Il fascino sinistro dell’utopia islamica

Che cosa rende l’IS, lo Stato islamico, tanto attraente agli occhi di molti? Per combattere in modo efficace il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, l’Europa deve rispondere a questa domanda. Oltre a stipulare un’alleanza con i musulmani che la abitano.
28 Ottobre 2014 | di

Quella dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, delle sue milizie e dello Stato Islamico che su di esse si fonda in Siria e Iraq (ISIS, Islamic State in Iraq and Syria, oggi semplicemente IS) è una real­tà in rapida e, per certi versi, stupefacente espansione. Sconosciuta ai più fino a pochi mesi or sono, quando era solo una delle tante milizie islamiche che combattevano governi dittatoriali del Medio Oriente, è diventata rapidamente un punto di riferimento, nel bene e nel male, nell’islam globale, e per l’opinione pubblica occidentale.

Gli efferati delitti di cui si è macchiato, inclusa la persecuzione sistematica delle minoranze (cristiani, yazidi, turcomanni), anche delle minoranze interne come musulmani sciiti nonché sunniti considerati nemici, ne hanno fatto un attore di spettacolare importanza. Più temibile di al-Qaeda, oltretutto. Perché quest’ultima era un’organizzazione terroristica, per quanto forte e influente: e quindi de-territorializzata, chiusa, con obiettivi mirati, che aveva bisogno di personale specializzato, temeva le infiltrazioni, e in cui era quindi difficile entrare. Mentre il califfato è una realtà territoriale, aperta, che richiama combattenti da tutto il mondo, che proclama di aver realizzato o stare realizzando la società ideale, in cui vige la shari’a, cioè la legge di Dio: una specie di utopia ideale, in nome della quale combattere. Ed è questo elemento che sfugge a molti osservatori. Chi parte, dall’Indonesia o dalla Gran Bretagna, per andare a combattere sotto le bandiere dell’IS, lo fa per un ideale, per quanto discutibile. C’è quindi un elemento di fascino e di seduzione che sfugge a chi non si identifica in esso.

Costruire una società giusta, vivere in pienezza i propri ideali, combattere per realizzarli, sono stati da sempre una forte componente di attrattività, soprattutto per le giovani generazioni: insieme, certo, al gusto dell’avventura, all’idea di dare una svolta alla propria vita (anche temporanea: non sono pochi coloro che partono per qualche mese, e poi tornano alla loro vita «normale», con qualcosa da raccontare e l’aura dell’avventuriero), alla ricerca di leader e ideali di riferimento attorno a cui strutturare la propria, spesso debole, personalità – non è un caso che molti di coloro che sono partiti fossero, spesso, neo-convertiti o musulmani reborn («rinati», cioè figli degli emigrati in Occidente, ndr), magari di seconda generazione, con una cultura islamica recente, superficiale e abborracciata – tanto più se il premio, in caso di morte, è la vita eterna in un paradiso vagamente edonistico.

Naturalmente, tutto ciò ha poco o nulla a che fare con la realtà vissuta sul terreno: teste mozzate, crocifissioni, stupri di massa, bambine vendute come schiave, donne e bambini sepolti vivi, villaggi bruciati, luoghi di culto, monumenti, croci, cimiteri vandalizzati e distrutti, centinaia di migliaia di profughi e dispersi, pezzi di umanità e di storia millenaria letteralmente cancellati, nel più barbaro e feroce dei modi. Tutto questo, purtroppo, non è nuovo: la barbarie è parte della storia dell’umanità, anche recente. Né è nuovo che questa barbarie venga nobilitata da rozze e semplificatrici interpretazioni del messaggio religioso (islamico, in questo caso). Nuovo è solo che tutto ciò venga postato su Facebook e su YouTube, rivolgendosi non a una platea locale, ma a un’audience globale: l’Occidente, noi. Ma anche i musulmani altri, i musulmani «normali», la grande maggioranza dei musulmani del mondo.

Il messaggio dell’IS è duplice. Da un lato, si propone ai musulmani del mondo come esempio di islam ideale, realizzato (poco importa che la realtà contraddica lo stesso messaggio islamico, praticando una violenza inaudita, che nessuna religione autorizza). Dall’altro, propone all’Occidente un islam minaccioso, che incute paura. Sono due modi diversi di vendere un prodotto comunicativo a pubblici differenti. Il primo pubblico, quello islamico, dovrebbe essere sedotto da questo messaggio; il secondo, quello occidentale, dovrebbe esserne spaventato. In certa misura è precisamente quello che sta avvenendo. Vediamo i due elementi, uno alla volta, cominciando dal lato islamico della vicenda.
 
