Eugenio Borgna. Elegia della fragilità

La debolezza non è un limite, bensì una forza. Lo diceva già san Paolo. Eugenio Borgna, psichiatra di chiara fama, riflette su una condizione umana, propria di adolescenti, anziani, malati...
29 Ottobre 2014 | di

Se i passi della falcata prodigiosa di Eugenio Borgna sono rapidi, ancora più veloce, lucida e penetrante è la sua mente. E la sua vista, che pur abbisogna di spesse lenti di occhiali, è acuta e capace di vedere sempre «oltre». Il professore ha ascoltato la sofferenza psichica di tante persone, ha lenito il male di vivere di molti. Ha studiato la mente umana in tutte le sue manifestazioni, anche attraverso la letteratura: predilige le opere di Virginia Woolf, le Confessioni di sant’Agostino, lo Zibaldone di Giacomo Leopardi, i pensieri del filosofo Blaise Pascal.

Vera autorità della psichiatria italiana, Borgna ha anche la passione della scrittura: ha pubblicato numerosi libri, il più recente dei quali è La fragilità che è in noi (Einaudi). Nel volumetto − pura poesia − prende in esame la fragilità che nasconde valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza, di dignità, di intuizione dell’invisibile. Fragile è tutto ciò che si può rompere, come un fiore imperlato di gocce di rugiada.

Abbiamo incontrato Eugenio Borgna, lo scorso settembre, al Festivaletteratura di Mantova, dove il pubblico gli ha riservato un’autentica ovazione.

Msa. Lei ha scritto: «Avvertivo il desiderio di una verità più grande di quella che di solito osserviamo». L’ha trovata?
Borgna. Ci sono cose che si riescono a intuire, a presagire, a trovare, solo se si ritiene che alla realtà apparente se ne accompagni una più vera, una più profonda; solo se non si rifiuta l’idea che al finito si accompagni anche l’infinito, che le cose transitorie abbiano invece in sé questo germe che ci parla di un oltre (come dice san Giovanni della Croce). Anche lo scrittore e drammaturgo Rainer Maria Rilke ci porta a intuire una realtà oltre la realtà, qualcosa che smentisce l’apparenza delle cose, cogliendone l’incompiutezza. Esse si compiono quando si ammette che esiste questa seconda realtà che è quella della speranza, dell’infinito.

Diversi anni fa (invece della carriera universitaria) lei scelse di occuparsi della sofferenza delle pazienti dell’ospedale psichiatrico femminile di Novara. Perché?
Intanto perché probabilmente alcune scelte fondamentali della vita avvengono sulla scia di quello che un grande psichiatra svizzero chiamava espressamente «attitudini interiori». Ci sono attitudini nascoste, correnti carsiche, che a volte riescono a realizzarsi quando il destino o la vita ci presentano eventi inattesi. All’inizio della mia carriera lavoravo in una grande clinica per le malattie nervose e mentali: constatavo come ai pazienti psichici non venisse data alcuna importanza (che era riservata solo ai malati neurologici). Allora mi chiesi quanta attitudine avessi io a confrontarmi con le malattie neurologiche, oppure se per me fosse preferibile occuparmi di quelle che erano e che sono ancora oggi considerate malattie di serie di B: cioè le forme di «sofferenza psichica» (definizione più scientifica e comunque più umana rispetto a quella di «malattie mentali»).

Lei dice che oggi in Italia c’è la migliore delle psichiatrie possibili e che ora la psichiatria può essere realizzata in modo creativo e umano. In questi anni com’è cambiata la cura della sofferenza psichica?
La psichiatria è nata duecento anni fa: dal punto di vista della storia della medicina, è una scienza recente.

Sono cambiate le cure farmacologiche della sofferenza psichica. È cambiata la psichiatria come scienza medica, come scienza che studia gli aspetti medici. Ma la psichiatria come premessa alla cura farmacologica non è cambiata. La psichiatria come ricerca dell’impossibile, come ricerca di quello che pensano gli altri, la psichiatria come ricerca delle intenzioni, dei sentimenti (premessa per la cura farmacologica) non è cambiata. È cambiata l’applicazione farmacologica, a volte in maniera decisiva, di quelli che sono gli aspetti psicologici. Questi problemi psicologici, fondamentali per la diagnosi e per la cura, sono considerati però da alcuni esclusivamente «ideologici». Per costoro l’ascolto dei pazienti, l’interpretazione di quello che sentono, sarebbe assolutamente inutile.

«Non c’è cura della follia se non quando la somministrazione farmacologica sia inserita in un contesto di ascolto e di dialogo senza fine» lei scrive nel volume La fragilità che è in noi. Perché un libro sulla fragilità?
La ragione è che la fragilità è la mia forza. Si ricordino le parole di san Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi (12,9-10): «Ed Egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte». La debolezza è sempre stata una delle parole tematiche alle quali attribuivo grande importanza nel riconoscere che cosa siamo noi, che cosa sono io (ogni libro è sempre in qualche modo una «autobiografia mascherata»). Se uno appartenesse alla razza delle persone forti, non si metterebbe a scrivere un libro sulla fragilità!

