Lavorare? Insieme è possibile

Resistono alle mareggiate della crisi, creano occupazione e benessere con una formula che compie 170 anni e che imbarazza anche gli esperti. Alla scoperta della contagiosa vitalità delle cooperative e delle cooperative sociali italiane.
30 Gennaio 2014 | di

Se uno dicesse che nella crisi è cresciuto, come minimo lo guarderemmo storto. O ha barato o, peggio ancora, ha approfittato delle disgrazie altrui. Invece no. C’è un settore che, con tutti i «nonostante» del caso, non solo ha tenuto, ma si è addirittura sviluppato. È il sistema della cooperazione italiana, quel vasto universo di imprese che spazia dall’agricoltura alle costruzioni, dal commercio al trasporto, dalla comunicazione al terziario sociale, adottando la formula societaria della cooperativa. Ecco qualche dato significativo, ricavato dalle più autorevoli ricerche: nel Primo rapporto sulla Cooperazione in Italia (Censis, novembre 2012) si legge che le cooperative attive al terzo trimestre 2012 sono 80.844, oltre 10 mila in più rispetto al 2001. Il saldo positivo riguarda pure gli occupati, che sono in tutto 1 milione 341 mila (più 8 per cento dal 2007). La Cgia (Associazione artigiani piccole imprese) di Mestre aggiorna l’identikit a giugno 2013 (ricerca uscita in novembre) e conferma: la disoccupazione in Italia avanza dappertutto, ma i soci delle cooperative crescono. Dall’inizio della crisi (2008) sono aumentati del 6,2 per cento. Qual è il segreto?
 
Spazio ai pregiudizi
«Ho trovato lavoro!».
«Complimenti! Dove?».
«In una cooperativa».
«Ah…».
Questo ipotetico colloquio non è poi così lontano dalla realtà. Magari l’ultimo commento potrebbe non essere sempre così esplicito, ma è un fatto che tanti reagirebbero in questo modo alla notizia che un amico ha trovato lavoro in una cooperativa. Certo, oggi un lavoro onesto è già una benedizione, ma c’è un retro pensiero che associa l’impiego in cooperativa al precariato, a un lavoro «di serie B». Meno sicuro, retribuito e prestigioso rispetto al fantomatico contratto a tempo indeterminato in azienda, o al mito dell’imprenditore che si è fatto da sé. Ma mettiamo in fila qualche altro pregiudizio. «Ancora con le cooperative? È roba vecchia, residuale, ormai sorpassata». «Stanno in piedi solo perché sono ammanicate con la politica». «Per forza che prosperano: pagano un mucchio di tasse in meno». «E quelle sociali? Roba da handicappati». «È un mondo di sfruttamento e mancanza di diritti». La lista potrebbe proseguire, con toni più o meno accesi. Le cose stanno proprio così? Non esattamente. Molte accuse si basano sul «sentito dire», o su incomprensioni di lunga data. A volte l’attacco è ideologico, perché magari le cooperative fanno concorrenza ad altre aziende. Poi, e anche questo va messo in conto, ci sono singole mele marce che rischiano di infettare tutto il cesto: sono i casi di coo­perative degenerate o false, che fanno un gran danno alla collettività intera, come avviene per ogni forma di truffa.

