Javier Zanetti. Capitano a tutto campo

Amato dagli interisti ma guardato con grande rispetto da tutte le tifoserie, la «bandiera» dell’Inter si racconta, tra calcio, fede, papa Francesco, amicizia con i frati, carità. Senza nascondersi.
27 Febbraio 2014 | di

Una pioggia battente spazza i campi della Pinetina di Appiano Gentile, provincia di Como, dove l’Inter si ritrova per l’allenamento in vista della gara con il Cagliari. Prima della seduta di palestra, mi raggiunge in sala stampa il capitano di tante battaglie, Javier Zanetti, il volto più noto della squadra, amato dagli interisti ma guardato con profondo rispetto da tutte le tifoserie e da tutti gli sportivi. So di non potergli rubare troppo tempo: non si perderebbe nemmeno un minuto di allenamento, fosse per lui. Non a caso lo chiamano «El Tractor», certo per le travolgenti discese palla al piede sulla fascia, ma anche per la sua infaticabile passione per il lavoro e la preparazione, che gli permettono di essere ancora protagonista pur avendo già soffiato le 40 candeline. L’altro soprannome è più scherzoso, «Pupi», coniato fin da ragazzino dal fratello, per via di una fidanzatina in vena di smancerie che così lo chiamava. Ora Pupi è diventato il nome della Fondazione che Zanetti ha creato in uno dei quartieri periferici di Buenos Aires, sua città natale, per dare opportunità di crescita ai bambini di strada.

Il racconto della sua attività caritativa è uno dei punti di forza del libro autobiografico Giocare da uomo (Mondadori, 2013), scritto con Gianni Riotta, dove vent’anni di calcio si intrecciano a considerazioni sulla fede cristiana (di cui non ha mai fatto mistero), su papa Francesco, sull’Argentina e sull’Italia.

Msa. Lei ha giocato più partite di ogni professionista in attività, ha battuto ogni record di presenza tanto nell’Inter quanto nella nazionale argentina. Qual è il suo segreto?
Zanetti. Credo non ci siano segreti. La mia longevità agonistica è frutto della passione che ci metto, dell’amore per questo sport, che ho fin da quando ero bambino e che ho portato avanti per tutta la carriera.

D’accordo, però sono tante le persone che amano il calcio, e tuttavia non hanno avuto una carriera come la sua…
Sì, io ho avuto anche la fortuna di arrivare qui all’Inter molto giovane – era una sfida – e di confermarmi, di crescere non soltanto come calciatore ma come uomo, di acquisire una maturità che mi ha permesso in tutti questi anni di giocare ad alti livelli.

Quando ha capito che per lei non ci sarebbe stata altra squadra di club che l’Inter?
Credo che fin dall’inizio sia nato uno speciale affetto, un amore con i tifosi e con la famiglia Moratti… Ricordo che arrivai nel 1995 e incontrai da subito un ambiente molto famigliare, che mi andava a genio. Per un ragazzo tanto giovane era davvero importante: venivo da un altro Paese, ero e mi sentivo straniero. Invece mi sono trovato come a casa, a mio agio.

La vita di un atleta è fatta di gioie, ma anche di delusioni: ha qualche rimpianto?
No, non ho rimpianti. In tutti i momenti, nelle diverse stagioni e nelle diverse circostanze, ho sempre fatto quello che sentivo più giusto. Magari in alcune occasioni ho sbagliato, ma anche gli errori aiutano a crescere, a vedere le cose sotto un’altra prospettiva che non avevi considerato.

Che cosa suggerirebbe a un ragazzo che sogna di diventare calciatore professionista?
Se veramente ha questo sogno, lo spronerei a migliorarsi di continuo, a mettercela tutta. E, soprattutto, gli consiglierei di vivere il calcio come un vero gioco e un vero sport, con dei valori importanti. Poi la fortuna aiuta, ma l’importante è dare sempre il massimo.

