I mille volti di maestra tv

Negli ultimi anni decine di programmi insegnano ai telespettatori che cosa fare in ogni ambito della quotidianità: dalla cucina al giardino, dall'educazione dei figli alla vita di coppia. Perché lo fa? E perché ne siamo così attratti?
28 Ottobre 2014 | di

Nella televisione italiana imperversa il popular factual, quella galassia di programmi, presenti a tutte le ore, in cui uno stuolo di esperti insegna a cucinare e dipingere casa, a truccarsi e cambiare look, a dimagrire e a far giardinaggio, a educare bambini fuori controllo e ammansire animali domestici «indemoniati», a vendere casa e persino a migliorare l’intesa sessuale con il partner. Tutto uno spignattare, un consigliare, un costruire febbrile. Tutti in cerca di un timone con cui orientare la propria vita personale e domestica in ogni singola attività del quotidiano.

Al centro lei, la televisione, compagna, amica e confidente. Non più con i riflettori sul jet set e sui grandi personaggi della cronaca mondana, ma su di noi e sul nostro soggiorno di casa. Tutti guardati e tutti guardoni. Se un marziano vedesse oggi la nostra televisione, penserebbe che siamo un popolo di pragmatici, maniaci del fai da te e dotati di notevole tempo libero. Altro che stress della vita contemporanea. Altro che incertezza. Altro che società liquida, per dirla con le parole del grande sociologo Zygmunt Bauman. Tutto è controllabile, fattibile e risolvibile. Ma purtroppo i dati delle statistiche smentiscono il quadretto idilliaco. Secondo un’indagine di Swg, metà degli italiani si sente fragile. Cresce il bisogno di certezze e risposte dopo tanta instabilità. Il modello dominante è ancora quello dei consumi, ma la felicità da spot, senza soldi in tasca, non fa più parte dei nostri orizzonti e il futuro appare peggiore dell’oggi, soprattutto per i più giovani. A questo punto il marziano non capisce: non è avvezzo alle contraddizioni della nostra modernità.

Eppure per uno scaltro abitante del pianeta Terra la lettura potrebbe essere facile. La televisione che insegna è il contraltare delle nostre incertezze, del nostro bisogno di soluzioni a buon mercato, perché quello che c’è oltre ci spaventa. Ma il punto non è solo fare un’analisi sulle cause del fenomeno, quanto quello di capirlo per usarlo senza essere usati.
 
Se la realtà diventa fiction
L’esplosione di questo tipo di programmi sulle nostre reti è un fatto recente ed è legato alle evoluzioni tecnologiche del sistema televisivo. «Il digitale – spiega Daniela Cardini, docente di teoria e tecnica del linguaggio televisivo all’Università Iulm di Milano – ha reso possibile la moltiplicazione dei canali, dell’offerta televisiva e, quindi, dei contenuti. Questo tipo di programmi è facile da inserire nei palinsesti e ha dei costi di produzione in genere più bassi, anche se spesso non si tratta di prodotti facili da realizzare, nonostante le apparenze».

Ma nulla di simile poteva accadere alla nostra televisione se non si fossero verificate altre due grandi rivoluzioni. La prima è la crescita esponenziale del web e, di conseguenza, di YouTube, un sito in cui chiunque può pubblicare un video con le proprie prodezze fai da te. «Il tutorial (cioè la spiegazione passo passo di un’abilità pratica) ha origine nella Rete ed è tradotto solo in un secondo tempo in linguaggio televisivo» conferma Cardini. Un esempio per tutti è Clio Make up nato dall’intuizione di una truccatrice di origini venete che inizia a mettere su YouTube le sue esercitazioni, riscuotendo un grande successo. Alcuni marchi del make-up la notano e finanziano il programma televisivo.

La seconda rivoluzione è tutta interna alla televisione ed è l’avvento del Grande fratello. «Il reality show – spiega Cardini – è il punto di svolta della televisione occidentale; da esso deriva il 90 per cento dei contenuti televisivi degli ultimi quindici anni. In effetti anche il factual mette in scena delle persone comuni, le pone sotto la lente d’ingrandimento, le rende protagoniste».

