La pace pesante del 1919

La guerra ha spazzato via un mondo. Minacce e speranze per vincitori e vinti, agitazioni e opportunità per reduci e orfani: il cruciale 1919, un secolo dopo.
23 Maggio 2019 | di

È tempo di tornare. Smobilitazione generale. Gli eserciti si sciolgono. Il 3 novembre 1918 si firma l’armistizio per l’Italia, l’11 tacciono le armi pure sul fronte occidentale. Chi può, torna. Non così i circa 8 milioni e mezzo di militari uccisi. Chi può, torna sulle proprie gambe. Non così gran parte dei circa 6 milioni di invalidi (20 milioni i feriti). Chi può, torna alla propria casa. Le vittime civili furono molte (non come nella seconda guerra), con l’aggravio della pandemia di influenza detta «spagnola», causa a livello mondiale di più decessi del conflitto stesso (vedi 1918 L’influenza spagnola di Laura Spinney, Marsilio 2018). Per inciso: tra le vittime ci sono i piccoli veggenti di Fatima, Giacinta e Francisco Marto.

Il primo centenario della grande (sia detto, con rispetto parlando, in minuscolo) guerra che abbiamo celebrato a partire dal 2014 non può concludersi senza fare i conti con le macerie – più che fisiche – lasciate nella società europea. In filigrana, molti punti di contatto con l’oggi, a saperli leggere. Emblematico risulta allora il 1919, anno strano, di attese e di speranze, di disagi e illusioni. «L’anno in cui si toccò la punta più alta di disordine sociale nei paesi occidentali», come sentenzia Eric J. Hobsbawm nel suo fondamentale Il secolo breve (Rizzoli 2000).

 

La memoria del conflitto

È finita la guerra! Non si fa quasi in tempo a festeggiare che finisce pure il 1918, presto archiviato come l’anno della vittoria, della svolta, comunque della tanto agognata fine del logorante conflitto. Riposti i taccuini degli appunti di trincea, penna e calamaio della diaristica e delle lettere dal fronte, s’innesca la riflessione su quanto vissuto. Parte il processo della memoria. Il racconto ai familiari, il racconto a se stessi. Si era soldati; si è ora «reduci», sopravvissuti, precisamente «i ritornati». Da che cosa? Da «una spacconata d’Annunziana» scrive Aldo Palazzeschi, prendendosela con la spettacolarizzazione della guerra per aria e per mare prodotta da Gabriele D’Annunzio. Del resto, buona parte degli scrittori e degli intellettuali era stata convintamente interventista nel 1914 e ’15. Palazzeschi compreso. Prende le distanze ora, a caldo, nel 1920. Altri impiegheranno ben più tempo, anche decenni, nel rimettere in ordine i ricordi. Emilio Lussu pubblica Un anno sull’Altipiano nel 1938. Carlo Emilio Gadda dà alle stampe Giornale di guerra e di prigionia nel 1955. A studiare il fecondo rapporto tra letteratura e prima guerra mondiale è in particolare lo storico Mario Isnenghi, con Il mito della grande guerra (il Mulino 1989) e successivi contributi.

Ma nel processo di costruzione della memoria non è solo la penna, per quanto sferzante e puntuale, a intervenire. Pur rivolgendosi sempre a un pubblico, la scrittura resta un atto solitario; quando poi la narrazione supera il livello personale diviene collettiva, comunitaria, quindi politica. Ecco che la memoria dell’immane conflitto, fin da subito, si esprime nelle piazze di paese affidandosi al marmo e alla scultura: sono i monumenti ai caduti. Non sono tutti uguali, come sottolinea Isnenghi in Le guerre degli italiani (il Mulino 2005). Quando, a seguito della Marcia su Roma (1922), «si diffonde il culto della guerra come habitat naturale del nuovo e più energico italiano del tempo di Mussolini, certi monumenti dei primi anni appariranno, ai più intransigenti, datati e pericolosamente inclini a suggestioni da “inutile strage”», laddove si sottolinea nel militare l’uomo qualunque, il soldato semplice, la vittima, in un’accezione funebre che lo vede spesso abbracciato, morente, da una presenza femminile, materno simbolo dell’Italia.

Questa prima fase, spesso anche locale, è legata a una genesi spontanea, di ricordo più personalizzato. Andrà irreggimentandosi con il passare del tempo, e non solo in Italia, come dimostrano i monumenti sul fronte occidentale, quasi che l’unico modo per celebrare il sacrificio di milioni di uomini sia esaltare la guerra e le virtù militari. In Italia, precise direttive nazionali avvieranno dal 1928 la stagione della memoria monumentale, con lo smantellamento degli originari piccoli cimiteri di guerra, sorti nelle immediate vicinanze dei campi di battaglia, a favore degli imponenti ed «eroici» edifici a gradoni, a torre o ad arco di trionfo, dove trovano definitiva sepoltura decine di migliaia di caduti: ecco il Grappa, il Montello, Redipuglia, Asiago…

Si parla di «sacralizzazione», ma è forse tempo di prendere le distanze da una certa ambiguità, come già Andrea Zanzotto chiedeva in Rivolgersi agli ossari (1978): «la patria bidonista, / che promette casetta e campicello / e non li diede mai, qui santità mendica, acquista», tanto da far sentire in colpa, e quasi sporchi. «Mi avete investito, lordato tutto, eternizzato tutto, un fiotto di sangue» constata il poeta. Al tempo, fu un programma politico ben preciso, un’adunata di massa, che oggi ha almeno il vantaggio di innescare il pensiero e la pietà per le tante vite spezzate, di tante diverse nazionalità: gli ex nemici riposano l’uno a fianco all’altro, insieme, finalmente in pace.

 

Il dossier completo «La pace pesante del 1919», con le interviste agli storici Giovanni Sabbatucci e Sandro G. Franchini, sulla nascita della Società delle nazioni, del fascismo, il tragico mito della vittoria mutilata, il ruolo dei cattolici, è pubblicato sul numero di maggio del «Messaggero di sant’Antonio» di carta e nella corrispondente versione digitale!

Data di aggiornamento: 23 Maggio 2019
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