Famiglia e impresa, il segreto della longevità aziendale

Valori, capitale umano, coesione nei momenti difficili. Ci sono imprese familiari che prosperano da qualche secolo. Un bagaglio di esperienze utile anche al nostro tessuto produttivo in cerca di rilancio.
05 Aprile 2018 | di

All’inizio del 1600, quando Angelo Piacenza avviò a Biella, in Piemonte, la sua attività di commercio di lane, Shakespeare era morto da poco, Galileo pubblicava Il Saggiatore, Abel Tasman non aveva ancora scoperto la Nuova Zelanda, e la Rivoluzione industriale era scritta nel libro dei sogni. Per i Piacenza le cose cambiarono nel 1700 quando sorsero i primi stabilimenti. Poi ci sono state le guerre di indipendenza. «Le abbiamo vissute in prima fila – rammenta l’amministratore delegato Carlo Piacenza – perché i campi di battaglia erano praticamente qui fuori dell’azienda. Cavour è venuto a dormire da noi».

Quattordici generazioni dopo, i Piacenza sono ancora lì con i loro 230 dipendenti, alcuni dei quali, come la proprietà, si sono tramandati il lavoro di generazione in generazione. Una storia d’impresa lunga quattro secoli.

In tempi in cui i destini delle aziende si fanno (e, più spesso, si disfano) in un «gioco» perverso che coinvolge broker, affaristi e manager senza scrupoli, interessati più agli indici di Borsa e alle speculazioni finanziarie che non al lavoro come valore umano e sociale, viene da chiedersi che cosa possa insegnare questa invidiabile longevità aziendale.

Piacenza non è l’unica realtà a vantare questo record. A livello internazionale sono quasi una cinquantina. E si sono riunite nell’Associazione degli Enochiani. Motivo di vanto per il nostro Paese è che, tra queste aziende, una su quattro è italiana, e sono ben assortite in tutto lo stivale: dai tessuti all’oreficeria, dai dolciumi alla cantieristica navale, fino alle fonderie.

Per la verità, esistono anche altre titolate aziende che pur non facendo parte di questa organizzazione, hanno alle spalle una lunga storia d’impresa anche se nei secoli sono passate di mano oppure hanno affrontato traversie più complesse. Sopravvivendo e rimanendo fedeli ai motti dei reciproci fondatori.

Nel loro saggio dal titolo Le aziende familiari (Hoepli), Peter May e Thomas Ingelfinger osservano che «l’imprenditore tende a pensare e a sviluppare la propria azienda con un orizzonte temporale di lungo periodo, quasi infinito. Al contrario, la Borsa impone il perseguimento e l’ottenimento dei risultati di anno in anno, di trimestre in trimestre. La Borsa costringe ad agire con un forte orientamento ai risultati, e a formulare la strategia in modo chiaro e rigoroso. Poiché le imprese familiari sono obbligate alla continuità generazionale, devono anche essere interessate a costruire relazioni durature sul lungo periodo».

«Graziano, il nostro direttore di stabilimento, è entrato in azienda quando era ragazzino. Nel 2017 ha festeggiato 50 anni di lavoro con noi» racconta con orgoglio il trevigiano Piero Garbellotto, amministratore delegato dell’omonima impresa familiare produttrice di botti, in quel di Conegliano, dal lontanissimo 1775. In quello stesso anno scoppiava la Guerra d’indipendenza americana che avrebbe portato alla nascita degli Stati Uniti. «Abbiamo anche un padre e un figlio che lavorano assieme nella stessa area di produzione di botti e barriques». E anche il nonno aveva trascorso alla Garbellotto gran parte della sua vita lavorativa.

«Noi consideriamo la nostra lunghissima storia come un bagaglio di valori, e non come un limite – confida Alberto Marenghi, amministratore delegato della Cartiera Mantovana di Maglio di Goito, nata nel 1615, che produce carta per il settore dell’imballaggio e per gli alimenti –. Abbiamo investito per farla crescere affinché fosse in grado di affrontare mercati diversi. Ma i valori e i principi di famiglia vengono prima della competizione economica».

«Gli ingredienti del successo sono la famiglia, lo stare assieme in gruppo, il rispetto tra le persone – ribadisce Garbellotto –. Valori che sommati allo spirito imprenditoriale, riescono a farci raggiungere traguardi davvero significativi. La nostra attività prosegue da 8 generazioni, ed è stata interrotta solo dai due conflitti mondiali. Per il resto, insieme ai nostri bravi bottai, siamo sempre andati avanti».

Di padre in figlio, di marito in moglie

La sfida più difficile che ogni azienda deve affrontare è il «passaggio del testimone» generazionale. I sacrifici di una vita, o di una famiglia e dei suoi ascendenti, si giocano spesso tra le maglie di questo snodo. I discendenti saranno abbastanza capaci e appassionati? Sapranno cogliere questo avvicendamento come un’opportunità? E saranno in grado di affrontare le sfide della loro generazione?