La realtà s’impone prepotentemente sulla fiction. Il limite si fa labile. «Di fatto avviene un ribaltamento – continua Cardini –: è la fiction che, sotto la veste dei programmi verità e factual, prende a piene mani dalla realtà», diventa real­tà tradotta in linguaggio televisivo.

Il grado d’interazione di questi programmi con la realtà del telespettatore ci permette di dividerli in due grandi aree. La prima è il lifestyle tutorial cioè tutti quei programmi che aiutano a migliorare singoli aspetti della quotidianità, come la cucina o il giardinaggio. La seconda sono i programmi di lifestyle coaching, chiamati tecnicamente makeover, in cui un esperto si prende in carico una persona che ha un problema – l’obesità piuttosto che un bambino difficile – e aiuta una trasformazione profonda che andrà a cambiare la vita del protagonista.
 
Sotto la patina dell’intrattenimento
La materia si fa scottante, anche se siamo nell’ambito di programmi di intrattenimento. Insegnare qualcosa a qualcuno è un’azione neutra? Intervenire sull’esecuzione di un piatto, piuttosto che sulla vita di coppia o sull’educazione dei figli, non si trascina dietro anche una visione dei consumi, del rapporto uomo-donna, del ruolo dei genitori? Chi decide i contenuti e in base a quali criteri? Tutti gli spettatori hanno i mezzi per non confondere realtà e finzione?

«Uno dei motivi di successo di questi programmi – risponde Cardini – è che sono molto rassicuranti. Hanno sempre una risposta per tutto, anche per temi forti come l’educazione dei figli, che oggi suscita un grandissimo interesse. Essi prendono dalla realtà, magari danno anche buoni consigli, ma non sono la realtà. E lo spettatore lo sa, è più maturo di quello che crediamo».

Questo è evidente, per esempio, nel programma S.O.S. Tata nel quale «le situazioni di partenza sono spesso esagerate: difficile trovare bambini e genitori così fuori controllo, anche se alcuni aspetti delle vicende narrate sicuramente rientrano nell’esperienza del telespettatore. L’istruttrice che interviene, a sua volta, non è un personaggio reale, è quasi una figura magica. O ha l’aspetto un po’ `gé della tata che prestava servizio nelle famiglie abbienti degli anni Cinquanta, o ha il fisico da belloccia, improbabile in questi contesti. È evidente che si tratta di personaggi televisivi. Il loro intento non è insegnarci a vivere – sarebbe grave – ma riportarci nel perimetro del buon senso. È per questo che i loro consigli funzionano. È un tacito accordo tra spettatore e produzione».
 
Gli ultimi figli del consumismo
Di tutt’altra opinione è Silvano Petrosino, docente di filosofia della comunicazione all’Università cattolica del Sacro Cuore: «Non si possono comprendere il ruolo e il potere di questi programmi, ma anche della televisione in generale, se non si allarga lo sguardo al contesto che li ha generati. Essi sono una delle espressioni del consumismo. Per il consumismo non c’è una gerarchia di valori: esso mette sullo stesso piano il tema della morte, una ricetta o la crema per le ascelle. È tutto uguale, tutto lecito, l’importante è che faccia vendere. E che tutti comprino. In questo contesto è avvenuto un fatto epocale, mai sottolineato abbastanza: la televisione, come del resto il cellulare, è entrata nell’intimità della casa, si è fatta prossima, vicina, amica. Il suo potere è ancora più grande perché ora non mette in gioco solo i nostri sensi più importanti, la vista e l’udito, ma ci offre una relazione senza neppure uscire di casa. Questa intimità acquisita è potentissima e può essere venduta a tutti i soggetti interessati al profitto o al consenso. Oggi la cucina è trendy? Bene, utilizziamo la cucina. Interessa di più l’educazione? Bene, vada per l’educazione. Se ciò che mostro fa audience, va bene in ogni caso».

Distinguere dunque tra ciò che è buono e ciò che è spazzatura, tra ciò che è utile e ciò che è conveniente per interessi particolari non è tra i fini di questa televisione: «Il problema non sta in chi vuole vendere: sta facendo il suo mestiere – specifica Petrosino –. Il problema è che non esistono più voci critiche e che nessuno svolge più il proprio compito sociale di tutela di valori, di diritti, di priorità, di bene comune: gli insegnanti, gli intellettuali, i giornalisti, i genitori, o chi guida le reti televisive». E se anche lo facessero, ammette il professore, non sarebbe facile contrastare il potere della tv: ogni discorso critico apparirebbe sbiadito, petulante, anacronistico.

