L'intervista. Mohamed Haddad

Che epilogo avranno le Primavere arabe? Prevarranno le forze riformiste o quelle conservatrici? Come evitare la trappola dello scontro di civiltà? Interrogativi cruciali, a cui risponde Mohamed Haddad, una delle voci più autorevoli del pensiero arabo.
02 Gennaio 2014 | di

Nei giorni a cavallo tra il dicembre 2010 e il gennaio 2011, quando in Tunisia scoppiò la prima di tutte le Primavere arabe, passata alla storia come Rivoluzione dei gelsomini, Mohamed Haddad, una delle voci più autorevoli del riformismo arabo, era a Tunisi accanto alla sua famiglia. Di giorno i giovani manifestavano pacificamente, chiedevano con coraggio un cambiamento al governo dispotico e corrotto di Ben Alì, di notte i miliziani saccheggiavano e terrorizzavano la gente. Un miscuglio di timore e speranza che arrivava fino alla porta di casa sua: «Gli intellettuali, me compreso – scriveva in quei giorni agli amici sparsi per il mondo –, sono sbalorditi da un avvenimento che non potevano immaginare nel più bello dei sogni».

E il sogno che da molto tempo accarezzavano gli intellettuali come Haddad – professore alla Sorbonne di Parigi e alla facoltà di Lettere La Manouba di Tunisi, titolare della cattedra Unesco di studi comparati delle religioni – era quello di un Islam riformato, capace di venire a patti con la modernità, di assorbire al suo interno i valori universali della democrazia. Un sogno troppo bello per essere vero, o meglio troppo «precoce» per essere realizzabile nello spazio di una primavera: in alcuni Paesi la protesta pacifica è degenerata in guerra civile, in altri si è arenata per la capacità di resistenza dei rais, ma anche dove i vecchi regimi sono stati rovesciati la transizione si è rivelata difficilissima e piena d’insidie, soprattutto per l’affermarsi dei partiti islamici e il rischio di un avvitamento nel fondamentalismo. Incontriamo Mohamed Haddad a tre anni dall’inizio di quella Primavera, ospite del Cirpit, (Centro interculturale dedicato a Raimon Panikkar, Italia) nell’ambito di Torino Spiritualità, un’occasione per domandargli in presa diretta come valuta oggi quel tratto di storia araba e, soprattutto, per chiedergli se quel sogno sull’Islam sarà mai realizzabile. «Quando passa l’entusiasmo – risponde senza schermirsi –, ritorna la realtà: il cambiamento non è mai così semplice. Il processo di modernizzazione sarà lungo e difficile, ma non impossibile».

Msa. C’è chi ha letto queste rivoluzioni come ispirate ai valori occidentali, chi invece ci ha visto un processo del tutto interno al mondo arabo. Lei come le interpreta?
Haddad. Penso che sia difficile per gli stessi arabi definire il contenuto di queste rivoluzioni. Non c’è stato un gruppo definito che le abbia organizzate né un pensiero condiviso. La gente voleva qualcosa di nuovo, un potere capace di prendere decisioni a favore del bene comune. Ma dopo la fase di esternazione ognuno vedeva il futuro a modo suo, le aspettative erano complicate e a tratti contraddittorie. Penso che occorreranno anni prima di definire il senso di questa rivoluzione.

Tuttavia c’era nelle piazze una richiesta di maggior democrazia. Ma come può attecchire questa forma di governo in un tessuto sociale in cui la religione ha un peso così significativo?
Credo che sia un errore applicare al mondo arabo le categorie che hanno portato alla modernizzazione in Occidente, come la separazione della Chiesa dallo Stato o la netta distinzione tra laici e religiosi. Ogni cultura ha il suo percorso. L’Islam ha avuto una parte importante nella lotta contro la colonizzazione e, in questi ultimi tempi, in quella contro i regimi autoritari. Non è pensabile oggi un processo democratico senza la presenza dell’Islam. Nello stesso tempo è impossibile pensare di creare una democrazia avendo una visione radicale e conservatrice dell’Islam. È necessario trovare una terza via, capace di conciliare i fondamenti della tradizione islamica con i principi della modernità, partendo dalla consapevolezza che all’interno della storia dell’Islam c’è una tradizione riformista secolare, che però attualmente è sottotraccia perché le tendenze conservatrici sono più forti e meglio organizzate, hanno più finanziamenti e più discepoli. Per esempio, l’Università di al-Azar, in Egitto, riferimento religioso importante per il mondo musulmano, ha pubblicato tre testi in difesa della democrazia, e ha dimostrato apertamente la sua ostilità verso i Fratelli musulmani (espressione internazionale dell’Islam politico). Ciò dimostra che c’è un dibattito profondo all’interno della società araba, i cui frutti si vedranno nel tempo.

