Gli ostacoli all’imparare

Cresce il numero di alunni iperattivi o con difficoltà a imparare e a concentrarsi. Dati veritieri o gonfiati? Abbiamo cercato di capire qualcosa di più su un fenomeno di cui molto si discute.
25 Novembre 2014 | di

A prima vista sembra un’epidemia. In ogni classe, dalle elementa­ri alle superiori, ci sono alunni con disturbi specifici dell’apprendimento, in sigla DSA, quella che, nel linguaggio comune, è detta dislessia. Sotto questa etichetta, tuttavia, sono comprese anche altre difficoltà, da quelle di calcolo (discalculia) a quelle ortografiche (disortografia), disturbi definiti «specifici» perché riguardano un’abilità circoscritta come la lettura o il calcolo, senza che ciò interfe­risca, dunque, con la capacità intellettiva complessiva. Esempi di persone come Albert Einstein o John Kennedy ne sono la prova.

Se poi si parla di ADHD, il disturbo da iperattività e deficit di attenzione, i dati che provengono dall’estero fanno impressione. Secondo l’American Psychiatric Association, almeno un bambino ogni venti, pari al 5 per cento, avrebbe un grado di irrequietezza e incapacità di concentrarsi tali da giustificare questa etichetta. Ma nel 2011 erano in realtà già 6,4 milioni i ragazzi statunitensi in età scolare con questa diagnosi, vale a dire l’11 per cento del totale. Una percentuale, purtroppo, in continuo aumento.

Sempre negli States, più della metà di loro è in cura con uno dei due farmaci usati in questi casi: metilfenidato o atomoxetina che Oltreoceano qualunque medico può prescrivere su richiesta dei genitori. Il nome commerciale del primo, largamente più diffuso, è Ritalin: da qui la definizione di «Ritalin generation».
 
Leggere, scrivere e far di conto
Facile pensare che si tratti di fenomeni gonfiati ad arte, magari per rimpinguare le tasche delle case farmaceutiche, trovare lavoro agli psicologi, offrire una scorciatoia a bambini indisciplinati e studenti fannulloni o, persino, giustificare genitori impotenti davanti alla loro inadeguatezza educativa. Non sarebbe la prima volta che si medicalizzano condizioni del tutto normali o si abbassa la soglia di quel che è considerato patologico, perché qualcuno ne tragga vantaggio. In questo caso, però, la questione è delicata perché riguarda tutta la società e, nel contempo, la rapidissima, radicale, trasformazione cui è andata incontro, nell’ultimo secolo, ma prima ancora il suo futuro che, da queste generazioni, dipende. Fino a pochi decenni fa, il sistema educativo era molto rigido, la struttura familiare e sociale solida, le regole chiare e solo a una piccolissima percentuale della popolazione era richiesto quel che oggi è la norma per tutti: concentrarsi per molte ore e per lunghissimi anni a scuola; quindi, imparare, presto e bene, a leggere, scrivere, fare di calcolo.

A un contadino dell’Ottocento non raggiungere queste competenze non cambiava la vita. Pochissimi bambini, solo tra quelli che riuscivano meglio, continuavano a studiare. La maggior parte delle persone era impegnata in attività per le quali tutto questo non era indispensabile alla piena realizzazione. «Anzi, nell’evoluzione, per esempio quando l’uomo era essenzialmente un cacciatore, essere facilmente distraibili da stimoli all’apparenza insignificanti poteva offrire un vantaggio» spiega Antonella Costantino, presidente della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza e responsabile della Unità operativa di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza della Fondazione Ircss Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. «Oggi, invece, non riuscire a concentrarsi su attività anche noio­se o non saper leggere fluentemente è una condizione che può essere seriamente invalidante, perché incide in maniera pesante sulle proprie prospettive per il futuro, sul rapporto con gli altri e, di conseguenza, con la propria autostima, innescando fenomeni a catena che possono portare ad altri tipi di malessere mentale. Ecco perché i bambini che presentano queste condizioni, se non vengono aiutati, possono trascinarsi sulle spalle ostacoli di vario tipo anche in età adulta».