Nel nostro Paese la porta più importante alla quale bussare per parlare seriamente dell’argomento è quella dell’«Alleanza delle cooperative italiane» (nata nel 2011), coordinamento delle tre principali confederazioni di cooperative, ovvero Agci, Confcooperative e Legacoop, che sono, tornando alle origini, le cooperative verdi (repubblicane), bianche (democristiane) e rosse (comuniste). «Basta con queste vecchie categorie, dalla caduta del muro di Berlino non hanno più ragion d’essere. Le usiamo ormai solo per pigrizia. Oggi continuiamo a riconoscerci nei tre colori, ma perché sono quelli della bandiera italiana». A parlare così è Gianfranco Poletti, presidente di Legacoop e allo stesso tempo presidente dell’Alleanza, che rappresenta «appena» 43 mila delle 80 mila cooperative italiane, «ma se guardiamo il numero degli occupati, delle attività, dei soci, del volume del fatturato – precisa Poletti – pesiamo per il 90 per cento del totale dell’esperienza cooperativa in Italia». Uno degli ultimi traguardi raggiunti (novembre 2013) è la firma di un’intesa col ministero dell’Interno per tutelare la legalità e contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività di impresa. «Lavoriamo in tutte le sedi per alzare più barriere possibili contro l’illegalità, perché per noi la falsa cooperativa è un disastro. Da una parte inquina il mercato e porta via lavoro alle realtà sane; dall’altra, rovina la reputazione di tutti. Quando ne beccano una, sul giornale esce la notizia che la cooperativa sfruttava i lavoratori. Ma è una contraddizione in termini: le cooperative sono fatte dai lavoratori, difficile che decidano di autosfruttarsi…».

Il presidente avvalla poi i dati della ricerca Censis: «L’impianto è confermato: nel 2013 l’occupazione in sostanza ha tenuto, anche se c’è stato un rallentamento. Non abbiamo più sviluppato lavoro con lo stesso ritmo. Nel momento in cui l’apparato produttivo nazionale è entrato in recessione, anche il mondo cooperativo ha sofferto, e tuttavia ha reagito bene, riducendo i margini di utile, ma salvaguardando l’occupazione». Sono i meccanismi compensativi interni, insomma, a garantire la solidità anche in tempi di magra. Soffermandoci ad analizzare i singoli settori, ci accorgiamo che a fare da traino sono le cooperative sociali (più 17,3 per cento dal 2007 al 2011) e le altre realtà del terziario, che si occupano di commercio e distribuzione, logistica e trasporti, ma anche credito e servizi alle imprese (più 9,4 per cento). Meno performanti i risultati dell’agricoltura, del manifatturiero e delle costruzioni.
 
Il volo del calabrone
Ma cosa si intende per «mondo cooperativo»? E, in definitiva, che cos’è una cooperativa? La domanda (che cerchiamo di sciogliere anche nel glossario a fianco) imbarazza perfino la scienza economica ufficiale, in quanto la cooperativa vive una tensione tra due anime che sembrerebbero escludersi a vicenda: da una parte quella economica – è un soggetto che opera nel mercato e ne accetta la logica –, dall’altra quella sociale, visto che persegue fini solidaristici. C’è chi è giunto a teorizzare tale ambivalenza associando la cooperativa a un calabrone. Per la fisica newtoniana, l’insetto non potrebbe volare: ha un corpo troppo pesante per quella così scarsa apertura alare. Eppure vola. Come fa? La risposta al dilemma la darà solo l’evoluzione della ricerca (nella fattispecie la fisica einsteiniana). Così anche noi, per capire come la cooperativa, nonostante tutto, non solo «vola», ma anche resiste meglio alla crisi, ci siamo rivolti alla scienza, e nello specifico a Stefano Zamagni, economista dell’Università di Bologna tra i massimi cultori della materia.

«Le cooperative – spiega l’esperto – hanno reagito alla crisi innanzitutto, se non in casi particolari, non licenziando, perché è nella loro natura realizzare obiettivi di utilità sociale, il più importante dei quali è il lavoro stesso dei soci. L’impresa capitalistica, invece, ha il fine di valorizzare il capitale investito, cioè il rendimento degli azionisti. Altre differenze: le cooperative non possono delocalizzare, né adesso né mai. Sono imprese di comunità che appartengono al territorio». Detta così, si potrebbe essere indotti a pensare che la cooperativa sia un’alternativa al capitalismo, ma il professor Zamagni ribatte: «È una tesi perdente, ormai rappresentata solo da pochi nostalgici del marxismo. La cooperativa non è alternativa, ma complementare al capitalismo. Un’economia di mercato, per ben funzionare, ha bisogno sia di imprese capitalistiche che di coo­perative che di altri soggetti. È una questione di democrazia, che non può riguardare solo la politica, ma l’intera società. È un punto faticoso da far capire. I guai della democrazia italiana sono dovuti al fatto che non c’è democrazia economica. Ai cittadini non è offerta la possibilità di scegliere tra forme diverse di impresa, dove lavorare e dalle quali comprare».

