24 Maggio 2019

Lessico familiare

Una famiglia di taccheggiatori giapponesi accoglie in casa una bimba abbandonata. È la trama di «Un affare di famiglia» (Giappone 2018), film di Hirokazu Kore-eda che esplora le relazioni sociali oltre i legami di sangue.
La famiglia Shibata in una scena di «Un affare di famiglia».
La famiglia Shibata in una scena di «Un affare di famiglia».

Che cos’è la famiglia? Qual è la famiglia vera? Che cosa la tiene unita? Il passato comune, gli affetti, oppure la speranza? E la speranza in che cosa? Nel successo, nella salute, in figli sani e intelligenti? Oppure in una comunità aperta e accogliente, in una società che sia famiglia delle famiglie e che trasformi i clan avversari in alleati affidabili e generosi? Di questi temi si occupa il regista giapponese Hirokazu Kore-eda (nato nel 1962), disegnando un nucleo familiare alternativo, quasi inverosimile, grottesco (i Shibata), i cui cinque componenti affollano le poche, anguste stanze di un alloggio disordinato e poverissimo, cercando di sopravvivere come possono («vergognatevi – dice la nonna –: siete dei buoni a nulla, campate ancora sulla pensione del mio povero marito») e adattandosi a una convivenza priva di riservatezza e comfort.

Per buona parte del film assistiamo alle vicende di questo strano gruppo, senza conoscere quali siano i veri rapporti di sangue, i trascorsi affettivi, le ragioni pregresse della loro unione. Solo dopo sapremo quali inquietanti verità e quali colpe si celano tra quelle mura. Lo sapremo quando le forze dell’ordine pubblico (sopraggiunte per un banale incidente) e gli zelanti assistenti sociali svelano segreti inconfessati e inchiodano gli individui a pesanti capi d’imputazione. Ma sono soltanto loro le responsabilità?

La trama si accentra inizialmente su un singolare evento: questo scombinato insieme di ladruncoli (Shoplifters, taccheggiatori, è il titolo inglese con cui la pellicola è distribuita) accoglie una bambina di 4 o 5 anni, abbandonata su un balcone. Una bimba dolcissima e remissiva, spaventata e assieme affettuosa. La piccola è infreddolita e affamata. I Shibata individuano l’appartamento di provenienza, da cui provengono toni di alterco. Decidono di non riportarla a casa e di non avvisare la polizia. La prendono con loro, vinti dalla compassione.

Il regista ci offre la rappresentazione ambivalente di una famiglia affettiva, dove i legami di sangue contano ben poco rispetto alla scelta di stare assieme. È un’apologia dei rapporti d’elezione, non subìti per imposizioni genetiche, ma disegnati dal caso e poi confermati nella libertà. Non è sempre l’amore che cementa queste relazioni, ma una complicità furbesca e goffa, e un gusto testardo di reinventarsi ogni giorno da capo, costruendo un nido di riparo dall’invadenza sociale e trasmettendosi reciprocamente le astute arti della sopravvivenza.

E la società giapponese dov’è? I servizi statali che cosa fanno? Che ruolo hanno le famiglie tradizionali? Queste ultime sembrano deboli e ferite, lacerate da conflitti interni, vergognose di manifestare il proprio disagio e chiedere aiuto. Non denunciano la sparizione dei loro figli e spingono in ghetti i soggetti più poveri, i quali sono costretti a farsi la guerra (vedi la sequenza delle due operaie a rischio di licenziamento). Lo stile neorealistico di Hirokazu Kore-eda, che eredita la lentezza teatrale e l’ossessione casalinga del maestro Ozu, si colora di tinte sanguigne e di folgoranti colpi di scena, che ricordano il cineasta Kurosawa. Un destino di esclusione costringe a lavare i panni sporchi (e a seppellire i corpi) in casa propria e consegna agli adolescenti pesanti dilemmi morali.

Il cinema stesso, del resto, è una dimora provvisoria, per stranieri che inseguono, nel buio della sala, una rivelazione visionaria, senza domandare da dove uno venga e quale sia il suo vero nome, ma proponendo di credere a un viaggio imprevisto e di allacciare relazioni inedite. Il cinema è un mondo a parte, una traballante casa per sognatori. «Anche se il film voleva essere realistico – ha dichiarato il regista –, desideravo mostrare la poesia degli esseri umani e la fotografia e la musica si sono avvicinate alla mia visione». Tutti siamo, in fondo, padri e madri inadeguati. Tutti surroghiamo e sosteniamo le mancanze altrui. Tutti abbiamo da apprendere qualcosa dai bambini, che sono maestri di speranza, se il loro immaginario fiabesco non viene soffocato dalle ansie irrisolte degli adulti.

Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!

 

Data di aggiornamento: 24 Maggio 2019
Lascia un commento che verrà pubblicato