La fragilità ha come sua connotazione essenziale il fatto di spezzarsi come un cristallo. Noi possiamo distinguere le emozioni fragili e quelle forti. Le prime non si possono mediare, modificare: o vivono o muoiono. Tra queste c’è la speranza che, se ferita, è ferita una volta per tutte. La rabbia invece è così compatta, così rigida che non subisce alcuna modificazione.

Allora, partendo appunto dalle Lettere di san Paolo e dal fatto che sono «fragili» alcune delle esperienze più significative della vita, mi sono trovato a indicare quali emozioni possano essere considerate deboli, cioè sottoposte alla legge «del tutto o del nulla». Deboli sono la speranza, la gioia e il dolore dell’anima…

Quali sono le caratteristiche delle persone fragili?
Le persone fragili sono quelle che sono infinitamente più sensibili nel cogliere lo strapotere delle certezze. E quindi la fragilità è anche indice della coscienza del limite, del confine. Se ho consapevolezza di che cos’è la fragilità, cercherò di essere cosciente delle cose che possono mettere in pericolo la mia condizione, e soprattutto del rischio mortale che hanno le sicurezze. Le certezze in psichiatria – come nella vita – sono pericolosissime.

Paradossalmente, essere fragile non significa essere debole, ma avere un’acuta coscienza della relativizzazione delle certezze apparenti. Essere fragile significa avere rispetto per gli altri. Se mi ritengo portatore di verità, mai valuterò le mie fragilità e soprattutto quelle degli altri. Valutare le fragilità nei pazienti di psichiatria significa non fare nulla che possa ferire questa fragilità.

Tornando a san Paolo, la fragilità è una virtù «evangelica»?
Certo. La nozione stessa è nata con la visione del mondo che il Vangelo ha rappresentato.
La fragilità evita di imporre i gesti che pensiamo partendo dalla nostra visione del mondo e non dalla comprensione della visione degli altri.

Secondo lei sono fragili i malati, gli anziani, gli adolescenti…
Innanzitutto la fragilità è un elemento costitutivo di ogni adolescenza e di ogni giovinezza; anche se queste vivono in un clima culturale che guarda alla fragilità come a una esperienza di vita inutile che rallenta la realizzazione delle cose. Meno vita interiore e meno consapevolezza della nostra debolezza abbiamo, e più siamo portati ad agire istintivamente, senza grandi riflessioni.
La coscienza della fragilità è propria solo delle persone «etiche». Avere coscienza del valore della fragilità significa non compiere azioni, gesti che possano fare del male agli altri. Se non si ha coscienza della fragilità degli altri, si creano disastri nelle scuole, nelle famiglie…

Un conto, lo ribadisco, è riconoscere la nostra fragilità, ma ancora più importante è cogliere quella degli altri, cosa però difficile se non abbiamo in noi almeno qualche scheggia di fragilità.

Ma il mondo va in una direzione opposta…
Sì, però sono le minoranze che trasformano il mondo… D’altra parte noi, come ha affermato una volta lo scrittore François Mauriac, siamo come i «primi cristiani». Quindi, poche o tante che siano, le persone fragili si uniscano.

I social network sono un antidoto alla solitudine?
Sono il disperato tentativo di riempire tutto il desiderio che si ha di entrare in comunicazione con gli altri. Il dialogo però costa fatica, impegno. Un colloquio ha bisogno di rispetto.

La comunicazione attraverso internet è un tentativo disperato di riempire il vuoto, la solitudine: la cosa però «tiene» per un qualche tempo e poi si rivela solitudine ancora più disperata. In Rete l’interlocutore cambia sempre e i legami non sono approfonditi, sono legami «apparenti», perché è impossibile cogliere affinità oppure discordanze attraverso contatti che non abbiano la vita vera a confronto.

La fragilità – lei scrive – è «visibile solo agli occhi bagnati di lacrime».
È una bellissima immagine dello scrittore Hermann Broch, espressione del resto usata anche da Simone Weil (che la riprende dal Libro di Giobbe). Significa che, se nella propria vita si conosce la sofferenza, si eviterà di far soffrire gli altri e si capiranno le cose di cui si parlava all’inizio, le cose che sono più importanti, quelle che non si vedono, quelle che non si dicono; perché le cose non dette sono ancora più importanti di quelle dette.
 
 
BIOGRAFIA

Eugenio Borgna (Borgomanero, NO, 1930) è primario emerito di Psichiatria dell’ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Negli anni Settanta a Novara volle un «manicomio dalle porte aperte» (in linea con lo psichiatra Franco Basaglia) nel quale ogni forma di aggressività o di violenza fosse cancellata. Con Feltrinelli ha pubblicato: Malinconia, Noi siamo un colloquio, L’attesa e la speranza, Le emozioni ferite, La solitudine dell’anima, La dignità ferita, Di armonia risuona e di follia.

Nel volume La fragilità che è in noi (Einaudi) scrive, tra l’altro, che le persone fragili non hanno bisogno di farmaci, ma di presenze umane capaci di ascolto e di creare una comunità di cura, nella quale il più forte dia una mano al più debole: «La comunità di cura è una forma di vita, di vicinanza umana e di solidarietà, alla quale siamo tutti chiamati, non solo medici e psicologi, ma genitori e insegnanti, e nella quale la timidezza e l’insicurezza, l’inquietudine adolescenziale e la debolezza anziana, la gentilezza e la mitezza, possano trovare ragioni di speranza».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017