perché la responsabilità atterrisce, sempre. A meno che non si sia sciocchi e vanitosi, dunque convinti di possedere la Verità e di poterla somministrare dall’alto, come una medicina. Ovviamente la responsabilità non è cancellabile né rinviabile. Tocca farsene carico. Dipende come, dipende perché. Il padre de Gli sdraiati sa bene di essere padre, ma cerca il significato di quelle due sillabe dentro un percorso, impervio e doloroso, di affetto, di se-duzione. Rifiuta di dire «Ho ragione e basta».

Nel corso del libro lei fa spesso riferimento all’ordine del padre opposto al disordine del figlio, eppure si è dinanzi a un padre che ha combattuto contro ogni ordine, e che oggi è giunto al relativismo, l’approdo da cui sta accompagnando il figlio. Nonostante ciò il ragazzo è a una distanza siderale da lui. Che cosa li separa?
Il padre ha il dubbio che il figlio non trovi alcuna attrattiva nel relativismo confesso del padre: ovvero nei suoi dubbi, o, come dice lui, nella sua mancanza di Tavole della Legge. Peraltro, il padre non può e non vuole simulare un Ordine insincero, non sentito, e dunque non ha da offrire al figlio che il proprio amore per la vita. Un amore confuso, ma potente. L’ossessione paterna per la passeggiata in montagna (il padre reitera per tutto il libro l’invito ad andare insieme sul Colle della Nasca) altro non è che il sogno di poter comunicare, attraverso la bellezza e l’amore per il mondo che è meraviglioso. Cerca, goffamente, di condividerli con il figlio. Non sa se ne sarà mai in grado.

Si può arrivare a una costruzione di sé, senza una qualche coordinata, anche se solo per contraddirla?
Effettivamente le regole ferree sono molto utili per crescere: perché si cresce infrangendole, come è capitato a molti della mia generazione. Ma siamo da capo: come fa, quel padre, a offrire «in sacrificio» al figlio delle regole ferree, visto che non ne ha? Certo, non uccidere, non rubare, non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te: è già tanto. Ma un «modello sociale» di famiglia, o di morale religiosa, o di etica sessuale, di ideologia politica, quel padre non lo possiede. Non può improvvisarlo senza essere un patetico reazionario o un improbabile cialtrone. O tutte e due le cose insieme...

Uno dei più grossi problemi dei genitori è quello di trasmettere il piacere del desiderio, in un mondo che offre tutto su un piatto d’argento. Il padre del libro cerca di farlo, ma viene sempre frustrato. Perché abbiamo perso questa capacità di trasmissione?
È un problema che accomuna padri e figli. L’appagamento immediato e a buon mercato di ogni desiderio, sia pure in forma dozzinale, low cost, ottunde le persone. La nostra venne battezzata «società dei consumi» più di mezzo secolo fa, e questa è ancora la definizione più corretta, più precisa: siamo storditi dall’appagamento, come se avessimo la pancia piena ventiquattr’ore su ventiquattro. Solo gli imbecilli possono avere nostalgia della fame e della penuria. Ma un’urgente accordatura del nostro metabolismo stonato, beh, ci vorrebbe proprio.

Un padre «progressista» si ritrova un figlio conformista: sembra una sconfitta senza appello. È così?
Magari il «progressista» è un conformista inconsapevole. Comunque non credo che il problema sia essere conformisti o meno. Il problema è stare davvero, con tutto se stesso, dentro la propria vita, cercare di parlare e amare e vivere non per mimetizzarsi in mezzo al branco, ma per essere felici.

Il padre teme che l’ultima generazione rappresenti una mutazione antropologica irreversibile e che sia in corso un blocco della trasmissione dell’eredità umana: non potrebbe trattarsi di una riedizione in chiave contemporanea del rifiuto del padre?
La risposta giusta è: non lo so. Tutto il libro è attraversato da questo dubbio: se sia la normale reiterazione dello scontro tra generazioni, o se qualcosa di inedito – per esempio l’iperconnessione, la mancanza di vuoto, di «off» in un mondo tutto «on» – stia cambiando gli esseri umani di conio recente. Ripeto: è una domanda che mi faccio e che il libro si fa. Ma non so dare una risposta.