Questo porta a un passaggio fondamentale che da solo dovrebbe spazzare molte delle perplessità sull’esperienza cooperativa. Vale a dire: la cooperazione è un fenomeno che caratterizza i Paesi avanzati, non gli arretrati. Su questo concetto Zamagni insiste da tempo: «Ce lo insegnano sia la storia sia l’attualità. Più un Paese è progredito, più cooperazione ha. La cooperazione è nata 170 anni fa, nel 1844 in Inghilterra, perché allora quella era l’avanguardia mondiale. Oggi ci sono 2 milioni di cooperative negli Usa, senza parlare del Canada e dell’Australia. Viceversa, in Africa le cooperative sono poche, e così in America Latina e in Asia. Diverso il discorso per la Corea del Sud, che infatti è ormai la nona potenza industriale al mondo».

A Seul, l’1 dicembre 2012, è stata varata la prima legge che istituisce le cooperative nel Paese asiatico. «Ho aiutato a scriverla – rivela l’economista – e ho presenziato all’inaugurazione. Quando ho domandato perché avessero voluto fare questo passo, mi hanno risposto: “Perché vogliamo la democrazia”. E, in un anno dall’avvio, sono nate 3.200 cooperative». Questa forma di impresa nutre la democrazia di un Paese, anche perché a sua volta è gestita al suo interno in maniera democratica. E più la cooperativa è di grandi dimensioni, più la democrazia è salvaguardata, sostiene Stefano Zamagni: «Il buon senso suggerisce che l’identità si preservi meglio nel piccolo, ma è un abbaglio. Conoscenze pratiche ed elaborazioni teoriche ci dicono il contrario: nei piccoli gruppi si crea il groupthink, o pensiero di gruppo, quello che succede nelle sette, una dinamica che porta all’autodistruzione. Invece nel grande gruppo si sviluppa il pensiero critico. L’obiettivo di una cooperativa è diventare grande, e studiare a tavolino un modello di governo dell’impresa che preservi l’identità».

Tornando all’Italia, è proprio la teoria che lega sviluppo socioeconomico e sviluppo delle cooperative a spiegare perché queste imprese siano più diffuse al Nord. «È così – conferma Zamagni –, ma non per la cooperazione sociale, che negli ultimi quindici anni ha fatto passi da gigante anche nel nostro Meridione, tenendo in piedi il welfare. Inoltre la situazione si sta evolvendo, con cooperative intraprendenti (e ho in mente soprattutto la Sicilia) che stanno mettendo in pratica la vera sussidiarietà, quella circolare. Siamo a una svolta. Non funziona più la sussidiarietà orizzontale, con l’ente pubblico che “lascia fare” il terzo settore elargendo qualche spicciolo. La sussidiarietà circolare significa che i tre vertici (ente pubblico, imprese for profit e soggetti non profit) tra di loro dialogano e si integrano per la realizzazione di determinati obiettivi».
 
Frutto maturo del «made in Italy»
L’ultimo intervento del professor Zamagni ci spinge a focalizzare ora l’attenzione sulla realtà delle cooperative sociali. Nella centenaria storia del movimento questa forma di cooperazione è l’ultima nata, visto che è stata varata in Italia nel 1991. Gianfranco Poletti rivendica con orgoglio il primato: «Nell’elenco del made in Italy bisognerebbe mettere, oltre alla Ferrari e alla moda, anche la cooperazione sociale. Da tutto il mondo vengono da noi per vedere di che cosa si tratta: in vista della creazione di un nuovo welfare, considerano questa formula a un tempo moderna ed efficiente per realizzare quella relazione tra economia imprenditoriale e dimensione sociale che è la chiave per una società più equa». L’equità è fondamentale per chi fa cooperazione. Come stile, come prassi e come proposta alla società.

