Le mille e una sfida del Marocco

Il 30 e 31 marzo papa Francesco visiterà Casablanca e Rabat. Viaggio alla scoperta di un Paese aperto alla presenza cattolica, ma geloso del suo islam. Un Paese profondamente segnato dall’immigrazione.
27 Marzo 2019 | di

Rabat. Ahmed è berbero di Nador e non ha ancora 16 anni. Si aggira tra gli scogli di Tanger Med, il grande porto commerciale sul versante marocchino dello stretto di Gibilterra. Cerca il momento propizio per sgattaiolare sotto un tir e imbarcarsi con esso su un traghetto diretto ad Algeciras, in Spagna. È la terza volta che ci prova. Ha già tentato in due occasioni di scavalcare la «valla» metallica a Ceuta. Ma non ci è riuscito. «I miei genitori sono morti – racconta –, qui non c’è niente per me. Voglio arrivare in Europa e ricominciare da capo». Si calcola che oltre la metà dei minorenni non accompagnati che giungono in Spagna sia marocchina. Molti di loro sono di origine berbera, la popolazione autoctona che abita il Nord del Paese e che è in lotta dal 2016.

Poi c’è il flusso migratorio che giunge dall’Africa sub-sahariana. Anch’esso diretto in Spagna, lungo le direttrici di Ceuta, Melilla (le due exclave spagnole in Nord Africa) e Tangeri. I numeri sono in crescita, da almeno due anni a questa parte. Una conseguenza del calo negli ingressi dal Mediterraneo centrale, dopo gli accordi tra Italia e Libia. E la repressione messa in atto dalla gendarmeria marocchina si è fatta spietata. «Rastrellano case e jungle (accampamenti, ndr) informali – racconta José Palazon, dell’associazione Prodein, che a Melilla si occupa dei migranti minorenni –. Lo fanno a Oujda, sul monte Gurugù, o nei pressi di Ceuta. Poi deportano tutti a Sud, talvolta nel Sahara occidentale, al confine con la Mauritania».

Sulle orme di san Francesco

Immigrazione, questione berbera e saharawi, rapporti con i cristiani. È un Marocco dalle mille sfide, quello che papa Francesco visiterà il 30 e 31 marzo, ottocento anni dopo l’arrivo del Poverello d’Assisi. In Africa, san Francesco gettò il seme di un dialogo che è proseguito attraverso i secoli. E proprio in occasione di questo anniversario, la custodia francescana di Terra Santa in Marocco festeggia un anno giubilare. «La libertà di culto, in Marocco, riguarda gli stranieri – spiega don Antoine Exelmans, parroco della chiesa francese di Oujda, Berkane e Saidia, al confine con l’Algeria –. È difficile che un cittadino marocchino sia considerato altro che musulmano, a livello sociale». Padre Antoine viene dalla Francia e, quattro anni fa, ha preso il posto di don Joseph Lepine, che per oltre quarant’anni aveva servito gli ultimi nella parrocchia di Saint Louis, fino alla sua morte, avvenuta nel novembre del 2014.

Un osservatorio particolare quello di Oujda, da sempre interessata da un massiccio transito di migranti sub-sahariani, in arrivo dall’Algeria. «Bisogna tentare di vedere in loro la divinità piuttosto che la diversità» soleva ripetere Lepine. Oggi padre Antoine prosegue sui suoi passi, continuando l’opera di accoglienza nei confronti dei migranti. «La chiesa è aperta al culto protestante – dice –, ed è animata da molti giovani africani, sia studenti dell’Università di Oujda, sia migranti. Cattolici e protestanti sono impegnati insieme nell’accogliere chi migra, che il più delle volte è musulmano. Abbiamo comprato dei tappeti, per permettere loro di pregare». Oltre a condurre la parrocchia di Oujda, padre Antoine è anche direttore dell’Istituto ecumenico al Mowafaqa, a Rabat. «Esiste una pulsione verso la conoscenza dell’altro – spiega –, ma è forte anche la barriera sociale, che ostacola l’avvicinamento». Pochi anni fa, furono diversi i casi di espulsione dal Paese, soprattutto di predicatori protestanti, con l’accusa di proselitismo. La misura riguardò anche un frate francescano egiziano.

Aveva bloccato la preghiera del venerdì, nella Moschea grande di Al Hoceima, invece, Nasser Zefzafi. Il leader del movimento popolare del Rif, Hirak el Shabi, è in carcere da ormai due anni. Lo scorso autunno è finito nella terzina finalista al premio Sacharov per i diritti umani. «Nasser protestava per l’azione politica dell’imam di Al Hoceima – spiega Reda Benzaza, attuale portavoce di Hirak –, che intendeva criminalizzare il nostro movimento pacifico». Una enorme sollevazione iniziata il 28 ottobre del 2016, con l’orrenda morte di Mouhcine Fikri, un pescivendolo di 31 anni. «Alcuni agenti gli avevano confiscato un carico di pesce spada – racconta Reda –. Per recuperarlo, Mouhcine si è gettato disperatamente all’interno di un camion della nettezza urbana. La macchina è partita inavvertitamente. E lui è morto triturato». Da allora, la protesta è diventata endemica in tutto il Rif. Qui la disoccupazione tocca i livelli più alti del Marocco. Non c’è un ospedale di livello, non c’è l’università, non c’è la ferrovia.

Per tirare avanti, molte donne diventano mujeres mulas, rischiando la vita per trasportare mercanzie dalle exclave di Ceuta e Melilla. «Ci sono centinaia di giovani in carcere, per il solo fatto di aver partecipato a delle pacifiche manifestazioni» dice Reda. Oggi vive a Malaga, dove coordina le attività del movimento in diaspora. A casa non può tornare. Anche su di lui pende un mandato di cattura. «Amnesty International ha più volte protestato contro Rabat – conclude –. Non può essere il carcere la risposta all’enorme domanda di giustizia sociale che arriva dal Rif».   

 

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Data di aggiornamento: 27 Marzo 2019
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