Il figlio del romanzo alla fine segue il padre, benché a modo suo, lo supera e per la prima volta è in piedi ed è felice. Dove sta il possibile punto d’incontro?
Il punto d’incontro, secondo il mio racconto, è il punto del distacco. Quando il figlio se ne va – e comincia a diventare padre – libera se stesso e libera il padre. Nella libertà l’amore può finalmente avere luogo al di fuori dei ruoli e delle costrizioni di generazione (comandare/obbedire). La questione della libertà è così centrale che, forse, può essere il vero nesso, il vero terreno comune tra le generazioni. Nessuna generazione è così diversa dalla precedente da non farsi venire le lacrime agli occhi per la gioia quando scopre la possibilità di essere liberi: cioè se stessi, cioè unici, cioè persone.
 
 
LA RIVOLUZIONE DEGLI AFFETTI
 
Che cos’è successo ai padri? E, soprattutto, che fare adesso? È possibile coniugare passato e futuro, regole e affetto, rigore e tenerezza senza perdere autorevolezza, presenza, significanza?
 
Non è un caso che il nostro viaggio sul «pianeta padre» cominci in libreria. I suoi scaffali sono un osservatorio privilegiato, un termometro degli interessi e degli umori. I libri sui padri e sulla paternità impazzano, alcuni poi sono freschi di stampa e hanno già un pedigree di migliaia di lettori. Fiumi di parole per descrivere l’uomo che dovremmo conoscere meglio al mondo, e che invece sembra sfuggire a ogni catalogazione. Se il padre de Gli sdraiati (Feltrinelli) di Michele Serra abdica, per scelta di vita e convinzione, al ruolo di regolatore dichiarando i suoi mille dubbi, Michele Neri, anche lui giornalista, nel libro autobiografico Scazzi (Mondadori), scritto insieme con il figlio Nicola, sembra un genitore in balìa delle tempeste adolescenziali del ragazzo, attanagliato dal senso di colpa per aver divorziato dalla madre, bloccato dalla paura di aggravare le fragilità del figlio. Padri in crisi che hanno comunque il merito di continuare a cercare una strada per arrivare ai figli tra senso di inadeguatezza e struggente amore per la prole.

«Abbiamo sbagliato tutto» è invece il messaggio che si ricava da Contro i papà (Rizzoli) di Antonio Polito, neodirettore del «Corriere del Mezzogiorno», secondo il quale i padri di oggi sono diventati i sindacalisti dei figli, coloro che hanno invertito l’esortazione di Steve Jobs, il mitico fondatore della Apple, «siate affamati, siate folli» con la più rassicurante (per loro) «restate sazi, restate conformisti», con esiti devastanti per i ragazzi e per il Paese. Inevitabile in chi legge la fitta di sconforto.
E che dire dei figli? Dai libri emergono ragazzi, soprattutto maschi, disordinati e indolenti, viziati e menefreghisti, consumisti e conformisti, iperconnessi eppure incapaci di comunicare, restii a seguire le regole e ad appassionarsi a qualcosa, in qualche caso al limite del patologico.

Una luce sembra venire dall’étoile della psicoanalisi, Massimo Recalcati: nel suo libro Il complesso di Telemaco (Feltrinelli), egli teorizza la fine dell’epoca del «figlio Edipo», cioè dell’epoca degli scontri tra padri e figli, e anche quella del «figlio Narciso», il figlio ripiegato su se stesso, incapace di dialogare con le altre generazioni: è il tempo di Telemaco, il figlio di Ulisse, che aspetta che il padre ritorni dal mare e ristabilisca l’ordine nella sua casa assediata dai Proci. Secondo questa tesi, i padri di oggi sono coloro che ritornano dalle tempeste della storia, dal tramonto dell’autorità, «dall’evaporazione del padre» e riscrivono con i figli una nuova relazione. Suggestiva l’ipotesi, anche se a molti padri riesce ancora difficile trovare nel proprio teenager, all’apparenza così lontano e apatico, i tratti di Telemaco.
 