Che cosa farà «da grande», quando appenderà le scarpette al chiodo?
Ho sempre ribadito che mi piacerebbe rimanere nella grande famiglia dell’Inter, rendendomi utile, magari, se non più dentro il campo, almeno fuori. Mi auguro di riuscirci. Ho legato la mia carriera e la mia vita a questa grande società che ha una storia bellissima alle spalle: spero di continuare a contribuire, magari in altra veste, ai prossimi successi.

Leggendo Giocare da uomo si capisce che lei non si accontenta di essere passato a colpi di record nel calcio: vorrebbe proprio cambiarlo. Come?
Mi piacerebbe che il mondo del pallone vivesse solo di sport, che si lasciassero fuori le polemiche e tutte le cose che fanno male a questo bellissimo gioco. Vorrei ci si potesse concentrare solo su quanto l’atleta può offrire al pubblico, senza le polemiche che poi ci sono dietro e che alle volte, anzi direi troppo spesso, vengono prima del calcio giocato.

Nel libro chiede anche un maggior coinvolgimento dei giocatori, sia quando si cambiano le regole di gioco, sia nello stilare il calendario delle gare, mettendo un tetto di quarantacinque partite a stagione, contro le sessanta che alcuni giocatori devono affrontare nel corso di un anno.
Sì, il giocatore deve essere informato e coinvolto in queste scelte, perché siamo noi i protagonisti del gioco. Chi meglio di noi può dare un parere su quanto viene deciso sulle nostre teste?

Di «bandiere» nel campionato italiano siete rimasti lei, Totti, Buffon… Siete figure amatissime dai tifosi, ma che nel calcio di oggi sembrano in via di estinzione. Hanno un futuro?
Purtroppo i tempi sono cambiati. Per tanti motivi le «bandiere» sono sempre meno. Come dicevo prima, io ho avuto la fortuna di arrivare in una grande società come l’Inter, che fa parte di me, che mi ha sempre fatto sentire a casa mia. A Totti, a Del Piero quando giocava in Italia, a Pao­lo Maldini con il Milan penso sia successo lo stesso. Però mi rendo conto che è difficile portare avanti questo stile.

Il libro è dedicato alla sua famiglia. Quanto conta per lei?
Tantissimo. Credo che l’armonia all’interno della famiglia sia fondamentale per uno che fa il mio lavoro, ma anche per qualunque persona impegnata in qualsiasi mestiere. Per un calciatore, in ogni caso, è davvero molto importante.

Eppure, come spiega nella prima pagina del testo, lei si è allenato anche il giorno del suo matrimonio…
Sì… (sorride) Ho un grande rispetto per la mia professione e allora, anche il giorno delle nozze, che erano un appuntamento evidentemente per me decisivo, ho trovato un po’ di spazio per potermi allenare. Quindi – perché no? – l’ho fatto...

Quanto ha inciso la sua infanzia per l’uomo che è oggi, e per l’impegno sociale con i bambini, con la Fondazione Pupi?
Molto. L’educazione che mi hanno dato mamma Violeta e papà Rodolfo ha avuto grande peso. E certo, è legata anche all’aver creato la Fondazione per aiutare i bambini e per dare loro un’alternativa valida alla povertà e all’indigenza. È un’attività che mi sta davvero a cuore.

Se da bambino, giocando a calcio, lacerava le scarpe – racconta nel libro – doveva rammendarle a mano, perché le dovevano servire anche per andare a scuola. Sembra che la sua capacità di non arrendersi mai abbia radici lontane... Riesce a trasmettere questi valori anche ai suoi figli?
I miei figli vivono di sicuro un’altra realtà, ma ogni volta che posso cerco di parlare loro e di trasmettere ciò in cui credo. Ora lo faccio soprattutto con Sol, la mia primogenita, che ha 8 anni e comincia a capire tante cose. Già di suo, quando andiamo in Argentina, si porta dietro i giocattoli che non usa più per darli ai bambini seguiti dalla Fondazione. È una sua attenzione che per me ha un grande valore. Inizia a capire che non tutto è dovuto, e che nella vita senza sacrificio non si ottiene niente.