Una semplice difficoltà di calcolo non impedisce di accedere alle fasi più avanzate della matematica, dove si sfruttano altre funzioni, come la logica. L’incapacità di leggere ad alta voce o scrivere senza errori non interferisce con la possibilità di apprezzare la letteratura.

«Nella metà dei casi l’ADHD si risolve da sola con il passare degli anni – precisa Stefano Vicari, responsabile della neuropsichiatria infantile presso l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma –, ma in una percentuale variabile dal 20 al 25 per cento comporta difficoltà a mantenere un lavoro o una relazione stabile, fino allo sviluppo di comportamenti antisociali anche gravi. Intervenire precocemente significa prevenire tutto questo».

Se però la discussione continua a ruotare intorno al concetto di «malattia» o, peggio, di «malattia mentale», con tutti i pregiudizi e lo stigma che ciò comporta, si rischia di sviare l’attenzione dal punto centrale, che è quello di un disagio di fatto, che non si può ignorare. «Tutti questi aspetti si presentano con uno spettro di manifestazioni che sfumano dalla “normalità” a forme più certamente patologiche» puntualizza Cesare Cornoldi, docente di Psicologia dell’apprendimento e della memoria presso l’Università di Padova.

La diagnosi, in questi casi, è più discrezionale che non per una polmonite o per un tumore, situazioni in cui possiamo distinguere nettamente chi è malato e chi no. Ma, anche in questo caso, esiste un primo criterio generale su cui basarsi prima di rivolgersi a un Centro specialistico: «Non si parla di ADHD se un bambino è vivace e irrequieto ma questo suo modo di essere non compromette il suo rapporto con gli altri, consente buone relazioni con la famiglia e i compagni, non condiziona la vita sua e di chi gli sta vicino. Lo stesso vale per eventuali disturbi di apprendimento che non incidano, in maniera significativa, sul rendimento scolastico» prosegue il dottor Vicari.

«Quando, però, queste condizioni impediscono a una famiglia di andare tranquillamente a cena da amici o a un ragazzo, di intelligenza normale o superiore alla media, di raggiungere gli obiettivi scolastici che potrebbe conseguire, si deve intervenire».

«È come per la miopia: nessuno viene stigmatizzato o considerato “malato” perché ha bisogno degli occhiali per leggere alla lavagna − prosegue Costantino −. Una volta molti disturbi della vista non venivano riconosciuti per le stesse ragioni per cui non si riconoscevano ADHD e disturbi dell’apprendimento. Oggi, però, abbiamo gli strumenti per rispondere a un disagio le cui radici sono in parte genetiche e in parte ambientali».

«La discussione non deve concentrarsi sul fatto di dare o meno dei farmaci ai bambini – aggiunge Vicari –, ma piuttosto sull’ offrire a ognuno la cura migliore per quel particolare momento. Per i disturbi dell’apprendimento non servono medicine, ma strumenti compensativi: ad esempio, il cd rom con la registrazione della lezione o l’uso del computer o della calcolatrice in classe svolgono lo stesso ruolo degli occhiali nel caso della miopia; e ancora, strumenti dispensativi, previsti dalla legge che richiede agli insegnanti di non far leggere ad alta voce i dislessici, non fare dettati, lasciare loro più tempo per svolgere i compiti assegnati».

«Il punto fondamentale è far capire al bambino che non è meno intelligente degli altri, ma che ognuno ha le sue attitudini e le sue difficoltà» interviene Costantino.
 
Attenzione agli psicofarmaci
Ciò non toglie che una certa superficialità nella diagnosi talvolta ci sia e che, troppo spesso, si giunga a classificare un bambino come dislessico solo perché è un po’ più lento degli altri. «Se i dati epidemiologici sostengono che questi disturbi colpiscono il 3-4 per cento dei ragazzi in età scolare, non dovremmo averne uno o più in ogni classe» sostiene Vicari.

«In una ricerca che abbiamo condotto nelle scuole elementari romane, abbiamo osservato che le percentuali di questi disturbi dell’apprendimento erano molto più elevate nei cosiddetti “anticipatari”, cioè gli alunni inseriti in prima elementare a 5 anni» commenta Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’infanzia, attivo all’interno dell’associazione «Giù le mani dai bambini» che si batte contro l’abuso degli psicofarmaci in età pediatrica.