Una feroce dittatura
C’è una battaglia culturale importantissima, oggi, che si sta combattendo all’interno del mondo musulmano: anche in Europa e in Occidente, tra i musulmani qui immigrati. Perché i guerriglieri dell’IS si ispirano certamente all’islam e in nome di esso combattono: anche se dottrinalmente l’autoproclamazione stessa del califfato è assai opinabile (e infatti non viene riconosciuta da nessuna delle autorità musulmane di qualche rilievo), se i suoi obiettivi non vengono condivisi, e le sue pratiche sul campo fanno inorridire la maggior parte dei musulmani praticanti del mondo, se, in definitiva, molto di quello che predica e che fa non è islamico, e non viene percepito come tale. Ma poco importa, in un certo senso. Quello che conta è il fascino che descrivevamo prima. Ed è indubitabile. Perché, appunto, propone un modello globale di islam realizzato – anche se a spese di altri, inclusi altri musulmani: perché quella praticata all’interno del califfato è, né più né meno, una feroce dittatura, temibile come tutte quelle che pretendono di forgiare una umanità nuova facendo tabula rasa del passato (anche se, in questo caso, in nome di un antico passato islamico, che si propone di riattualizzare) –. C’è dunque un problema interno al mondo islamico: come arginare il fascino discreto del califfato tra i giovani musulmani, molto simile, per molti versi, a quello del terrorismo politico che abbiamo conosciuto in Europa negli anni ’70.

Il problema è fare in modo che il periodo della comprensione per i fini, se non per i mezzi, duri il meno possibile: che i combattenti dell’IS non vengano considerati, come avvenne in una prima fase per i brigatisti rossi, «compagni che sbagliano», ma vengano considerati per quello che sono: dei pericolosi fanatici, degli utopisti assassini. Purtroppo un ventennio di predicazione neo-salafita, ampiamente sostenuta e finanziata dai Paesi del Golfo che oggi si ritrovano annoverati tra i nemici del califfato (a cominciare dall’Arabia Saudita e dagli Emirati), ha di fatto preparato il terreno per questo ritorno all’antico, di cui anche il fascino del califfato è parte. È per questo che all’inizio, tra i musulmani, c’è stato un preoccupante silenzio intorno all’IS: perché crea imbarazzo, anche quando non c’è complicità e sostegno alla causa, e nemmeno simpatia.
 
La sfida dell’Europa
Cosa può fare l’Europa? Molto, naturalmente. Innanzitutto non facendosi trascinare – per paura – nella trappola tesa dal califfato. Dichiarare guerra, anche solo simbolica, all’islam, sarebbe il peggiore e il più controproducente degli errori. Magari invocando la chiusura delle moschee o l’approvazione di leggi, o di referendum, contro la loro apertura. Si tratta di un falso problema. Le moschee sono tra i luoghi più controllati che ci siano. E gli imam sono spesso le persone che più hanno interesse a evitare la presenza di teste calde all’interno dei luoghi di culto. Le moschee non sono quindi un problema in sé, ma un pezzo della possibile soluzione: anche se vanno accompagnate nella loro evoluzione e controllate, nel reciproco interesse.

L’illegalità prospera meglio in situazioni marginali o semi-clandestine, che non laddove tutto avviene alla luce del sole. Ma certo l’Europa dovrà assumersi anche la responsabilità, come già sta facendo, di uno scontro, di fatto di una guerra, contro il califfato in quanto tale. Perché finché esisterà, sarà una minaccia per l’Occidente: per ora attraverso l’esecuzione di ostaggi occidentali, un domani anche attraverso attentati in terra europea. Chi vuole seminare disordine, ha molti mezzi e molte occasioni per farlo, e poche remore. Il problema è, quindi, sconfiggere il neocaliffato sul suo stesso terreno, laddove è nato.

In questo senso, avere i musulmani d’Europa come alleati, anziché percepirli come quinta colonna interna, dev’essere una priorità. Loro già lo vogliono: l’Europa deve fare in modo che accada. Dovrebbe quindi favorire la collaborazione islamica in questa difficile battaglia culturale interna, valorizzando anche le forme di dissociazione e di presa di distanza già presenti, che sono invece troppo spesso taciute dai mass media alla pubblica opinione. È la stessa modalità con cui l’Europa (e l’Italia in particolare) ha sconfitto il terrorismo rosso e nero: non demonizzando le idee e gli ideali da cui originavano, ma ottenendo la collaborazione di chi si ispirava agli stessi ideali, ma con mezzi diversi e rispettosi delle leggi, al punto che anche quelli che erano considerati degli ambienti fiancheggiatori – l’acqua in cui nuotava il pesce-terrorista – sono diventati l’avanguardia della lotta contro il terrorismo, pagando con i propri martiri il prezzo di quella battaglia.

Così è oggi. La radicalizzazione si combatte favorendo i processi di integrazione, e chiedendo contestualmente ai musulmani di aumentare la vigilanza e l’autocritica. Spingere verso la marginalizzazione di interi gruppi di persone innocue rischia invece di favorire precisamente le evoluzioni cui a parole si sostiene di volersi opporre.

*Docente di sociologia all’Università di Padova, specializzato in sociologia delle religioni e profondo conoscitore del mondo islamico.


Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017