Dal padre padrone al padre peluche
Insomma, il padre è in crisi e il suo destino è in costruzione. Che cosa sta avvenendo? E soprattutto dove ci sta portando questo scacco al ruolo paterno? Per cercare di capire è utile riav­volgere il nastro della storia e riandare all’anno zero della nascita dei nuovi padri. Non occorre far ricorso all’archeologia, di testimoni dei padri del passato è pieno il mondo. «Quando parlava mio padre non volava una mosca, il suo sguardo sferzava come una frustata», ricorda Riccardo, 75 anni, reduce del pater familias, dispotico e indiscusso regolatore. Il padre del baby boomer ha la patina rosea degli anni ’60, all’inizio dell’era consumistica: «Era sempre via per lavoro, quando tornava bisognava rispettare il riposo del guerriero, l’unico a portare i soldi in famiglia. Cena e poi pantofole e televisione, mentre mamma ci preparava per andare a letto» racconta Alessia, 49 anni. Testimoniando i ruoli divisi tra padre e madre e la lontananza emotiva.

E poi i padri degli ultimi venti anni, che d’improvviso sono uno, nessuno e centomila, nel senso che non hanno un modello codificato a cui far riferimento, come fossero frammenti di un Big Bang della storia. C’è «il mammo», tutto biberon e pannolini, clone della mamma, di cui però, si sa, ce n’è una sola; poi c’è «l’amico», preoccupato di non dispiacere in nulla il pargolo e di dimostrare vent’anni di meno; poi c’è quello che in un impeto d’orgoglio si volta a raccogliere i cocci del padre autoritario del passato, ma la rampogna gli esce stridula, fuori tempo massimo, e rischia di diventare la parodia di se stesso; ed ecco «l’incostante», che si sforza di mettere qualche regoluccia, ma vuoi per stanchezza vuoi per tenerezza, l’eccezione diventa la regola; è poi la volta del «divorziato», divorato dall’assenza, esautorato dal suo essere padre a metà; infine «il mediano», quello disposto a far fatica per far vincere la squadra, che riaggiusta la rotta, si mette in discussione, media, sapendo che ogni giorno è una sfida.

Quale sia stato il Big Bang che ha frantumato il padre hanno provato a spiegarlo esperti di ogni tipo, riesumando la carrellata degli eventi degli ultimi quaranta-cinquant’anni, un tempo breve come una fucilata nel ritmo millenario della storia. Ed ecco i killer di volta in volta individuati: il ’68, la contestazione contro ogni autorità; l’entrata della donna nel mondo del lavoro; il cambio degli equilibri nella coppia per arrivare, giù giù, fino alla globalizzazione, alla società liquida, alle relazioni fragili, alla precarizzazione, all’individualismo esasperato… e chi più ne ha più ne metta. Il risultato comunque non cambia: rivoluzione è stata, rivoluzione è. «La figura di padre affettuoso, empatico, accudente, fisicamente vicino – conferma Maurizio Quilici, fondatore dell’Istituto di studi sulla paternità – non è mai esistita nella storia dell’umanità; per millenni, praticamente dai tempi dei greci e dei romani e fino agli anni ’70, i connotati fondamentali del padre sono stati l’autorità e il potere. Siamo di fronte a una svolta epocale di vastissime proporzioni».

Non è solo una rivoluzione subita, è anche un’emancipazione, la scoperta di un mondo di affetti e di emozioni, prima riservato alle madri. «Allo stereotipo del macho – continua Quilici –, si è sostituito il padre che finalmente può esprimere sentimenti, sensibilità, tenerezza. Una scoperta, che rende la paternità un arricchimento, una maturità del maschile. Una strada da cui non si torna indietro».

E tuttavia quella del padre rimane una svolta difficile perché, caduto un modello vecchio di secoli, tutto è da reinventare. Daniele Novara, pedagogista, fondatore del Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti e autore del libro Dalla parte dei genitori (FrancoAngeli)rileva il punto nodale di questa difficoltà: «Le ultime generazioni di padri, secondo me storicamente le migliori, pagano un prezzo carissimo alla violenza, intesa come vessazione complessiva, perpetrata per millenni sulle donne e sui bambini dal padre padrone.

Il padre di oggi deve compensare quella voragine storica e ha trovato la strada più facile per farlo, che è quella di sottrarsi al ruolo paterno. Anzi, peggio, in molti casi si è messo sullo stesso piano dei figli, è diventato un compagno di giochi, un papà peluche e si è ritirato in panchina, spesso con la collusione delle mamme».