Quali traguardi vorrebbe raggiungere con la Fondazione?
La situazione in Argentina continua a essere veramente problematica. Io e gli altri amici impegnati nella Fondazione speriamo, nel nostro piccolo, di poter continuare a dare un contributo per un futuro migliore.

Quando si è incontrato con papa Francesco avete bevuto insieme il mate (la bevanda tipica argentina, ndr)?
No, non l’abbiamo bevuto, però ci è mancato solo quello! È stato un incontro molto importante, sentito, fraterno: uno di quei momenti che non dimenticherò mai. Per fortuna era presente anche la mia famiglia. I miei tre figli erano emozionatissimi. Sanno di aver avuto una grande fortuna a poter conoscere una persona così, dal cuore enorme, molto umile. È chiaro che sono contento ci sia un Papa argentino ma, al di là di questo, credo sia un bene per il mondo intero che Francesco riesca con tanta naturalezza a trasmettere tanto amore.

Che cosa vi siete detti?
Abbiamo parlato di svariate cose. Il Papa è anche un grande appassionato di calcio, tifoso di una squadra famosa in Argentina, il San Lorenzo… Abbiamo parlato pure della Fondazione. Credo che siamo di fronte a una persona capace di uno sguardo su tutto l’uomo, capace di abbracciare l’essere umano in ogni suo aspetto.

Quanto è importante la fede, anche nella sua carriera sportiva?
Moltissimo. Mi ha accompagnato fin da bambino, fin da quando mia madre mi portava in chiesa. È stata lei a trasmettermi il cristianesimo: quegli insegnamenti sono le fondamenta della mia fede ancora oggi.

Come è nata la sua amicizia con i frati conventuali, e in particolare con uno di loro, fra Renato Gatti?
Ho conosciuto i francescani grazie a un amico, Stefano, che una volta mi ha portato nella loro chiesa. Ho pranzato insieme con tanti bambini dell’oratorio, e da lì è nata questa amicizia. Con fra Renato ci sentiamo prima di ogni partita per una benedizione. È un legame davvero forte.

So che ha una venerazione particolare per santa Rita, ma anche per padre Pio. Conosce sant’Antonio?
Certo! Anche se devo confessare che santa Rita mi è particolarmente vicina. Col mio compagno e amico Esteban Cambiasso abbiamo aperto una scuola di calcio, i «Leoni di Potrero», vicino al quartiere Barona di Milano, proprio dove c’è un santuario della santa. Da lì ho iniziato a frequentare quella chiesa, a portare dei fiori… Tra l’altro il famoso 22 maggio del 2010, quando abbiamo vinto la Champions Lea­gue, era proprio il giorno di santa Rita, che ci ha accompagnato nella finale. Ci sono tanti episodi, tanti ricordi belli che mi collegano a lei.      
 
 
Biografia
Javier Adelmar Zanetti nasce a Buenos Aires il 10 agosto 1973 da una famiglia di origini friulane. Cresciuto nel sobborgo di Dock Sud, si appassiona al calcio fin da piccolo. Per mantenersi svolge i lavori più disparati – dal postino al fattorino del latte –, finché firma il suo primo contratto da professionista nel Talleres. Dopo due anni nel Banfield, lascia l’Argentina e sbarca in Italia per approdare all’Inter. Già nel 1999 diventa capitano della squadra. Nello stesso anno sposa Paula de la Fuente, che gli darà tre figli: Sol, Ignacio e Tomas. Con l’Inter ha vinto tutto. Memorabile in particolare la stagione 2009-2010 sotto la guida di José Mourinho.

Assieme alla moglie, nel 2002 crea la Fondazione Pupi, a sostegno dei bambini disagiati di Buenos Aires. Dopo la biografia Capitano e gentiluomo (Rizzoli, 2009), Zanetti è tornato in libreria con Giocare da uomo (Mondadori), scritto insieme con Gianni Riotta. 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017