Ne è convinto anche Giuseppe Guerini, presidente nazionale della Federazione delle cooperative sociali (Federsolidarietà) di Confcooperative: «Da tempo ormai si è spezzato il meccanismo della crescita che aumenta con un effetto “alone” il benessere di tutti. Occorre rimettere al centro l’equità, che non può essere realizzata come intervento “redistributivo” operato dalla mano pubblica. Serve sviluppare un’economia maggiormente partecipata, che coinvolga più persone e socializzi di più i benefici prodotti, ridistribuendo la ricchezza nel momento e nel luogo in cui è prodotta. Noi cooperative lo facciamo da sempre». Ecco il motivo per cui, dati alla mano, chi opera nella cooperazione sociale può a giusto titolo ribattere a quanti credono che il welfare sia un lusso.

«Il sociale – rilancia Guerini – è un motore di sviluppo che nel decennio 2001-2011 ha contribuito per il 38 per cento al saldo occupazionale dell’Italia. Cura, educazione, assistenza hanno creato più posti di lavoro di tutti gli altri settori. Equità e coesione sono fonte di sicurezza e di maggiore progresso, altro che lusso!». Del resto, se abbiamo fissato al 1991 la data di nascita, i conti sono presto fatti: le cooperative sociali italiane (secondo l’ultima rilevazione Istat 2011) sono 12 mila, occupano 365 mila lavoratori, realizzano un fatturato che si attesta sui 12 miliardi di euro, prestano servizi a 7 milioni di cittadini.

Tutto questo lavoro, che vent’anni fa non esisteva, ha un futuro? Secondo Guerini sì, anzi, ha più ragione d’essere ora che quando le cooperative sociali sono nate. «Abbiamo di fronte una serie di sfide che ci interpellano da vicino. Le elenco velocemente: la non autosufficienza (nel 2020 gli over 75 in Italia saranno 7,5 milioni); la disoccupazione giovanile e il fenomeno dei neet, i ragazzi che non studiano né lavorano; l’aumento della povertà assoluta e relativa, con tante famiglie che hanno crescente necessità di presa in carico; l’aumento della fragilità delle famiglie e, di conseguenza, dell’infanzia; l’aumento del degrado dei beni culturali e dei beni comuni, come parchi, giardini ecc. Come terziario sociale abbiamo un apporto da dare a tutte queste emergenze, purché troviamo ascolto in chi gestisce la Pubblica amministrazione».
 
Per una politica del bene comune
Il rapporto con l’ente pubblico ha mille sfaccettature. C’è chi ha accusato la cooperazione sociale di un’eccessiva vicinanza al politico di turno, ma ormai non è più così: le casse pubbliche languono, e per stare in piedi bisogna camminare con le proprie gambe. Poi, come se non bastassero i tagli al sociale e la crescita dei bisogni delle persone più fragili, le cooperative hanno anche rischiato, con l’ultima legge di Stabilità, la beffa di pagare un’Iva maggiorata del 150 per cento (dall’attuale 4 al 10 per cento).

Il pericolo, oggi scongiurato, aleggiava ancora quando, il 13 dicembre scorso, 5 mila rappresentanti del terzo settore, tra cui molti soci delle cooperative sociali, stipavano il Palazzo dello sport di Padova per incontrare i politici, a tutela del modello di welfare veneto. Dalla composita assemblea di «Siamo il sociale» (questo il nome della manifestazione) ci si poteva attendere richieste di sostegno economico, critiche per la «bella vita» dei politici a discapito dei più deboli, o per il disinteresse con cui «chi comanda» sembra occuparsi del sociale. Invece no: la voce principale della manifestazione, affidata a Ugo Campagnaro, presidente di Federsolidarietà Veneto, ha chiesto a Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, non soldi, ma sana politica. «Le buone leggi non costano nulla, solo tempo e fatica. Se c’è una difficoltà, dacci una rotta. Vogliamo uno sforzo ulteriore di coordinamento e di coinvolgimento, anche nell’acuirsi dei problemi».