Insomma, l’incertezza impera perché il pendolo delle svolte epocali è sempre così: va da un estremo all’altro. Il problema è che cosa fare adesso, a metà del guado. Come coniugare passato e futuro, regole e affetto, rigore e tenerezza senza perdere autorevolezza, presenza, significanza?
 
Tra regole e autorevolezza
Nel cercare vie d’uscita il mondo degli adulti, ma anche quello degli specialisti, si divide sostanzialmente in due partiti: quello del ritorno alle regole, a quel brandello d’antico che garantirebbe un minimo di riferimento pur nell’ambito di una nuova relazione tra padri e figli, e quello di chi dichiara che il padre regolativo è definitivamente morto e sepolto. «Oggi più che mai c’è bisogno di padre – conferma Novara –. Un padre che abbia superato il padre padrone, sia uscito dalle secche del padre peluche e sia rinato come padre educativo, cioè capace di mettere delle regole quando i bambini sono piccoli, di negoziarle quando sono più grandi, non per avere un qualche potere ma per costruire le condizioni entro le quali i figli sviluppino la propria autonomia. Il padre educativo fa da sponda, argina le spinte regressive che riportano all’infanzia, contiene per far sì che il figlio prenda il largo, sappia utilizzare le sue risorse in funzione del coraggio e della capacità di affrontare la vita».

Tra regola e relazione, Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, preme il pedale sulla relazione: «Il mondo degli adulti – spiega – è alle prese con il fatto che i ragazzi di oggi non riconoscono il valore del limite, non hanno paura degli adulti, non si sentono toccati da castighi o sensi di colpa. E così invoca le regole nel tentativo di ritornare al rispetto dell’adulto come detentore di un valore simbolico. E questo è ormai impossibile. Io sono tra quelli che reputano che sia una conquista che i bambini non abbiano più paura del papà o della maestra. Sarà retorico, ma credo che il fondamento dell’educazione oggi sia l’esempio, la testimonianza. Il padre trasmette ciò che è da come tratta la mamma, la casa, il denaro, il potere, il codice stradale. Il bambino lo segue non per obbedire a una regola ma per stima e per affetto».

Entrambi i partiti, ognuno a suo modo, sottolineano l’importanza di una rinascita dell’autorità paterna, intesa come autorevolezza. E sull’importanza dell’autorità, genitoriale ma non solo, insiste anche Luisa Muraro, filosofa e femminista, facendo i suoi distinguo: «Abbiamo bisogno di chiamarla “autorevolezza” perché nella nostra storia non siamo riusciti a dividere l’autorità dal potere, tanto che abbiamo distrutto l’autorità identificandola con l’autoritarismo e lasciato il vuoto; l’autorità non è potere, è riconoscimento nella relazione: io ti ascolto perché hai una storia, un valore. L’autorità è libertà, è creatività, è generatività, è fiducia, è ciò che di buono ci hanno tramandato le generazioni: per questo è il fondamento delle società ed è la base dell’educazione. Un bambino non imparerebbe neppure a parlare, se non si affidasse ai suoi genitori».

La scelta dell’autorità rispetto al potere sembra essere oggi anche quella della figura paterna per antonomasia, papa Francesco, almeno secondo Massimo Recalcati, incontrato a Torino Spiritualità: «Il gesto di Ratzinger ci ha mostrato che il balcone di San Pietro è vuoto. Che cosa resta del padre? Resta la testimonianza più che la regola, il Vangelo più che la teologia. Papa Francesco è il nuovo padre, ripensato dai piedi».

Il padre che si presenta all’orizzonte non ha più una fisionomia certa, è vero, ma ha tante possibilità di vita e di relazione accanto ai figli. È un padre senza potere, ma con l’autorità della sua storia, del suo affetto, della sua vicinanza. È un padre che viene dall’assenza, ma che inventa ogni giorno la sua presenza. È un padre che guida per portare alla libertà. Un padre, per dirla con le parole di Pietropolli Charmet, «empatico, tenero, che vive commosso lo spettacolo della crescita dei propri figli: uno dei pochi motivi per cui valga la pena vivere».         
 
