03 Marzo 2019

Noi giovani degli anni ’60

«Ero gracile» è il titolo dell’autobiografia di Dom Serafini, arrivato a 18 anni negli Stati Uniti dall’Abruzzo. Dal 1981 dirige «VideoAge», una delle più autorevoli riviste di cinema e televisione del mondo.
Serafini con Freeman
Dom Serafini con l’attore premio Oscar Morgan Freeman a Hollywood.

Appena completato il ciclo di studi superiori, e fresco di diploma, Domenico – per tutti Dom – Serafini decise di fare il grande salto. Era il settembre del 1968. Da Giulianova, in Abruzzo, si trasferì a New York, ospite di zia Yole a Long Island. Voleva studiare la tv a colori che si diffonderà in Italia solo molti anni dopo. Ben presto andò a vivere da solo. Per mantenersi iniziò le sue prime esperienze nel mondo dell’editoria: 300 dollari al mese come collaboratore dagli Stati Uniti della casa editrice milanese JCE. Per arrotondare riparava anche apparecchi televisivi in un laboratorio, traduceva articoli in inglese prima di venderli a varie riviste, faceva il DJ in due stazioni radio, e il produttore per una tv via cavo. Poi la sua carriera prese il volo.

Dal 1981 Serafini dirige il mensile «VideoAge» che lui stesso ha fondato, e che si occupa di produzioni televisive, considerata da Hollywood una «bibbia» del settore. Nel 1983 Serafini ha ribattezzato il più importante evento degli studios cambiandogli il nome da «May Screenings» a «L.A. Screenings».

Giunto all’età in cui si fa un bilancio della propria esistenza, ha deciso di condividere la storia della sua incredibile e avvincente avventura americana in un libro autobiografico dal titolo Ero gracile, per i tipi di Artemia Nova Editrice. La sua vicenda personale appare come il paradigma di una generazione di giovani italiani pieni di entusiasmo, nati e cresciuti nell’Italia del boom economico – un po’ madre e matrigna, e avara di sogni per tutti – ma che, paradossalmente, aveva diviso in due il Paese: il Nord ricco e il Sud più arretrato. Non a caso, con un commento agrodolce, Serafini scrive che il suo libro è indirizzato a tre generazioni: «quella cresciuta negli anni Sessanta del secolo scorso, quella dei loro figli, e quella dei loro nipoti. I primi ricorderanno con simpatia un periodo per cui il tempo ha trasformato i drammi in commedie, i secondi capiranno perché i loro genitori sono così “strani”, e i terzi scopriranno come si riesce ad essere magri». Già, proprio magri. Forse per noi è un dettaglio trascurabile, ma se oggi l’America opulenta spende milioni di dollari in cure dietetiche, palestre e centri benessere, negli anni Sessanta (e anche prima) la priorità di chi arrivava dall’Italia era quella di mettere insieme il pranzo con la cena. Per questo la linea era «smagliante» e il girovita da urlo.

Frigo vuoto e naso all’insù

Serafini circoscrive la sua narrazione tra la nostalgia e una satira puntuta ma piena di garbo: «Era il periodo a cavallo tra il secondo dopoguerra e gli “anni di piombo”; quello dell’ossessione per o contro l’America (ora rinnovata nei nipoti); quello di una vita quotidiana, oggi quasi dimenticata; di un sistema scolastico antiquato ma funzionante sebbene fosse sgangherato. E, naturalmente, con la cucina a fare da focolare domestico della centralità della famiglia, prima che questa, alcuni anni dopo, si trasferisse stabilmente sul divano in salotto», lottando senza posa per impossessarsi del telecomando.

Allora «gli americani e i russi minacciavano di annientarsi», ma era solo un esercizio muscolare da gradassi, un po’ come gli adolescenti alle superiori per farsi notare dalle ragazze. «Mentre le vere competizioni si consumavano nella corsa per la conquista della Luna» sognando – al cinema e in tv – i viaggi interstellari. «In fondo era una vita semplice, perfino spensierata e spartana che oggi fatichiamo a decifrare quando ci corre l’obbligo di fare la raccolta differenziata a causa della quantità, questa sì stellare, di rifiuti che produciamo».

Gli Stati Uniti di Serafini, e anche di molti altri come lui in cerca di fortuna, non furono sempre la «terra promessa» delle opportunità, evocata dall’iconografia ufficiale o dall’immaginario collettivo. «All’inizio l’unica cosa che potevo fare era lavorare. Ero completamente ignorato dagli altri ragazzi di Copague, dove risiedevo, a 40 chilometri da New York. Come per tutti quelli che vivevano nelle periferie, la distanza dalla città era notevole e i mezzi pubblici scarsi. Per divertirmi andavo a nuotare nella piscina coperta e frequentavo l’università serale».

Le differenze tra America e Italia allora erano abissali: «Negli Stati Uniti tutto era più facile: contattare gli editori, ottenere interviste, lavorare nei mass media. È pur vero che una volta i giovani erano pieni di risorse. Si riusciva a risolvere qualsiasi problema con l’ingegno e la volontà. Oggi molti si aspettano che sia il governo, locale o nazionale, a risolvere i loro problemi». Per quanto riguarda gli italoamericani di nascita e di discendenza «il loro legame con l’Italia resta ancora forte. La “vecchia” generazione si sta allontanando. Quella nuova vorrebbe rinforzare il legame, ma in Italia sembra che si faccia di tutto per scoraggiare questa tendenza: aumentando le tasse sulla casa, sui rifiuti, ecc. nonostante gli italoamericani tornino in Italia magari solo per qualche settimana l’anno».

E i cliché su di noi? Serafini sorride: «L’Italia, gli italiani e gli italoamericani sono fonte di guadagno per Hollywood. E, quindi, si continuerà a rappresentarci come il pubblico si aspetta di vederci».

Data di aggiornamento: 03 Marzo 2019
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