Giuseppe Guerini controfirma l’appello: «La vera strada da perseguire è una buona politica che amministri nell’interesse del bene comune, e un pieno riconoscimento del ruolo pubblico che le formazioni sociali già hanno. Dobbiamo essere un pungolo costante e al contempo dei risolutori di problemi. Lo ha detto benissimo anche papa Francesco nell’intervista a “La Civiltà Cattolica”: bisogna stare sulle frontiere e abitarle. Fare impresa sociale efficiente significa proprio questo».
  

Glossario

- Articolo 45. È l’articolo che la nostra Costituzione dedica alla cooperativa: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità».

-Cooperativa. È un’impresa collettiva a capitale variabile formata da persone che si riuniscono per raggiungere e soddisfare un bisogno comune. Requisiti essenziali sono il fine esclusivamente mutualistico e la democrazia nella gestione dell’impresa, secondo il principio «un socio – un voto».

-Cooperative sociali. Sono un sottoinsieme del mondo delle cooperative. Si differenziano per l’attività svolta e per i soggetti coinvolti. Sono nate in Italia nel 1991 (legge 381). Ne esistono due diverse tipologie.

-Cooperativa sociale di tipo A. Si occupa di progettazione e servizi alla persona, come quelli educativi, socio educativi, assistenziali e socioassistenziali.

-Cooperativa sociale di tipo B. È finalizzata all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, che devono costituire almeno il 30 per cento dei lavoratori della cooperativa.

-Socio. È la persona fisica o giuridica che partecipa a vario titolo all’impresa cooperativa, attraverso la sottoscrizione di una quota di capitale sociale. I soci possono essere: soci cooperatori, soci finanziatori e, nelle cooperative sociali, anche soci volontari.
 
 

Giancarlo Bregantini
Il nostro e il mio a braccetto

 
Monsignor GianCarlo Bregantini non ha bisogno di presentazioni per i lettori del «Messaggero di sant’Antonio»: l’arcivescovo di Campobasso-Bojano è da anni un apprezzato compagno di strada della nostra rivista. Lo abbiamo interpellato sul tema di questo dossier sia per la sua sensibilità personale che per l’incarico in seno alla Cei, dove è presidente della Commissione per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace.

Msa. Quali sono, per la dottrina sociale della Chiesa, i punti di forza della formula della cooperativa?
Bregantini. Sono tre, ormai ben definiti fin dalla Rerum novarum del 1891. Primo: nella cooperativa la dignità della persona è salvaguardata, in quanto ognuno si sente protagonista. Però il socio non è protagonista assoluto, ma in relazione. Per esempio, in Val di Non, sia chi fa confluire mille quintali di mele, sia chi ne porta cento, ha comunque solo un voto in assemblea. Ciò rende la persona umile, protagonista sì, ma collegata insieme. Terzo punto, il sostegno reciproco, in caso di difficoltà. In pratica, per dirla con una formula da lavagna, le cooperative stanno a metà tra liberalismo puro (il mio senza il nostro) e socialismo esasperato (il nostro senza il mio). Le cooperative sono il nostro e il mio. Questa è la grande ricchezza della dottrina sociale della Chiesa. È salvato il nostro, ma è salvato anche il mio.

Lei stesso ha ispirato, nella sua missione di vescovo, la nascita di alcune cooperative, in particolare nella Locride. Qual è stata la sua esperienza e che ricordo ne serba?
È un ricordo complesso. Creare una cooperativa è entusiasmante, ma è anche faticoso portarla avanti. Posso dire che la cooperativa è una formula vincente, perché ha un impatto positivo anche in luoghi difficili. Ma a patto che si punti molto sulla formazione delle persone. Perché, prima ancora della cooperativa, ci sono i cooperatori. Puntare sulla qualità, sulla dignità e sulla responsabilità dei singoli, curando la motivazione. Inoltre, non deve essere l’aspetto economico a reggere e a sostenere la cooperativa: la persona prima dei soldi, l’idea prima del guadagno.

Quanto conta la dimensione spirituale dei lavoratori di una cooperativa cattolica?
È fondamentale. In genere a reggere sono le realtà che partono da un humus cristiano e religioso molto forte, che porta a dire: visto che siamo già in una comunione spirituale e pastorale operativa, possiamo trasformare la comunione in cooperazione. Poi non bisogna essere nemmeno buonisti: la cooperativa deve guadagnare e avere il suo giusto rilievo anche finanziario. Le buone intenzioni non bastano.