 

Don Antonio Mazzi
Visti da un prete

 
Ne ha visti di ragazzi, sulla strada. Perché lui è un prete di strada. Un prete da periferie urbane ed esistenziali. Un prete che va a cercarli fin negli angoli più bui e difficili. Quelli della tossicodipendenza, dell’assassinio, ma anche della disperazione e della solitudine di vite solo in apparenza normali. Nel 1994 fonda la comunità Exodus. Allora i ragazzi erano tredici. Oggi sono più di un centinaio, solo a Milano. Ne ha visti di ragazzi, don Antonio Mazzi. E ne ha visti anche di padri. Forte della sua esperienza, alla soglia degli 85 anni, non usa mezze parole. Per la verità, non le ha mai usate. Per lui un padre dovrebbe essere contento di affrontare problemi. «Perché, più casini ci sono, più un padre trova ragione di esserci». Bella provocazione, ma poi, nella realtà, mica è così facile. «II vero guaio dei nostri giovani siamo noi adulti che non siamo mai diventati tali. Ho conosciuto tanti padri. Molto bravi a sviluppare il personaggio del loro figlio, ma non a tirarne fuori e ad accompagnarne la vera identità. Certo, aiutare un figlio a costruirsi una propria identità piena di valori da vivere e da trasmettere è una fatica immane. Anche perché abbiamo dimenticato che si cresce, tutti, nella misura in cui ci si assume qualche responsabilità, si ama la fatica e si soffre. Oggi, invece, i padri hanno paura».

Don Mazzi insiste sull’importanza della figura paterna nell’adolescenza. «Un’età temuta, poco conosciuta, sottovalutata. È in questo momento, invece, che i ragazzi vengono al mondo una seconda volta. Una seconda nascita data non più dalle madri, ma dai padri». Come fare, allora? «Prima di tutto mai dire al proprio figlio “fai questo, fai quello, studia”. Impariamo, piuttosto, ad ascoltarlo. Troviamo un momento, con tutta la famiglia, per ascoltarci. La famiglia non è un’invenzione dei preti o dei cattolici. È un’esigenza vitale della società. Rimettiamo al centro i ragazzi. Abbiamo bisogno di una società in cui i giovani valgano più dello spread, del costo della benzina, delle pensioni ai dirigenti. Torniamo a fare i padri senza paura. Ascoltiamo i nostri figli. Impariamo ad amare le loro fragilità, che sono anche le nostre. I ragazzi hanno bisogno di adulti autentici, esigenti, dialoganti, di genitori capaci di interpellarsi con più pazienza e meno paura. Ma, soprattutto, hanno bisogno di padri che sappiano aiutarli a fare sintesi tra quotidianità e sogno, tra desideri e concretezza. I nostri adulti, i nostri padri, insistono solo sul presente, senza una prospettiva di futuro. E invece i giovani hanno la capacità, per loro natura, di scelte radicali, in controtendenza, capaci di trasformare la fatica e il lavoro in qualità di vita, amicizie, valori. È il padre che ha il compito, più di altri, di spalancare relazioni, di disegnare orizzonti positivi, di accordare i vari strumenti trasformando il raglio in melodia».

Ma don Mazzi interviene anche sulla paternità della Chiesa. Un ruolo riscoperto grazie a papa Francesco. Sulla figura del padre, il Pontefice è tornato spesso. Un ritorno al padre nelle parole e, prima ancora, nei gesti, nella quotidianità. Abbiamo tutti davanti l’immagine di un Papa che non esita ad avvicinarsi alla gente, ad abbracciarla, a chinarsi per raccogliere le fragilità di ciascuno e a caricare su di sé tutte le sofferenze del mondo. Un Papa che pare venirci a cercare là dove siamo, senza paura di guardarci in volto per ciò che siamo. E che invita i sacerdoti a fare altrettanto. «Mi pare – sottolinea don Mazzi – che spesso la Chiesa, soprattutto quella occidentale ed europea, più che la paternità abbia esercitato la dottrina. E talvolta abbia anteposto quest’ultima alla persona. Ho l’impressione che in alcuni casi per la Chiesa la dottrina valesse più degli uomini e della loro storia. Ma questo non è il Vangelo!». Forse, per cambiare le carte in tavola ci voleva un uomo venuto da lontano, da una Chiesa ai confini del mondo. «L’arrivo dirompente di questo Papa ha cominciato a rovesciare la logica. Spero che il ritorno al rispetto della persona – è lui che ha osato dire che nemmeno il Papa ha il diritto di giudicare un peccatore –, possa invertire la rotta. Papa Francesco è colui che è passato dal soglio papale alla strada del pastore. Colui che sta finalmente riportando la Chiesa al ruolo giusto. Che non è quello dello Stato né quello dell’istituzione, ma di un luogo di carità, di speranza e di fede».
Nicoletta Masetto