Certo che «democrazia islamica» sembra una contraddizione in termini.
Io non parlo di democrazia islamica quanto di adattamento dei principi dell’Islam alla democrazia intesa come sistema di principi universali: la partecipazione popolare, l’uguaglianza tra l’uomo e la donna, i diritti umani. Molti di essi sono già presenti nell’Islam. La nostra strada per farli diventare base della nostra vita associata sarà però diversa. L’Islam potrebbe dettare i principi – come ad esempio quello di giustizia – ma lasciarne, poi, l’applicazione alla politica.

La strada verso la democrazia sembra però un miraggio. Oggi è difficile, soprattutto di fronte agli atti di terrorismo, separare l’Islam dal fondamentalismo. Come uscire dalla trappola dello scontro di civiltà?
Innanzitutto imparando a cogliere l’Islam in tutte le sue sfaccettature, perché è un mondo complesso ed eterogeneo. Secondariamente comprendendo che tutto ciò che sta accadendo nel mondo musulmano coinvolge tutti ed è effetto della globalizzazione. A lungo in Occidente si è ritenuto che lo scontro tra blocco sovietico e blocco occidentale fosse il più grande problema dell’umanità; nessuno si è accorto che fuori dalla logica della guerra fredda stavano accadendo fatti cruciali per il futuro del Pianeta. Per esempio, la rivoluzione iraniana del 1979, che ha portato alla fondazione del primo stato teo­cratico con l’ascesa al potere di Khomeini e ha così creato due fondamentalismi, quello sciita e quello sunnita, che ancora oggi si confrontano, causando quotidiani attentati e morti. Al Qaida stessa è il frutto di quella disattenzione: i miliziani affluiti a migliaia in Afghanistan contro l’Urss che aveva invaso il Paese, una volta sconfitto il gigante sovietico si sono ritrovati senza obiettivi, ma erano stati ormai fanaticizzati e allenati alla guerra. Al Qaida ha raccolto questi combattenti senza più guida, con le conseguenze che tutti sappiamo. L’ultimo esempio che esprime la portata globale di ciò che accade nei Paesi arabi è riconducibile addirittura al nome con cui identifichiamo le recenti rivoluzioni: l’espressione «primavera araba» è stata coniata nel 1989 in Algeria, quando, all’indomani della caduta del muro di Berlino, i giovani manifestarono per ottenere riforme democratiche. Tuttavia le elezioni del 1990 portarono a una deriva fondamentalista e a un’escalation armata, nell’indifferenza sostanziale dell’opinione internazionale. Un rischio che corriamo anche oggi e che ci deve far capire che tutto è fatalmente collegato.

Perché pensa che, alla fine del processo, la democrazia avrà la meglio?
In linea di principio perché penso che l’Islam sia riformabile come qualsiasi altra religione: ogni tradizione religiosa all’inizio resiste al cambiamento. Dal punto di vista concreto sono convinto che già oggi l’Islam politico debba confrontarsi con un serio dilemma: da un lato è salito al potere con l’idea di islamizzare i Paesi, dall’altro sa benissimo che, se vuole restare al potere, non può applicare alla lettera il suo programma perché è ormai in atto anche nella società araba un processo di secolarizzazione irreversibile. Il problema poi si sposterebbe all’economia. Non solo molti imprenditori e intellettuali arabi non accetterebbero più di operare in un Paese islamizzato, ma si rischierebbe anche un isolamento internazionale. La dipendenza dall’economia mondiale è molto forte e, se si fa parte di una rete, non si può fare tutto ciò che si vuole. Già oggi in Tunisia e in Libia alcuni islamisti stanno prendendo in considerazione posizioni meno radicali, soprattutto dopo la caduta di Mohamed Morsi in Egitto, ad appena un anno dalle elezioni. Insomma, le pressioni interne ed esterne sono sempre più forti e la pratica del potere rende l’Islam politico sempre più realista.

Eppure gli islamisti sono saliti al potere tramite libere elezioni, quindi attraverso uno strumento democratico.
E proprio qui sta il problema. I Fratelli musulmani considerano la democrazia solo nel momento delle elezioni, come mezzo per raggiungere il potere, ma non la trasformano in una filosofia politica, in un modo di governare il Paese. È necessario che l’esigenza di un Islam moderato raggiunga i più, come successe in Andalusia al tempo di Averroè: nessuna democrazia s’impone con le armi.

Che consiglio darebbe a noi occidentali per capire che cosa bolle in pentola nel mondo arabo?
Continuate a guardare al Sud del Mediterraneo, quel mare che bagna anche le vostre coste. Continuate a seguirne gli avvenimenti e a comprenderne la complessità. Ciò che sta accadendo avrà un lungo epilogo e influenzerà anche le vostre vite.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017