«In realtà, per fare un esempio, mentre in Italia l’uso di antibiotici e antiasmatici in età pediatrica è di cinque-sei volte superiore alla media del Regno Unito, il consumo di psicofarmaci risulta, invece, di quattro-cinque volte inferiore» puntualizza Maurizio Bonati, responsabile del Dipartimento di salute pubblica dell’Istituto Mario Negri di Milano.

In Italia si rimuove l’idea del disturbo mentale, perché restiamo ancorati a una visione psicologica per cui se un ragazzo soffre di una malattia mentale, diversamente da uno colpito dal diabete, ci deve essere una responsabilità sua o della famiglia. Questo fa mettere la testa sotto la sabbia ignorando il dato per cui sono tra il 10 e il 15 per cento gli adolescenti che hanno una vera malattia mentale. «Tra i più giovani, poi, la seconda causa di morte è il suicidio. Più spesso è legato alla depressione di cui soffre l’8 per cento degli adolescenti. In questo caso il farmaco può salvare la vita. Prima causa di morte rimangono gli incidenti stradali che, a loro volta, possono essere provocati da abusi di sostanze o comportamenti a rischio – aggiunge Vicari –. Per non parlare dell’anoressia, di cui pure si muore».

Difficile trovare una giusta via di mezzo tra attenzione e medicalizzazione. Una diversa cultura del farmaco e della malattia mentale, insieme con l’intervento di esperti preoccupati della deriva americana, ha fatto sì che in Italia la gestione dell’ADHD fosse molto diversa rispetto agli Stati Uniti, soprattutto riguardo al ricorso al medicinale. Nel nostro Paese, l’autorizzazione alla vendita del metilfenidato è stata subordinata all’istituzione di un Registro nazionale, per cui l’indicazione all’uso della medicina può venire solo da centri specialistici riconosciuti.

In Lombardia è stato istituito un altro tipo di Registro. Esso non raccoglie solo i casi più gravi, quelli per cui si somministrano i farmaci, ma anche tutte le richieste di approfondimento diagnostico giunte ai diciotto Centri di riferimento della Regione. «Solo a un terzo di quanti presentano un sospetto di ADHD e si rivolgono a queste strutture viene confermata la diagnosi. A questa fanno seguito un protocollo rigido e l’adozione di criteri precisi e condivisi» riferisce Bonati, che ha coordinato uno studio sulla base dei dati raccolti in Lombardia. «Secondo tali risultati, solo il 3,5 per mille dei ragazzi in età scolare avrebbe il disturbo, quindici volte meno della media mondiale. Il 9 per cento è in terapia farmacologica, un dato che richiama la necessità di intervenire con i medicinali in un numero molto limitato di casi».

Il metilfenidato è uno psicofarmaco il cui utilizzo, soprattutto nei bambini, deve essere limitato ai casi, e per i tempi, in cui è veramente necessario. Il suo effetto è immediato, per cui può servire a interrompere subito circoli viziosi controproducenti, mentre gli interventi psicologici sul bambino e la famiglia, comunque indispensabili, richiedono molti mesi. «I suoi effetti collaterali, però, che riguardano soprattutto alterazioni del ritmo cardiaco, non sembrano rilevanti nei bambini – prosegue Bonati –. Mi preoccupa di più l’abuso che ne potranno fare i grandi, ora che l’indicazione del farmaco è stata estesa all’ADHD degli adulti, dal momento che si tratta comunque di una sostanza stupefacente». E che tra i suoi effetti collaterali contempla una riduzione dell’appetito che potrebbe essere sfruttata per inseguire altri modelli. Questo non significa che il disagio non esista. Chi bussa a questi centri, e non ha l’ADHD, presenta di solito disturbi di ansia o di altro tipo. Ignorare il malessere e le difficoltà dei nostri figli, o peggio ancora finendo per dare la colpa a loro, oppure a noi come genitori o educatori, non aiuta nessuno. «Se invece la situazione è gestita con attenzione ed equilibrio (e con l’aiuto di tutti), questi problemi possono essere tenuti sotto controllo e il ragazzo può davvero avere un percorso scolastico e di vita del tutto normale» conclude Cornoldi.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017