Ciò che si tramanda non è solo un’attività o un’impresa fatta di immobili, apparecchiature, competenze e risorse umane, ma anche lo spirito imprenditoriale, cioè i valori instillati dai fondatori.

«Il motto che ho sentito da mio nonno e da mio padre, e che io ripeto ai miei figli è: “Fai le cose per passione” – ammonisce Piacenza –. Nessuno di noi, nelle varie generazioni, è mai stato costretto a lavorare in questa azienda. Lo abbiamo sempre fatto per scelta perché ci siamo appassionati a questo lavoro. Se fai una cosa solo perché la faceva tuo padre, e non la senti o non ti piace, l’attività è destinata a non funzionare. Con la passione si possono raggiungere tante mete anche senza essere per forza Einstein». Piacenza si è diplomato al Liceo scientifico prima di entrare in azienda. I suoi figli, invece, si sono laureati negli Stati Uniti, e hanno lavorato anche per altre aziende prima di inserirsi in quella di famiglia. Qui il passaggio generazionale è stato quasi del tutto completato.

«Nel nostro caso – aggiunge Marenghi – le scelte più importanti dell’ultimo secolo, sono state fatte dalle donne di famiglia. Nel 1931, mio nonno Alberto Levi Minzi morì improvvisamente, e la cartiera fu affidata a mia nonna Dina Marenghi. Allora era molto giovane e aveva due figli piccoli. Lavorò alla cartiera fino al 1977 quando morì. Nel 1996, la stessa sorte del nonno toccò a mio padre Franco Marenghi. Così mia madre Cristina Merciai Marenghi prese le redini dell’azienda».

Altro ingrediente del successo è il saper innovare. A partire dalla digitalizzazione. «Grazie ad alcuni studi universitari abbiamo adottato tecnologie che ci consentono di sapere con certezza, in origine, l’aroma che rilascerà il legno delle botti al vino – dice Garbellotto –. Inoltre annoveriamo la tostatura controllata digitalmente, con un tablet. Sono novità che migliorano le condizioni lavorative, ma che non sostituiscono l’uomo. La persona rimane il fulcro dell’attività. Le relazioni nate sul posto di lavoro favoriscono il benessere, e garantiscono crescita e prosperità».

Azienda e identità, cultura e genius loci

Non ultimo tra i valori d’impresa, c’è anche il radicamento nel territorio. L’identità culturale di chi vive e lavora in un contesto geografico. Insomma il genius loci. «Noi ci sentiamo parte di quest’area del mantovano che, a sua volta, ci riconosce una storicità eccezionale – ammette Marenghi – e la capacità di stare sul mercato al passo con i tempi. Insomma è un rapporto d’amore reciproco».

«L’errore da non commettere mai è quello di mollare – avverte Piacenza –. Infatti è perseverando che si raggiungono gli obiettivi, anche quelli più difficili. Bisogna avere coraggio, ma pure disponibilità al sacrificio». Anche la curiosità può fare la differenza. «Oggi si va in estremo oriente in poche ore d’aereo, ma senza esplorarne gli aspetti culturali. Mario Piacenza, fratello di mio nonno Enzo, nel 1910, durante una spedizione sull’Himalaya scoprì il cachemire perché notò che gli sherpa avvolgevano i piedi con tessuti ottenuti dalla lana delle caprette che pascolavano sugli altopiani tibetani. Il mio bisnonno Felice intuì la bellezza dei rododendri originari dell’Asia che importò creandone degli ibridi, e piantandoli su una collina, La Burcina, a ridosso di Biella. E a maggio la vallata dei rododendri “esplode” in una fantastica tavolozza di colori».

Oggi come vede il rapporto con l’Asia? «Sembrava che la Cina dovesse spazzarci via – rammenta Piacenza –. Quello che ci salva è la nostra cultura, il nostro saper fare. Un conto è copiare, un altro conto è inventare cose nuove. Nella moda noi siamo ancora quelli che inventano e che propongono. Poi gli altri copiano».

Una regola aurea per il successo d’impresa non esiste. Ma Peter May e Thomas Ingelfinger offrono alcuni consigli che valgono per tutte le aziende, non solo per quelle familiari: «un’impresa dovrebbe sempre curare e far valere i propri vantaggi culturali. I valori e gli obiettivi dei proprietari devono essere comunicati in modo attivo all’impresa, e da questa fatti propri. Perciò le idee dei proprietari devono essere sperimentate e vissute in maniera credibile da loro stessi, e dai manager dell’azienda. Con atti simbolici e sistemi di management adeguati, la visione dei titolari va trasferita, senza contraddizioni, fino all’ultimo dipendente. Vi è un semplice test per capire se questi sforzi hanno successo: quando per la prima volta si visita un’impresa, alla prima persona che si incontra, si pone una domanda: “che tipo di impresa è questa?”. E capita spesso di notare che se arriva una risposta breve, essenziale e precisa, di solito tra cultura aziendale e risultato vi è sintonia».

Data di aggiornamento: 05 Aprile 2018
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