 
Ezio Aceti
Visti da un educatore
 
Qual è il buon papà?
È uno che entra in rapporto con il figlio. Non ha importanza se è un timido o un permissivo. Meglio un padre «scassato» che entra in relazione con il figlio di uno che pensa di avere tutte le verità in tasca e trascuri la relazione.

Meglio la regola o l’autorevolezza?
La relazione è più importante della regola, ma la relazione comunque sfocerà in regola, perché la regola è utile per convivere assieme agli altri.
C’è, però, un secondo aspetto: ciò che conta non è dare regole. Ci sono migliaia di bambini e ragazzi che ricevono un sacco di regole ma non ne rispettano nessuna. Le ragioni sono due. Primo: non hanno avuto nessun motivo per interiorizzarle, per renderle parte di sé. Secondo: nessuno gliele ha mai comunicate chiaramente. Le regole s’interiorizzano solo se io ho un rapporto con una persona significativa e sono quindi disposto a portare dentro di me ciò che lui mi dice.

Quando le madri devono fare un passo indietro?
Un bambino fino ai 5-6 anni non è capace di mettersi nella realtà, dai 7 in poi è perfettamente in grado di farlo e di costruire rapporti con gli altri. Ciò significa che da quell’età un bambino è in grado di essere «grande», per cui se io lo tratterò da grande diventerà grande, se lo tratterò da piccolo rimarrà piccolo. Per cui a quell’età o le madri sono in grado di fare quest’operazione, cosa di cui dubito – conosco le mamme! – o è meglio che lascino la scena ai padri, fidandosi di loro. Invece oggi i padri sembrano i figli aggiunti, dei bebè cresciuti. È ora di finirla! Che fare allora? Dite alle coppie che stanno per avere un figlio due cose. Primo: di notte lasciate i bebè strillanti in mano ai padri, impareranno da subito a fare i padri. Secondo: almeno tre volte al mese la coppia mandi i bambini dai nonni o chiami una babysitter. Il padre dica ai figli, che faranno di tutto per venire: «E no, miei cari, io esco con mia moglie», senza usare la parola «mamma», mi raccomando. Testimoniate ai vostri figli una vita adulta piena, significativa.
Un altro passo indietro, questa volta sia del padre che della madre, va fatto a scuola: non andate a prendere la scheda di valutazione senza i vostri figli. Trattateli da adulti da subito, come ci aveva detto Maria Montessori già nel 1953!

Quale dev’essere l’eredità di un padre?
Le rispondo con un’esperienza. Tempo fa un padre mi disse di aver avuto una delle esperienze più dolorose della sua vita. Colto da un infarto, si trovava in un letto d’ospedale; i figli, pensando che fosse in coma, iniziarono a litigare per l’eredità. «Avrei voluto morire – mi confessò –. Lo dica a tutti i padri che incontra alle sue conferenze, riferisca loro che fin che sono in tempo insegnino ai figli le cose importanti». Ho raccolto il suo appello e credo che le eredità di un padre siano almeno cinque.
Primo: dite ai vostri figli che sono nati per costruire relazioni con tutti.
Secondo: dite loro che sono programmati per il bene; ogni volta che faranno il bene proveranno gioia, ogni volta che agiranno per il male proveranno tristezza.
Terzo: che l’amore e l’amicizia sono sempre possibili, che non esistono di per sé ma il costruirli dipende da loro.
Quarto: che non è importante quanti sbagli si fanno, l’importante è imparare a rialzarsi. Non è in gamba chi non sbaglia, ma chi non si arrende.
Quinto: che i figli attingano
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017