L’unica voce nel silenzio è quella della Chiesa «che ancora si ostina a parlare di corpo, di rispetto, di uso del tempo». Ma nel silenzio, il rischio è quello della manipolazione, della confusione dei piani, dell’omologazione dei valori. Continua Petrosino: «Lo diceva anche Goeb­bels, il ministro della propaganda nazista, che era nella schiera del male ma che conosceva benissimo i meccanismi della comunicazione: continuare a ripetere che sono giusti e normali comportamenti e valori discutibili, li renderà giusti e normali nella percezione comune. Qualche giorno fa in un programma televisivo una ragazza si stava tatuando all’inguine la famosa farfallina dell’attrice Belén Rodriguez. “Non potrò mai essere come Belén – ha spiegato –, ma almeno ho la farfallina”. Chi libera la ragazza da questa idea? Chi le spiega che può essere una donna attraente e completa anche senza la farfallina di Belén?».
 
Potenzialità sprecate?
Eppure questa televisione che consiglia, suggerisce, accompagna, diverte, incuriosisce avrebbe molto da dire e da dare. È il termometro di un’epoca, di un’ansia di cercare soluzioni di fronte alle piccole e grandi sfide della vita. Il sociologo Zygmunt Bauman ha sostenuto più volte che in tempi d’incertezza, quando vengono meno i punti di riferimento tradizionali e incombe il senso di precarietà, il confronto con le esperienze degli altri è un’àncora di salvezza. L’incertezza accresce il bisogno di guide e di consigli, ma anche il bisogno di condividere. Un’occasione per capire che c’è un problema esistenziale di fondo e, volendo, per aprire nuove strade di senso. E la televisione che fa? «Ha rinunciato a misurarsi tanto con l’idea della modernità quanto con i grandi temi – denuncia con chiarezza Gian Paolo Parenti, channel manager di Mediaset, nella prefazione del libro La televisione che insegna a vivere di N. Barretta e M.E. Santon (Ed. Unicopli) – . Ha scelto la strada dell’intrattenimento, vale a dire di tutto quello di cui ci si può occupare per non pensare alle cose che ci mettono ansia: “bagatelle” quali la morte e le condizioni per una “buona vita”, cioè come si possa vivere un’esperienza piena di senso e come ci si possa ribellare a quelle correnti, a quei campi di forza, a quelle ritualità cui ci sentiamo costretti, subordinati, e che ci trasmettono l’oscura sensazione di rubarci tempo, energie, vita».

Da un’altra angolatura, questi programmi si possono leggere anche come un incredibile e inedito palcoscenico di rivincita dell’uomo. In un’epoca in cui tutto diventa immateriale come la realtà virtuale o la finanza degli spread o dei titoli tossici, il ritorno alla materia e al corpo è un tentativo di resistenza. Fare le cose con le proprie mani, ripescare la ricetta della nonna, restaurare un vecchio comò tradiscono il desiderio di riprendersi spazi, di sfuggire all’omologazione, di passare dal mero consumo all’identità, dall’oggetto standard all’oggetto costruito su misura. Secondo il sociologo Richard Sennet, autore del libro L’Uomo artigiano, il saper fare è connesso al saper essere, aiuta a costruire la propria identità, toglie insicurezza.

Ma anche questo è uno slancio che la televisione si lascia sfuggire, almeno secondo Parenti: «L’insistenza su come fare le cose evita di riflettere sul che cosa si sta facendo. Concentrarsi sul modo di fare una cosa, allontana dalla cosa stessa e dalla paura che essa fa», diventa «una fuga conveniente e tutto sommato condivisa, quindi “onorevole”. Un utilissimo placebo sociale».

Ciò non significa che questi programmi non abbiano una propria attrattiva e qualche buono spunto pedagogico. Possono essere interessanti, curiosi, divertenti, persino utili. Ma una cosa è imparare a cucinare da gran gourmet e un’altra è capire che cosa «bolle in pentola».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017