Papa Francesco, nel messaggio per il Festival della dottrina sociale della Chiesa, ha auspicato che la cooperativa possa «rivestire di novità la continuità». Come si fa?
È la grande domanda che si pongono, ad esempio, le cooperative trentine e venete centenarie. Bisogna tornare alle radici, alle ragioni motivazionali dell’agire. Va tenuto presente il sapore delle origini, perché così si reimpara il coraggio di ieri. E poi far sì che una cooperativa consolidata ne aiuti una giovane. È una fatica provvidenziale, che fa aprire gli occhi, che stimola, ringiovanisce e rinnova.

La cooperazione cattolica è nata con la Rerum novarum. Ora, l’ultima enciclica sociale è la Caritas in veritate di Benedetto XVI: porterà a un nuovo protagonismo dei cristiani in campo economico?
Magari! Ma non vedo grandi stagioni. Un tempo avevamo più drammi che ci spingevano a rischiare: oggi piuttosto che rischiare si conserva. C’è però un segnale positivo e maturo: le cooperative nate al Sud dal progetto Policoro. Sono ancora di nicchia, senza un vero impatto economico, ma creano germogli di speranza molto belli. Tant’è che oggi la Chiesa italiana sta espandendo il progetto Policoro anche alle diocesi del Nord, perché è l’unica formula che regge di fronte a una crisi così grave.


Zoom
Le cooperative espressione dei frati

 
Così papa Francesco, lo scorso 21 novembre, tornava con la memoria al suo primo incontro con la cooperazione: «Avevo 18 anni, anno 1954, e ho sentito mio padre fare una conferenza sul cooperativismo cristiano e da quel tempo mi sono entusiasmato (...), ho visto che quella era la strada. È proprio la strada per un’uguaglianza, ma non omogeneità, un’uguaglianza nelle differenze». Lavoro e uguaglianza nelle differenze è anche ciò che si trova nelle due cooperative sociali espressione dell’impegno di carità dei frati conventuali della Provincia italiana di sant’Antonio. Sono la «Emmekappa», nata in seno al Villaggio Sant’Antonio di Noventa Padovana (PD), e la «Montericco», promossa dalla Comunità terapeutica San Francesco di Monselice (PD). Non è casuale il collegamento con i due poli della carità dei frati: entrambe le realtà sono sbocchi naturali di percorsi di accoglienza e integrazione sociale degli «ultimi», ovvero giovani con disabilità lieve, minori problematici, migranti non accompagnati e vittime della tratta (la «Emmekappa»); persone che hanno fatto un percorso di liberazione dalle dipendenze (la «Montericco»).

La prima a nascere è la «Emmekappa» (che prende il nome dalle iniziali di san Massimiliano Kolbe). Il frutto del lavoro della cooperativa lo avete tra le mani, perché il principale impegno di questa realtà è la cellofanatura industriale e la spedizione del «Messaggero di sant’Antonio». Oggi i soci lavoratori (nella foto) sono dodici, ma in circa quindici anni sono passati un centinaio di ragazzi, di cui il 70 per cento ha poi trovato un impiego. «Il clima di collaborazione – spiega fra Giancarlo Capitanio, presidente della cooperativa – ha contagiato ogni ambito di vita. Così le attenzioni reciproche vanno al di là dell’orario di lavoro».

Più recente la nascita della «Montericco», attiva dal 2005, impegnata in tre settori. Innanzitutto la floricoltura, con la gestione di due serre per un totale di 13 mila metri quadri di tunnel riscaldati. Suo fiore all’occhiello è il marchio «mamme for baby», creato per sottolineare che nella floricoltura lavorano prevalentemente ragazze madri. Il secondo ambito è l’ecologia, con la raccolta dei rifiuti e la gestione di alcuni ecocentri. Infine, la componente dei servizi, con la manutenzione delle strutture della comunità San Francesco e la promozione di attività ecologiche per conto di aziende municipalizzate.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017