Lampedusa, l'isola che accoglie

Gli sbarchi sono sempre più sporadici. Ma questo lembo di terra non cancella la memoria e, con essa, la propria identità di porto aperto.
09 Aprile 2019 | di

«Non so se ringraziare il cielo o maledire il fatto che siamo così lontani da non sentire le urla di chi sta in Libia». Si affaccia sul mare lo studio di Paola La Rosa, avvocato, attivista e membro del forum solidale di Lampedusa. Alle sue spalle, una fotografia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Nelle sue parole, la lunga e a tratti dolorosa testimonianza di una vita trascorsa in una terra di frontiera. «Abbiamo vissuto momenti drammatici.  Ma anche straordinari: non bisogna dimenticare che su questo scoglio decine di migliaia di persone hanno trovato la salvezza. Qui, iniziavano una nuova vita. Ora, non accade quasi più».

L’assenza, su quest’isola spazzata dal vento che qui chiamano scoglio, sembra l’unica costante presenza. Gli sbarchi sono divenuti sempre più sporadici. Le orbite vuote dell’hot spot, circondato da fil di ferro masticato dalla ruggine, parlano di un’accoglienza che mai, anche in passato, ha rinunciato completamente alla sua tendenza securitaria.

Una tendenza che la recente politica dei porti chiusi ha esasperato. Secondo il sindaco, Salvatore Martello, si tratta di un’operazione esclusivamente mediatica: «Perché si continua a dire che i porti sono chiusi? A me non risulta. Il problema vero è un altro. Si vuole cancellare l’idea che nel Mediterraneo ci sia un’isola, italiana, in cui si è fatta accoglienza senza mai chiedere nulla in cambio. Ognuno di noi, in famiglia, ha un pescatore: come potremmo non soccorrere quando le nostre barche, molte volte, sono state a loro volta soccorse? Fino a quando non sarà cancellata la memoria o la stessa identità dei lampedusani, l’accoglienza non sarà in discussione. Il porto di Lampedusa è aperto».

Alberto Mallardo sullo scoglio ci vive e lavora da quattro anni.  Laureato in antropologia, è field coordinator di «Mediterranean hope», il progetto creato dalla federazione delle Chiese evangeliche in Italia nel 2014 per provare a rispondere alle sfide poste dalle nuove migrazioni nel Mediterraneo.

Dal suo arrivo sull’isola il tentativo è stato quello di stabilire un osservatorio che fosse in grado di registrare l’evoluzione del fenomeno migratorio e rispondere contemporaneamente a situazioni di emergenza. «Negli ultimi quattro anni sono oltre 40 mila le persone arrivate sull’isola. Oggi però ci troviamo in una situazione diversa. L’accoglienza promossa dal governo italiano con l’operazione “Mare nostrum” ha lasciato il posto a una frontiera militarizzata il cui primo obiettivo è evitare che le persone attraversino il confine del Mediterraneo. Negli ultimi mesi abbiamo registrato una drastica riduzione degli arrivi: il mare è stato trasformato in un deserto, non è più possibile avere notizie certe circa la sorte delle persone che partono».

È nell’ambiguità delle parole che si gioca la partita. Il governo libico, riconosciuto dallo Stato italiano, non governa nemmeno se stesso. A gestire la Libia, e i campi di detenzione, sono le milizie. Le stesse che i giornali si ostinano a chiamare «guardia costiera libica».

Una delle sei persone recentemente sanzionate dall’ONU con l’accusa di traffico di esseri umani risulta infatti essere proprio Abd al Rahman al Milad, già capo della guardia costiera libica di Zawija, finanziata con denaro italiano ed europeo per un ammontare complessivo di 46,23 milioni di euro circa. Secondo le accuse contenute in un’indagine delle Nazioni unite, l’uomo che guidava le operazioni di soccorso risultava essere, anche, il terminale  di una rete di trafficanti.

Già nel febbraio 2018, alla vigilia del secondo anniversario della firma del Memorandum d’intesa sottoscritto tra Italia e Libia il 2 febbraio 2017, voluto per impedire le partenze di migranti e rifugiati verso l’Europa, Amnesty International ha chiesto l’immediato rilascio di migliaia di persone intrappolate nei centri di detenzione libici in condizioni disumane. Nel solo 2017 circa 20 mila persone sono state recuperate in mare dalle milizie della guardia costiera libica e riportate nei terribili centri di detenzione del Paese.

A parlare esplicitamente di olocausto, sull’isola, è il medico Pietro Bartolo. «Ciò che accade oggi è più grave di quanto accaduto settant’anni fa nei lager nazisti. Non nei numeri, ancora. Ma perché noi sappiamo. Ci sono prove ed evidenze di ciò che accade in Libia, non abbiamo nessun alibi. Quando verrà il momento non sarà l’Europa a risponderne. Sarà l’Italia, in quanto promotrice e responsabile degli accordi stretti con la Libia. Vede, i finanziamenti europei destinati alla Turchia hanno permesso la realizzazione di campi profughi in cui la sicurezza è garantita. Quelli destinati alla Libia hanno prodotto dei campi di concentramento in cui le persone muoiono, subiscono torture e stupri, sono ridotte in schiavitù. La differenza è sostanziale. Stiamo parlando di esseri umani: non dobbiamo dimenticarlo».  

L’articolo completo, con altre testimonianze, è sul «Messaggero di sant’Antonio» di aprile 2019 e nella corrispondente versione digitale.

 

 

Data di aggiornamento: 09 Aprile 2019
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