I minatori degli «occhi del cielo»

Ci si fa l’abitudine, a essere uomini-talpa. Ci si fa l’abitudine anche al rischio di morire sepolti vivi, pur di trovare gli zaffiri, gli «occhi del cielo».
27 Febbraio 2019 | di

Route National 7, che attraversa l’incantevole parco naturale dell’Isalo e la squallida Ilakaka, la «città» degli zaffiri. Un formicaio di gemme e miseria. Far West malgascio, Sud-ovest di un’Africa che si crede Oriente. Come se fosse sufficiente «credere». Chi scava qui, per gli affaristi asiatici e per le voglie dei ricchi, sono solo facce e mani «nere». Fai fatica a vederle, infilate nei pericolosissimi tunnel sotterranei o nelle fatiscenti miniere a gradoni in bilico su pozzi cristallini.

Lavoro di africani, lavoro da poveri. E nel deserto di sabbia rossa, attorno alla città di latta che si anima solo per comperare e vendere gemme, vivono i minatori. Capanne di paglia, primitive e ancestrali, vestiti di stracci, carichi di bimbi, malattie e miseria. Tutti lì, intorno ai buchi. Senza diritti, ma non senza speranze. Perché si racconta da sempre che la gemma più grande del mondo, quella che ti cambia la vita, è ancora lì sotto, dea capricciosa che attira e uccide. Infatti, nonostante ci sia da parte di molti la richiesta di migliorare le condizioni di lavoro, in termini di sicurezza e di protezione sociale, gli uomini continuano a morire in queste tombe di sabbia. Perché poche sono le compagnie che sfruttano eticamente territorio ed esseri umani.

Due tipi di scavi

Sono visibili nella terra sabbiosa e secca due tipi di scavi. Uno, pericolosissimo e improvvisato, dove a gruppi di tre o quattro, dandosi il cambio ogni quattro ore, si scava in cunicoli a 15 metri di profondità. Una galleria verticale con un elevatore fatto da una corda, un argano e mezzo bidone giallo di plastica, che porta uomini (spesso ragazzini magri e agili) e sabbia. E un trou-buco, un budello-orizzontale nel ventre franoso di questa terra, dove si nascondono le vene preziose. Salire e scendere, buio e luce abbagliante, per fare in fretta ora che inizia la stagione delle piogge e tutto rischia di franare più facilmente. Qui si parla di tanti morti ogni anno. Che scompaiono in queste fosse già pronte per l’uso. Con mogli e figli che li guardano sui bordi dell’inferno. Buio e luce, per capire subito il tuo destino. Ogni secchio di sabbia viene poi accarezzato, granello per granello. Sorridendo, come bambini che sognano. Sogni semplici: un vestito vero, la casa ridipinta, un velo… Uno degli uomini-talpa ha tatuato sul braccio «relas» e forse il sogno è solo questo: un po’ di riposo. Ma paura no, dice, perché poi ci si fa l’abitudine. Anche a morire sepolti vivi, per trovare gli zaffiri, detti gli «occhi del cielo».

L’altro sistema di scavo è quello organizzato in squadre, con un capo locale, per conto di intermediari stranieri. I filoni si nascondono sotto 50 metri d’acqua. In uno di quei laghi cerulei, dove da poco hanno smesso gli scavi, sincronizzati sulle fatiche bibliche di questa povera gente. Su piramidi di sabbia a gradoni, sfidano tutti i giorni la gravità e la sorte a testa in giù. Ma per queste esistenze da termiti, il lavoro è tutto. Joshua ha il coraggio di parlare, nella silenziosa approvazione degli altri, a fine turno. Racconta della rabbia contro le multinazionali straniere cinesi, sudafricane, asiatiche… che arrivano con grandi macchinari per portarsi via zaffiri, oro, nichel, cobalto e tutte le ricchezze che questa terra incantata nasconde. Togliendo identità e dignità alla sua gente. E così si perde l’unicità dello straordinario ambiente naturale malgascio e si stravolgono vita e cultura. La popolazione lascia la terra coltivata e le greggi per morire di fatica nei buchi della sua terra. Che in questa zona – con un vero e proprio patto sancito da un’antica legge divina –, è stata data all’uomo perché la conservasse al meglio e la consegnasse poi alle generazioni future. Le quali, invece, sono spogliate di tutto. «Qui – dice ancora Joshua – non c’è sanità, nessun riconoscimento di infortunio o malattia». Insieme agli altri vorrebbe andare a chiedere più tutele ai suoi padroni malgasci.

 

Il reportage completo, con le foto degli uomini-talpa e la denuncia del loro sfruttamento, è pubblicato sul «Messaggero di sant’Antonio» di febbraio 2019 e nella corrispondente versione digitale.

Data di aggiornamento: 27 Febbraio 2019
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